mercoledì 13 marzo 2019

Scusi, dov'è il western?


Dossier di Andrea Carlo Cappi

Borderfiction presenta in collaborazione con Bloodbuster un nuovo aperitivo "Ribs & Books", stavolta dedicato al western, giovedì 14 marzo 2019 dalle 18 alle 20 a Milano, presso l'adattissimo Ribs and Beer (via Riccardo Pitteri 110, ingresso libero). L'appuntamento è condotto da Andrea Carlo Cappi. Motore dell'incontro sono il nuovissimo romanzo western "Gunfighter" di Stefano Di Marino (Dbooks), il dizionario dello spaghetti western "Matalo!" di Silvio Giobbio (Bloodbuster) e la "Guida al cinema western" di Michele Tetro con Stefano Di Marino (Odoya). Con l'occasione riproponiamo in versione leggermente aggiornata questo dossier pubblicato sullo storico numero intitolato "Nero West" di "M-Rivista del Mistero" del 2008.

Cos'è il western?

Che cosa si intende per “western”? Come aggettivo, in inglese, significa innanzitutto “occidentale”, ma come genere narrativo definisce le vicende ambientate nel Wild West, l'Ovest Selvaggio, la frontiera non ancora regolamentata dalle leggi del governo, la terra degli indiani e dei bisonti, dei cowboy e delle mandrie. Per il cinema americano, che ne ha diffuso il mito nel mondo, i temi dominanti sono la conquista e la colonizzazione delle regioni centrale e occidentale degli Stati Uniti d'America, le guerre contro gli indiani (che solo oggi, dopo essere stati in buona parte sterminati, sono stati in modo politicamente corretto ribattezzati Native Americans) e il mantenimento della legge nelle zone conquistate.
Le storie western sono ambientate essenzialmente nell'Ottocento, quando il dominio dei tredici stati fondatori, allineati sulla Costa Est, comincia a estendersi verso ovest, confinando gli inglesi in Canada, acquistando territori dalla Francia napoleonica e dalla Spagna e occupando con la forza le terre delle tribù indiane. I territori spagnoli del Southwest e della California sono lungamente contesi all'imperatore del Messico, a partire dal Texas, teatro nel 1836 dell'assedio di Fort Alamo in cui perde la vita Davy Crockett. Tra il 1861 e il 1865 il paese è sconvolto dalla Guerra di Secessione: gli stati confederati del sud, la cui economia è legata alla raccolta del cotone e conseguentemente allo schiavismo, si staccano dagli stati industrializzati del nord, l'Unione, fino alla vittoria di quest'ultima, a prezzo di seicentomila vite umane.
E qui ha inizio la fase finale, ma anche la più leggendaria, della storia del West, con l'ultima fase delle “guerre indiane” culminate con la battaglia di Little Big Horn (1876), in cui muore il generale George Armstrong Custer. Uno degli artefici di questa temporanea vittoria dell'alleanza lakota-cheyenne è il sioux-lakota Toro Seduto, che verrà ucciso dalla polizia durante in tentativo di arresto nel 1890, lo stesso anno del massacro dei lakota da parte dell'esercito a Wounded Knee, ultimo atto di quello che è stato definito “olocausto americano”.


Toro Seduto resta nella memoria come uno dei più leggendari capi indiani – al pari dell'apache Geronimo e del lakota Cavallo Pazzo – ma questo non gli ha impedito di guadagnare qualche dollaro esibendosi negli spettacoli dell'ex militare ed ex cacciatore di bisonti Buffalo Bill, così come altre celebrità del West quali l'ex sceriffo Wild Bill Hickok, che sarà ucciso a tradimento a Deadwood (Black Hills, territorio del Dakota) nel 1876, e la pistolera Calamity Jane, che verrà sepolta accanto a lui nel 1903. Nel 1890 il Wild West Show di Buffalo Bill arriva anche in Italia, dove tuttavia i cowboy americani perdono una clamorosa sfida nella doma dei cavalli contro i butteri dell'Agro Pontino.
Questo è appunto il periodo mitico dei più famosi uomini di legge: dal già citato Wild Bill a Tom Horn, affiliato all'agenzia investigativa Pinkerton, a Wyatt Earp e Doc Holliday, protagonisti della sfida all'OK Corral a Tombstone, Arizona (1881). Ed è anche quello dei più famosi fuorilegge, come Billy the Kid, ucciso dallo sceriffo Pat Garrett a Fort Sumner, New Mexico, nel 1881; Jesse James, ucciso a tradimento a St. Joseph, Missouri, nel 1882; e Butch Cassidy, fondatore del Mucchio Selvaggio, attivo in tutto il West fino al 1900, quando, braccato dalla Pinkerton, fugge in Sud America dove morirà otto anni dopo. La storia finirebbe dunque con l'arrivo del XX secolo.


Ancor più della letteratura, a partire dal 1903 con The Great Train Robbery di Siegmund Lubin, è Hollywood a trasfigurare il West trasformandolo in una terra mitica, consolidando la convenzione degli “indiani cattivi” che sarà smentita solo dal western revisionista degli anni Settanta, e rendendo familiari al pubblico di tutto il mondo i territori, gli eroi (veri o presunti) e i fuorilegge.
In sostanza, grazie a Hollywood, che trasforma il cinema in un'industria e in un mezzo di comunicazione di massa a livello globale, esiste un mito letterario-cinematografico del West, mentre non c'è un'epopea equivalente per il periodo delle guerre napoleoniche o per il Risorgimento italiano.
Tuttavia la visione USA-centrica del western è smentita dalla stessa Hollywood, che si ricorda della colonizzazione spagnola della California portando sullo schermo già dal 1920 le avventure di Zorro, il giustiziere mascherato creato nel 1918 dallo scrittore pulp Johnston McCulley, ambientate nel tardo Settecento.
Ma a rigor di logica, se il punto di riferimento è la colonizzazione dei territori a ovest della East Coast, dovremmo risalire ancora addirittura al Seicento, il secolo della principessa indiana Pocahontas e de La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Nel frattempo, il western ha esteso i suoi confini al Canada e al Messico, spostando il suo limite cronologico alla rivoluzione di Villa e Zapata, ossia agli anni Venti del Novecento.


Il western non esiste?


Ho dedicato spazio a una sommaria definizione storico-geografica del western per poter formulare la mia teoria: il western, come genere, è solo una convenzione. Potremmo dire che il western non esiste: in realtà non è che un contenitore di altri generi cui viene attribuita solo una precisa ambientazione.
Se ci facciamo caso, tutte le storie che rientrano nel genere western possono essere ricondotte ad altri generi. Diventano “western” perché collocate in quei precisi limiti cronologici e geografici. Libri e film sulle guerre indiane non sono altro che vicende storico-belliche. I racconti di viaggio delle carovane in territori ostili non sono altro che storie di avventura che potrebbero essere ambientate tra gli antichi romani o su un altro pianeta. I fortini circondati dagli indiani si rifanno a un modello decisamente arcaico: l'assedio di Troia nell'Iliade. Le vicende di banditi e tutori della legge sono analoghe al noir e alla gangster story.
Pensiamo a quanto noir si avverte in film come Un dollaro d'onore di Howard Hawks, Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens (a cui si è rifatto Jeffery Deaver nella sua trilogia dedicata al location scout hollywoodiano John Pellam) e Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinneman – quest'ultimo ha avuto anche una sorta di remake fantascientifico in Atmosfera zero di Peter Hyams. Pensiamo a Sentieri selvaggi di John Ford, che riprende il tema della ricerca dalla tradizione medioevale. Pensiamo a La maschera di fango di André de Toth, una vera e propria spy-story ambientata durante la Guerra civile. C'è persino una versione western della parte conclusiva dell'Odissea, Il ritorno di Ringo di Duccio Tessari.
Uno dei più grandi registi western è Akira Kurosawa, che non ha mai ambientato una storia nel West. Eppure tre suoi film hanno avuto remake western più o meno ufficiali: I sette samurai è diventato I magnifici sette di John Sturges, Rashomon (di cui “M-Rivista del Mistero” ha proposto recentemente i racconti originali) è diventato L'oltraggio di Martin Ritt, Yojimbo - La sfida del samurai ha dato origine a Per un pugno di dollari di Sergio Leone e a un successivo remake spostato all'epoca del Proibizionismo, Ancora vivo di Walter Hill... e va osservato che, secondo Sergio Leone (e non a torto), Kurosawa aveva tratto ispirazione dal romanzo noir Piombo e sangue di Dashiell Hammett, scritto e ambientato negli anni Venti.
Verrebbe allora da dire che il western non esista come genere: è solo uno scenario storico-geografico in cui possono essere impiantate storie di qualsiasi provenienza.
Eppure il western non dipende solo da questo: Via col vento e Il buono, il brutto, il cattivo sono ambientati nello stesso paese e nella stessa epoca, ma il primo non è un western mentre il secondo sì.
Allora potremmo dire che il western esiste e che si perpetua anche al di fuori dei suoi confini: tanto La notte dei morti viventi di George A. Romero quanto La casa del diavolo di Rob Zombie sono western. Questo perché le convenzioni, lo stile, le situazioni maturate nell'ambito della letteratura e del cinema western sono diventate così peculiari da essere associate a un genere, caratterizzandolo a posteriori.


Il western esiste!

A pensarci bene, ci sono parecchi elementi che rendono il western un genere propriamente detto. Per cominciare gli spazi e le distanze, caratteristiche proprio del continente americano. È vero che ad Almeria, in Spagna, si trovano panorami molto simili a quelli del West, che hanno consentito la nascita di un cinema western europeo, ma solo grazie all'illusione dello schermo: la loro estensione non è paragonabile a quella degli scenari originali. L'Europa può soltanto simularli.
Quando lo spazio è così grande, si pensa anche più in grande: in uno dei racconti che presentiamo in questo numero si parla del trasferimento delle mandrie di quattro ranch, per un totale di dodicimila capi di bestiame che devono attraversare le praterie in direzione nord. Difficile immaginare uno spostamento di tali proporzioni in un'altra parte del mondo.
Ma non c'è solo questo: l'occupazione delle terre dell'ovest genera un nuovo ordine sociale. La land of opportunity garantisce le migliori occasioni a coloro che hanno pochi scrupoli e lauti guadagni a chi non ha nulla da perdere. Perciò la frontiera diviene una terra senza legge in cui chiunque può portare una pistola, consuetudine tuttora in vigore in molte aree, negli Stati Uniti con tutti i problemi che ne derivano. Anche la gestione della legge è spesso sommaria e risolta con frettolose impiccagioni che possono costare ore di sofferenza al condannato prima che la morte sopraggiunga (si pensi al film Impiccalo più in alto di Ted Post, il primo prodotto e interpretato da Clint Eastwood dopo il periodo degli spaghetti western).
È il territorio ideale per la genesi di cavalieri solitari e disillusi, che dal western americano poi trasmigrano nell'hardboiled, e di antieroi cinici, infami e violenti, che contraddistinguono lo spaghetti-western per poi ripresentarsi non solo nel criminal-poliziottesco italiano, ma anche nel noir americano anni Settanta: non è un caso che due icone come l'ispettore Callaghan e il giustiziere della notte siano interpretate rispettivamente da Clint Eastwood e Charles Bronson, passati attraverso l'esperienza “spaghetti” prima di rientrare nel western americano e da qui passare al noir.
Lo stesso linguaggio visivo del western fa scuola: per cominciare gli spazi aperti di John Ford, che evocano grandi silenzi e viaggi per deserti e praterie, fondamento del cinema on the road; i duelli alla pistola che, a differenza di quelli alla spada, sono costituiti da minuti di tensione che sfociano in un istante di violenza, seguito dall'attesa di capire chi dei due contendenti abbia avuto la peggio; e i grandi showdown a colpi di arma da fuoco, in cui spesso c'è un eroe solitario che fronteggia più avversari.
Il western europeo, che nasce come imitazione a basso costo di quello americano, ne prende a prestito gli aspetti più noir, esasperandone la violenza, ma trova presto una propria identità che, paradossalmente, sarà poi imitata dagli americani. La musica (come non citare Ennio Morricone?), i personaggi picareschi, persino in qualche caso i contenuti politici si sposano ai primissimi piani, all'ironia, alla dilatazione della tensione attraverso lunghe sequenze in cui non accade nulla ma sta per accadere di tutto. Compiuto questo percorso, il western è diventato definitivamente un modo di raccontare più che un genere.


Che fine ha fatto il western?

Il western è stato dato molte volte per morto. Dopo la seconda guerra mondiale le piccole case cinematografiche della “Poverty Row” di Hollywood, quellle che producevano western a basso costom dovettero chiudere i battenti. Ma il western passò alle majors e, ben presto, alla televisione. Ne fecero le spese il western letterario e i pulp magazines a esso dedicati.
Negli anni Sessanta gli spaghetti-western gli diedero nuova vita, preludendo al western americano post-'68. Poi il western è tramontato: Balla coi lupi è stata forse l'ultima pellicola del genere ad avere un grande successo di pubblico e una messe di Oscar. Oggi i nuovi western al cinema e in televisione sono fenomeni occasionali, anche se non passano inosservati, come il remake di Quel treno per Yuma (da un racconto di Elmore Leonard), L'assassinio di Jesse James, o la serie televisiva Deadwood.
Eppure il linguaggio western è rimasto. Ci sono echi western nell'horror, a partire da George A. Romero, con il “fortino” degli umani attorniati da zombi. John Carpenter ha trasferito il western di assedio, riletto alla “luce” degli zombi di Romero, nella metropoli di Distretto 13 - Le brigate della morte e nella fantascienza con Fantasmi da Marte – per non parlare delle atmosfere western di Vampires.
C'è sapore di spaghetti western in certe sparatorie di John Woo come in molte scene di Kill Bill di Quentin Tarantino (che poi girerà due "veri" western: Django Unchained e The Hateful Eight). Lo si ritrova dichiaratamente nelle trilogie del Mariachi (di fatto uno straniero senza nome alla Clint Eastwood) e di Dal tramonto all'alba (ancora assedio e sparatorie, stavolta con i vampiri) di Robert Rodriguez. E riappare quasi spudoratamente in salsa di soia nel western nipponico Sukiyaki Western Django (con l'inevitabile Tarantino come guest star tra gli interpreti) di Takashi Miike. Senza contare le ormai frequenti commistioni tra western e horror.
Come dire che il western benché sbattuto a calci fuori dal saloon, è rientrato dalla finestra fracassando il vetro. E le schegge si sono conficcate un po' dappertutto... tranne che da noi.
Eppure in Italia abbiamo un esempio dell'inossidabilità del western: i fumetti di Tex sono nati dai testi di Gianluigi Bonelli e dai disegni di Aurelio Galleppini come primo grande esempio di western made in Italy, diventando un primo laboratorio sperimentale sulla contaminazione tra generi, con occasionali inserimenti persino di fantastico-esoterico. Ancora oggi, dopo settant'anni, Tex è uno dei fumetti più letti nel nostro paese.
Eppure in campo cinematografico-televisivo, salvo eccezioni illustri, il paese che ha rinnovato completamente il genere nel breve periodo tra il 1964 e il 1968 per molti anni ha espresso quasi soltanto fiction buoniste in cui mancavano il sano cinismo e la cruda espressività del caro vecchio spaghetti western. Salvo poi saltare senza mezzi termini a violente storie gangsteristiche. Forse un po' di ripasso ci farebbe bene.




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