Cronache di Andrea Carlo Cappi
Una
bella stagione di monster movies è in corso: mentre è
in preparazione per il 2019 un nuovo capitolo del cosiddetto
Monsterverse dopo il recente Godzilla e
il successivo Kong-Skull Island,
in poche settimane nella primavera 2018 escono Pacific Rim-La
rivolta (Pacific Rim
Uprising) e Rampage-Furia
animale (Rampage).
Ma
da cosa dipende la riuscita di un kaiju eiga,
per dirla alla giapponese, ovvero un film di mostri giganti?
Si potrebbe rispondere: dagli effetti speciali. Tuttavia oggi il
livello delle animazioni al computer del cinema statunitense è
tale da rendere credibili sullo schermo le creature più
disparate e fantasiose, di ogni taglia. Sono lontane le epoche di
Willis O’Brien (creatore del primo King Kong) e Ray Harryhausen con
le loro meravigliose animazioni stop motion, o di Carlo
Rambaldi con le sue sofisticate costruzioni artificiali, così
come quelli di attori costretti a indossare imbarazzanti costumi da
mostro e aggirarsi su set in miniatura, o delle lucertole truccate da
dinosauri. Non che si debbano mettere in soffitta tutti quei film,
che anzi conservano il loro fascino e servono tuttora da modello.
Oggi
viene piuttosto da rispondere: la riuscita dipende dalla
sceneggiatura. La quale, per non tradire il filone, deve spesso
soggiacere a un certo numero di stereotipi: umani malvagi che in
preda all’hybris della
scienza e del marketing manipolano la natura e scatenano forze
incontrollabili; creature immani – non tutte sempre davvero
cattive... dipende da chi le controlla – che per una ragione o per
l’altra si danno battaglia, devastando possibilmente la città
che diviene teatro del conflitto.
In
Rampage di Brad Peyton
(regista che ha già guidato Dwayne Johnson negli scenari di
distruzione di San Andreas)
si rispetta la tradizione dei monster movies,
anche se non la trama dei videogiochi su cui è basata la
vicenda. Nei videogame i protagonisti erano George, Ralph e Lizzie,
esseri umani mutati da esperimenti in mostri giganti, rispettivamente
un gorilla alla Kong, un mega-licantropo e un super-rettile stile
Godzilla. Nel film uscito negli USA il 13 aprile 2018 le cose vanno
diversamente: un disastro in un laboratorio spaziale – dove la
bieca multinazionale Energyne ha elaborato un virus sperimentale a
trasmissione aerea – fa sì che piovano sulla Terra (e sugli
Stati Uniti) i contenitori del pericoloso gas. Uno finisce nella
riserva zoologica di San Diego, dove risiede il gorilla albino
George; un altro tra un branco di lupi grigi del Wyoming; un altro tra i
coccodrilli delle Everglades. Il virus produce, a seconda della
quantità inalata, un incremento dell’aggressività nei
soggetti, una crescita smisurata e svariate mutazioni del DNA, che
adotta caratteristiche di specie diverse. Per recuperare campioni del
prezioso virus, i titolari della multinazionale hanno la brillante
idea di chiamare i bestioni infuriati attraverso un segnale radio che
li guida fino alla sede centrale di Chicago. Con tutte le conseguenze
del caso.
Ciò che rende Rampage un
film piacevole sono gli interpreti. Dwayne Johnson - già
gigantesco di suo e a suo tempo metamorfizzato in mostro in un film de La mummia - è Davis Okoye, l’esperto di primati che
ha insegnato a George (realizzato con la motion capture
sull’attore Jason Liles) il linguaggio dei segni e se n’è
guadagnato l’amicizia; in passato Okoye è stato cacciatore
di bracconieri in Africa e prima ancora ha combattuto nelle forze
speciali USA, il che gli permette di maneggiare armi di grosso
calibro, pilotare elicotteri e fare tutto ciò che occorre in
un film d’azione.
Al suo fianco, la sempre gradita Naomie Harris è
la dottoressa Kate Caldwell, i cui studi sul DNA puntavano alla
ricerca di una cura per il fratello malato; ma sono stati rielaborati
a scopo bellico dalla subdola titolare della Energyne, Claire Wyden
(Malin Akerman), che ha mandato in galera per un po’ la scienziata,
impedendole di salvare il fratello. Un ironico Jeffrey Dean Morgan (John Winchester nella serie Supernatural, per citare una delle sue numerose apparizioni) è
l’agente governativo Russell, che spalleggia gli eroi nella loro
missione: ricondurre George a più miti consigli perché
combatta gli altri due mostri, peraltro molto più grossi e
mutati di lui.
Sul versante del Pacifico la sfida
è difficile ma i risultati sono nettamente più
originali. Il confronto con il precedente Pacific Rim diretto
da Guillermo Del Toro (qui solo supervisore, mentre la regia è
di Steven S. DeKnight) poteva essere schiacciante, ma diviene uno
stimolo efficace per il sequel della pellicola che univa in stile
americano due classici filoni giapponesi: il kaiju e il mecha.
Nel nuovo film, uscito il 23 marzo 2018, sono passati dieci anni da
quando è stato chiuso il varco interdimensionale in fondo
all’oceano da cui una razza misteriosa – i Precursori – inviava
per ignote ragioni i mostri giganteschi detti kaiju a
devastare le città costiere del Pacifico. Forse è tempo
che gli Jaeger – i colossali robot che costituivano l’ultima
linea di difesa dell’umanità – vadano in pensione con i
loro piloti, ma molti temono una nuova invasione e la multinazionale
controllata dall’apparentemente gelida Liwen Shao (Jing Tian nel
suo sommo splendore) cerca con ogni mezzo di far approvare un nuovo
programma di Jaeger telecomandati. E in questo scenario appare un
robot ribelle dei cui piloti non si conosce l’identità, che
attacca Sidney con una mossa che, più che di rivolta, sa di
strategia della tensione.
Tornano in scena alcuni personaggi
del film precedente, tuttavia al centro della vicenda è Jake
Pentecost (John Boyega), figlio del personaggio interpretato da Idris
Elba nel primo film, che all’accademia dei piloti preferirebbe il
rischioso mercato nero dei pezzi di robot, ma dopo l’ennesimo
arresto viene costretto a tornare in servizio; lo affiancano
l’amico-rivale Nate Lambert (Scott Eastwood) e l’orfana
quindicenne Amara Namani (Cailee Spaeny, in realtà ventenne),
arruolata come cadetto dopo che ha affrontato uno Jaeger pilotando il
proprio robot fatto in casa. La sceneggiatura riserva una serie di
colpi di scena ben assestati, che non è affatto il caso di
rivelare, ma chi attende le grandi battaglie con i kaiju non
resterà affatto deluso. E, prima di ventilare un possibile
sequel, viene data risposta a un antico mistero: perché da
sempre i mostri attaccano Tokyo? Be’, avranno le loro
buone ragioni... In poche parole, imperdibile, quantomeno per chi ama mecha e kaiju sul grande schermo.