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mercoledì 28 novembre 2018

Unsane: la legge della follia



Recensione di Andrea Carlo Cappi

Non esiste una definizione canonica per il filone del thriller dedicato agli stalker, rientra in genere nella grande categoria dello psychothriller. Ma di fatto lo stalking thriller – chiamiamolo così – esiste e ha sue caratteristiche specifiche, anche se nella maggior parte dei casi le abbiamo viste declinate in modo banale in sottoprodotti di narrativa e tv movies.
Ma ci sono stati esempi illustri, a partire dal romanzo di John D. McDonald The Executioners, pubblicato in Italia sull'onda (e con i titoli) di due celebri film: Il promontorio della paura di J. Lee Thompson e il remake Cape Fear di Martin Scorsese. In quel caso uno psicopatico (Robert Mitchum e Robert de Niro nelle due versioni cinematografiche) perseguitava l'uomo la cui testimonianza lo aveva mandato in galera (Gregory Peck e Nick Nolte, rispettivamente), minacciandone la famiglia.
Se vogliamo, anche il mitico Duel di Steven Spielberg – in origine un tv movie tratto da Richard Matheson – ne è una variazione sul tema, in cui un ignoto camionista insegue il viaggiatore di commercio interpretato da Dennis Weaver. Non meno inquietante e altrettanto memorabile è Quando chiama uno sconosciuto di Fred Walton, in cui il bersaglio della persecuzione è una baby-sitter, poi madre di famiglia, interpretata da Carol Kane; il film è stato in parte ispiratore di Scream di Wes Craven.
Curioso a dirsi, alcune delle pellicole più significative del filone raccontano di stalker al femminile, come Brivido nella notte – primo film da regista di Clint Eastwood – in cui questi interpretava un dj radiofonico perseguitato da un'ammiratrice (Jessica Walter); o come Attrazione fatale di Adrian Lyne in cui Glenn Close se la prendeva con Michael Douglas; il quale se le va proprio a cercare, visto che si trova in una situazione analoga con Demi Moore in Rivelazioni di Barry Levinson, tratto dal romanzo di Michael Crichton.


Stalking in inglese significa «braccare» ed è oggi un termine associato, finalmente anche in Italia, a predatori e persecutori sessuali. E in Unsane di Steven Soderbergh ne è vittima Sawyer Valentini (Clare Foy), che dopo due anni di persecuzione, costretta a trasferirsi da Boston alla Pennsylvania, non riesce a liberarsi dal disturbo da stress post-traumatico che la porta a rivedere ovunque David Strine (Joshua Leonard), l'uomo che dice di amarla. Per questo chiede un colloquio con una terapeuta specializzata in una clinica privata.
E qui comincia un incubo con echi di Kafka e Buzzati che rende il film particolarmente originale: nel colloquio sono emersi occasionali pensieri suicidi e, firmando una serie di moduli apparentemente innocui sulla privacy, l'ignara Sawyer ha dichiarato di volersi sottoporre a ricovero per ventiquattr'ore. A nulla vale chiamare la polizia, che alla reception trova i documenti firmati dall'involontaria paziente. Quando Sawyer comincia ad avere reazioni violente al sequestro di persona legittimato, viene trattenuta per un'ulteriore settimana.
Si tratta in realtà di una truffa alle assicurazioni che sfrutta la legislazione sanitaria americana e non c'è modo di ribellarsi, come le spiega Nate Hoffman (Jay Pharoah), un degente che sembra sapere molto di più di un paziente normale.
Ma la situazione per lei peggiora quando riconosce il suo stalker in tale George Shaw, addetto alla distribuzione dei farmaci. Nessuno le crede, com'è ovvio: è un parto della sua fantasia malata, che ancora una volta le fa vedere Strine nel volto di un estraneo. Come avrebbe potuto lui sapere dove lei si trovava e farsi assumere dalla clinica? O invece è tutto vero e il maniaco innamorato è riuscito a insinuarsi nell'ambiente ideale per portare a termine il suo piano, un luogo dal quale Sawyer non può allontanarsi? A nulla vale chiamare in soccorso la madre Angela (Amy Irving) grazie al cellulare, proibito, che Nate è riuscito a contrabbandare nella camerata, perché il sistema perverso sa come difendersi con apparente legalità.


Due temi importanti si sovrappongono nel film. Uno riguarda la difficoltà e il prezzo da pagare in termini di libertà personale per difendersi dallo stalking, evidenziati dal breve flashback in cui Matt Damon veste i panni del detective Ferguson; sappiamo dalla cronaca come troppo spesso la persecuzione sfoci nella violenza o lasci quantomeno traumi indelebili nella vittime. L'altro tema è quello dei rischi della sanità americana, interamente privata e basata sulle assicurazioni, pericolosamente soggetta a uno sfruttamento di tipo economico a danno del paziente; ricordiamo il tentativo del presidente Obama di istituire un servizio sanitario nazionale, poi demolito dal suo successore Trump.
Proprio questa dimensione dai risvolti socio-politici fa sì che Unsane si distingua dai consueti cliché del filone, pur sfruttandoli in modo creativo, anche grazie alle modalità singolari con cui è stato realizzato, solo in una settimana, utilizzando un iPhone in luogo della macchina da presa, ottenendo effetti singolari a livello cinematografico tanto nei primi piani quanto nei campi lunghi. Un film che merita di essere visto, proprio per tali ragioni, sul grande schermo. Nella fattispecie a me è capitato in un'interessante serata nell'ambito del cineforum del Cinema Splendor di Bollate (Milano), per poi commentarlo con il pubblico al fianco dell'esperto Joe Denti.





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