Continua su Borderfiction Zone la serie di incontri con gli autori della collana in ebook di Delos Digital Spy Game – Storie della Guerra Fredda. Dopo Enzo Verrengia, Giovanni Ingrosso e Andrea Carlo Cappi, conosciamo Valentina Di Rienzo, autrice entrata da poco a far parte della squadra, con un un curriculum di cinque romanzi e due riconoscimenti nell'arco di un anno, in due edizioni consecutive del Festival Torre Crawford: il Premio "Il Prof" (dedicato alla memoria di Stefano Di Marino) nel 2022 e il Premio Torre Crawford nel 2023.
Valentina Di Rienzo: l'esigenza del thriller
SG: Benvenuta in Spy Game. Presentati al pubblico.
VDR: Mi chiamo Valentina e non scrivo da un giorno. Qualcuno dovrebbe inventarlo per davvero, il gruppo di mutuo aiuto degli Scrittori Anonimi. O magari esiste già e devo solo scoprirlo. Chissà.
Sono nata nel 1984. Mamma e papà mi hanno cresciuta con l’idea che la televisione fosse il male e, ci crediate o no, il loro movente non si era generato sulla convinzione che il tubo fosse saturo di seni e sederi - erano gli anni di Drive In - o dei messaggi elettorali del Cavaliere. Piuttosto ritenevano che quella fosse una distrazione poco formativa per la mia creatività e per il mio futuro, di sicuro non la migliore. Quale ne sia il vero motivo, questa decisione ha fatto sì che dovessi escogitare un sistema per passare il tempo, soprattutto perché ero una bambina introversa e timida, a tratti asociale. Con gli anni poi sono peggiorata.
Prima ancora che imparassi a scrivere dovetti quindi inventarmi un sistema per passare le giornate. Mi si apriva un bivio: potevo sezionare animali e intraprendere una serena carriera da omicida seriale - peraltro rara, in quanto femmina - oppure impiegare l’unica passione che a quel tempo avevo. Disegnare. Amavo Diabolik e Dylan Dog, mi piaceva molto ricopiare le loro tavole oppure disegnare, mia sponte, soggetti che ne fossero ispirati almeno nello stile.
SG: Dal disegno come sei arrivata a scrivere thriller?
VDR: Il passo successivo fu una sorta di sincrasia. Mescolai in un amalgama dai contorni indefinibili i miei hobby. Con il passare degli anni la TV era diventata sempre più accessibile anche alla sottoscritta. Mi ero innamorata del disneyano Aladdin, guardavo volentieri i vari cartoni animati del periodo. Ero appassionata anche a I cavalieri dello zodiaco; la mia già fragile psiche ne fu presto ricompensata quando un vero genio fu assunto per scegliere gli spot trasmessi dal canale: incurante del target di riferimento dell’emittente in quel particolare orario pomeridiano, costui (o costei) pensò bene di inserire il trailer di Twin Peaks fra una puntata e l’altra dell’anime. Scene spaventose, quelle della pubblicità in questione, che mi hanno perseguitata fino all’età di vent’anni. Mancava però la ciliegina sulla torta.
A circa otto anni vidi per la prima volta It, il film in due episodi creato per la televisione... Stia calmo, assistente sociale, erano gli anni Novanta e le concezioni generali sull’educazione dei più piccoli molto meno stringenti rispetto a oggi; stringente era invece l’ambivalenza di opinione dei miei genitori, è evidente. It fu una specie di epifania, per la mia mente. Il caro Stephen lì aveva piazzato di tutto: la pubertà e l’inizio di adolescenze travagliate, problemi familiari, i primi amori, un pagliaccio omicida, la metafora del fatto che ciò che non risolvi da piccolo tornerà in forma ancora più mostruosa quando sarai adulto. Cosa però più importante, It mi iniziò alla lettura. Fu il primo romanzo degno di questo nome - un libro da grandi - che lessi nella mia vita.
La prima vera forma di creatività che concretizzai dopo il disegno fu la creazione di un fumetto. Da cima a fondo, storia, dialoghi e illustrazioni. Del resto avevo dieci anni e nessuna idea che quel lavoro richiedesse in realtà l’impegno di diverse figure professionali. Il tentativo fu fallimentare. Nel giro di quattro, cinque tavole l’impresa mi apparve titanica - come in effetti era - e irrealizzabile, perciò deposi matita e blocco di fogli. Mi era rimasta però la voglia di raccontare una delle molte storie che mi passavano per la testa. Dal nulla, senza che io le cercassi o le stimolassi, almeno consapevolmente.
L’unica soluzione che mi sembrò praticabile fu provare a metterle nero su bianco. Non sulla carta ma sullo schermo dell’Intel 486 che mio padre ci aveva regalato. La storia era embrionale, sconclusionata, ma il solo fatto di scriverla, l’azione di crearla, mi piacque. Così diventai una ventenne lettrice di thriller - amavo molto Jeffery Deaver - e un’aspirante scrittrice. Della mia passione per il disegno avevo fatto un lavoro, la grafica pubblicitaria.
SG: E a questo punto comincia la tua avventura nel thriller...
Il mio primo romanzo (Il vangelo segreto) fu pubblicato nel 2011 da Edizioni Centoautori. Racconta la storia di una giovane egittologa americana che vive e studia al Cairo e, suo malgrado, si trova a inciampare in un antico papiro copto, il cui ritrovamento mette a repentaglio la vita sua e di tutti quelli che la circondano.
La promozione mi portò a conoscere alcuni autori, inoltre iniziai a muovere timidamente i primi passi nell’ambiente dei narratori della mia città, Milano. Approdai così ad Andrea G. Pinketts, Andrea Carlo Cappi e Stefano Di Marino. Quando mi avvicinai a loro per la prima volta, per me fu difficile anche solo pensare di aprire bocca. Li avevo raggiunti durante uno degli storici incontri settimanali, qualcosa che ai miei occhi di ragazza appariva come una via di mezzo fra l’invadenza e lo stalking. Perdipiù avevo scoperto che Cappi non solo era un prolifico e bravissimo autore italiano ma anche uno dei più capaci traduttori del mio amato Deaver. Una sorta di creatura mitologica, lì, proprio a pochi passi da me.
Pinketts era Pinketts, che altro potrei dire? E poi c’era Stefano Di Marino, il Prof. Si sarebbe aggiunto alle mie conoscenze, poco tempo dopo, Giuseppe Foderaro, che è diventato negli anni un mio caro amico. Ora. Uno si aspetterebbe che autori così siano inarrivabili, inaccessibili, trincerati dietro spessi scudi di meritata fama e successo. Avrei scoperto più avanti che non sempre è così. Il successo non segue teorie logiche, non accompagna necessariamente i meriti e la fama non è sempre in grado di colmare la solitudine.
Da tutti loro ho imparato qualcosa. Tutto ciò che so sull’azione, sulla costruzione di una scena di combattimento, sulle armi da fuoco e da taglio, su come riportare sulla carta una scena erotica, lo devo al Prof, ai suoi manuali, ai suoi corsi di scrittura creativa cui ho potuto partecipare e ai suoi numerosissimi romanzi. Era un uomo estremamente ricco di fantasia, pieno di talento, ma che non si risparmiava quando poteva trasmettere queste immense passioni e capacità.
Da allora sono trascorsi oltre dieci anni e purtroppo Stefano non è più tra noi. È stato commovente vincere il premio a lui dedicato nel corso della terza edizione del Premio Torre Crawford e ancora di più lo è stato essere invitata a partecipare a questa bellissima raccolta di storie di spionaggio da lui creata. Oggi il testimone è nelle mani di Andrea Carlo Cappi, uno fra i suoi più cari amici.
SG: Abbiamo conosciuto il tuo nuovo protagonista, negli episodI Almujanad-La recluta e Abn'awah-Lo sciacallo, inizio di una serie dall'ambientazione insolita.
Il protagonista della serie è Hazim Shawqi, un agente ventiduenne della Polizia Nazionale del Cairo. All’inizio della storia Shawqi lavora all’interno del deposito prove del commissariato, ha quindi un ruolo marginale, potremmo dire, nelle forze dell’ordine.
SG: Cosa ti spinge a tornare letterariamente al Cairo e a scegliere proprio il 1970?
Sono appassionata all’Egitto da moltissimi anni - sia all’antichità artistica e storica sia al Paese che è oggi, sebbene sia un luogo non semplice e di certo non a misura d’uomo. Nel 2006 ebbi la fortuna di visitarlo attraverso una crociera archeologica sul Nilo che mi consentì di vedere Il Cairo, appunto, e poi il resto, giù fino alla Nubia e al confine con il Sudan. A quel tempo stavo scrivendo il romanzo che cinque anni più tardi sarebbe stato pubblicato da Edizioni CentoAutori, la mia opera d’esordio: Il vangelo segreto, thriller storico-archeologico ambientato ai giorni nostri. Oggi quel romanzo è disponibile in una seconda edizione - rivista e corretta - che risale al 2021 e che, alla scadenza dei diritti del “vecchio” editore, ho ripubblicato in autonomia su Amazon KDP. È l’episodio pilota di una serie di tre romanzi nei quali ritroviamo i medesimi personaggi, fra cui Raul Ferrini, il tenente dei carabinieri cui ho dedicato un primo spin-off dal titolo L’esigenza di uccidere (Morellini Editore, 2022) e un secondo che si chiama Il favore delle tenebre (Morellini Editore, 2023).
Questa lunga premessa bibliografica mi serviva per rispondere alla domanda principale: Hazim Shawqi è uno dei personaggi di quel primo romanzo. Ne Il vangelo segreto, Shawqi è però un uomo adulto, ultracinquantenne, ed è arrivato al grado di colonnello della Polizia Nazionale. Anche un altro personaggio che compare ne Lo sciacallo si trovava già in questo romanzo: Anwar Hassan. Quando sono stata invitata a partecipare alla collana Spy Game mi è perciò venuto naturale pensare di sfruttare le biografie di due personaggi che avevano già fatto parte del mio universo narrativo. A maggior ragione è stato stimolante chiedermi cosa li avesse portati a diventare i personaggi che erano ne Il vangelo segreto. Ma devo evitare spoiler.
Mi limito ad aggiungere qualche parola sull’ambientazione geografica e temporale: l’Egitto era un luogo che avevo visto di persona e il cui scenario politico-economico conosco perché ne sono appassionata e perché avevo già fatto delle ricerche per gli altri miei romanzi. Approfondendo il periodo storico che mi interessava, ho subito realizzato che, sebbene non fosse coinvolto direttamente nella Guerra Fredda, anche l’Egitto offriva un panorama socio-politico interessante per una serie di spionaggio.
Il 1970 fu l’anno della morte del presidente Nasser, che fu sostituito da Sadat. Nasser stesso aveva creato un’organizzazione segreta che vigilava sui nemici del sue regime, era da poco nata la Fratellanza Musulmana e via dicendo. Avevo per le mani ottimi spunti su cui imperniare la creatività. Il primo episodio della serie, La recluta, inizia nel febbraio del 1970: a quel tempo fra le sabbie e la terra arida d’Egitto ribolliva lo scontento e un sempre più feroce desiderio di rivalsa contro il governo, e soprattutto verso un presidente che aveva ormai deluso le aspettative su entrambi i fronti politici, perfino fra i suoi sostenitori. C’era poi la questione del conflitto con Israele, le ferite della sconfitta subita durante la Guerra dei sei giorni non si erano ancora rimarginate. Il febbraio di quel 1970 mi è sembrato immediatamente il momento perfetto da cui far partire la serie.
SG: Le tue storie di spionaggio denotano capacità e competenza. Quali sono le tue letture e visioni di questo genere? Qual è il tuo approccio alla spy story?
Qui casca l’asino, come si suol dire. Grazie per il complimento, ma in realtà non sono una grande esperta di spionaggio letterario o cinematografico, almeno non di quello classico. Ho visto qualcuno dei film di 007 e letto il romanzo apocrifo di Bond scritto da Jeffery Deaver. Temo che molti lettori della serie ora chiuderanno la pagina e smetteranno di seguirmi.
Scherzi a parte, restando sui classici, purtroppo, non posso annoverarne molti altri fra le mie letture. Ho seguito con piacere qualche serie TV e ho amato/amo le storie di Stefano Di Marino, specialmente quelle de Il Professionista. Il fatto è che sono sempre stata molto più appassionata di crime, di noir, di poliziottesco, anche d’azione. Il giallo canonico stesso - inteso come quello all’inglese, per esempio, mi annoia un po’. Prediligo storie con più adrenalina oppure più dure, più pulp, come per esempio la celeberrima serie con Duca Lamberti di Scerbanenco, che ho letteralmente adorato, o tanti altri autori italiani, Enrico Pandiani fra i miei preferiti. A Di Marino stesso, così come ad Andrea Carlo Cappi, devo l’avermi insegnato - perlopiù attraverso i loro testi e le narrazioni - come scrivere lo spionaggio.
Credo infatti che il mio stile nella collana sia un po’ più action di quanto una classica spy-story dovrebbe essere. D’altro canto trovo affascinante anche raccontare gli appostamenti, i pedinamenti e il mestiere più analitico tipico del genere. Quando mi è stato chiesto di scrivere il pilota di questa serie, devo ammetterlo, ero intimorita proprio per il fatto di non reputarmi una grande conoscitrice del tema. Per me era una sfida e non mi sarei tirata indietro per nessun motivo al mondo. Quando poi ho iniziato a scrivere La recluta mi sono resa conto di quanto fosse divertente intessere una trama spionistica, soprattutto per via dell’ambientazione. Non ho vissuto personalmente il periodo storico di cui scrivo, gli anni Settanta, ma posso ripescare informazioni dai libri, dalle foto d’epoca e soprattutto dai racconti di mio padre che in quegli anni era adolescente - e ha ottima memoria, sebbene pensi il contrario.
Ho rispolverato, fra le altre, la mia curiosità sulla fotografia come era intesa a quel tempo, andando a frugare anche fra i ricordi delle scuole superiori, quando sviluppavamo in camera oscura dalle pellicole in bianco e nero. Io potevo usare una bella reflex della Pentax, che è di mio padre; le fotocamere digitali, nei primi anni Duemila, erano ancora rare e dai prezzi proibitivi. Insomma: il mio approccio a Spy Game è stato una vera full immersion in manuali, serie TV, quel poco di romanzi che il tempo che avevo a disposizione mi consentiva di leggere, tanta ricerca sul web e qualche domanda al papà. Un po’ più complesso è reperire materiale sull’Egitto degli anni Settanta, ma per quello ci sono il buon senso e la fantasia.
Sono veramente orgogliosa di poter scrivere questa serie, quindi aspettatevi a breve nuovi sviluppi per Shawqi, Samira e Hassan!
Gli episodi di Spy Game di Valentina di Rienzo
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