martedì 24 luglio 2018

Le lacrime di Kevin Spacey - prima parte






Considerazioni di Claudia Salvatori

E voi, quanti attori avete distrutto, come avete distrutto me?
(Oscar insanguinato)

Uno dei primi segnali inglobati nel corpo della fiction della distruzione dell'attore potrebbe arrivare nel 1973 da Oscar insanguinato (1).
Per attore intendiamo qui l'interprete del deviante, del disuguale, dell'assassino, del mostro, del pazzo, dell'alieno o alienato, di chi diverge nella mente, nella sfera emotiva e negli ideali, di chi disturba quelle certezze sociali che basta solo sfiorare e leggermente destabilizzare per scatenare panico e furore incontrollato.
È questo l'artista su cui sta calando la scure di una feroce esecuzione mediatica, al termine di un processo che è durato per tutto il secolo scorso e in cui abbiamo assistito alla distruzione della scrittura, della pittura, della musica e di ogni altra arte. Il medium carismatico dei nostri terrori da esorcizzare, un aspetto di quello che una volta era lo sciamano, il Grande Attore.
Sono molti gli interpreti di mostri che meriterebbero attenzione, ma qui ci occuperemo di tre di loro, due morti e un disperso. Tre attori diversi fra loro per età, formazione, stile e contesto in cui si sono mossi, ma che hanno in comune alcuni elementi chiave: immenso talento, intelligenza, cultura, ironia, versatilità, una profonda consapevolezza di sé, del sé che manifestano su palcoscenici e schermi, e della differenza fra le due cose. Oltre all'impossibilità di essere collocabili in una forma definitiva, di rendersi per amore o per forza prevedibili. All'interesse per altre forme d'espressione, che siano il collezionismo d'arte o la musica, la scrittura o la regia. Al fascino che li rende amabili quanto più i loro personaggi sono odiosi. E alla capacità, quando serve, di essere divertentissimi.
Non potremo ripercorrere l'intera loro sterminata filmografia (occorrerebbero tre volumi), ma tenteremo di ricostruire da indizi sparsi, come se fossimo sulla scena di un crimine, i loro percorsi esistenziali e professionali, il senso di quello che ci hanno detto e donato.



Chi recita la battuta tratta da Oscar insanguinato è Vincent Price, nato nel 1911, che qui interpreta un personaggio scritto (cucito) su di lui: è un grande attore shakespeariano di teatro. Rovinato dai critici e recensori (oggi si direbbe haters), spinto al suicidio, sopravvive e si vendica dei nemici uccidendoli uno dopo l'altro nelle modalità in cui vengono compiuti i più efferati omicidi nelle tragedie di Shakespeare.
Ecco dunque un esempio di come si realizza l'unione tra film horror e cultura alta, fra intrattenimento popolare e patrimonio letterario internazionale. Sulla stessa linea i film di Roger Corman interpretati dallo stesso Vincent, pastiche che adattano per lo schermo i racconti di Poe. E anche La città dei mostri (2), in cui Poe e Lovecraft sono mescolati e amalgamati, e Vincent si trova alle prese con il Necronomicon. Ma non dobbiamo dimenticare che questi film, oggi di culto, sono b-movie al tempo in cui vengono realizzati, al punto che per produttori, registi e attori (incluso lo stesso Vincent Price) sarà necessario un “recupero” e una “rivalutazione”.
Dopo un esordio giovanile in ruoli “normali” da marito, fidanzato o amante, perfino seduttivo grazie alla presenza scenica e alla nobiltà della figura, dopo ruoli da “buono” e dopo aver interpretato un prete ne Le chiavi del paradiso (3), a Vincent viene irrimediabilmente assegnata la maschera del perfido e malvagio, ed è così che lo ricorderemo per sempre: basta pensare alla sua mimica facciale nel ruolo del capocantiere egizio (destinato a essere ammazzato da Mosè) ne I dieci comandamenti (4), o nel ruolo del sacerdote (sempre egizio) in Nefertite regina del Nilo (5).
Viene da domandarsi perché.
La vita reale, come il cinema, è un gioco di ruolo, uno sterminato e onnipervasivo casting in cui si recita, scegliendo l'immagine e i comportamenti più favorevoli da presentare al pubblico; ma perlopiù non ci si può sottrarre all'essere scelti per interpretare un determinato personaggio sociale. Vengono proiettate su di noi la mente e l'identità segreta degli altri, e lo sguardo degli altri è in grado di condizionarci con paurosa potenza, talvolta rendendoci estranei a noi stessi.
Questo vale ancor più per la realizzazione di un film, in cui sono in gioco grandi investimenti in denaro, fortissime ambizioni e spesso inesplicabili, deliranti tensioni.
Un attore proietta dallo schermo la proiezione che una collettività ha effettuato su di lui/lei.
Non è un gioco di parole. Tutta la fortuna o sfortuna critica di un attore e perfino certe conseguenze sulla sua vita privata stanno nel suo modo di gestire questa proiezione, da come la manipola accettandola o smentendola, dibattendovisi dentro rabbiosamente o adattandovisi con complicità, fuggendone o usandola per provocare, soffrendola o rigettandocela in faccia con sfida.
Vincent Price ha deciso di giocarci, riderne e far ridere.
Per questo in una delle sue interviste può ben dichiarare che the most terrifyng line I ever sayed in my life is BUH! (la battuta più terrificante che ho mai pronunciato nella mia vita è BUH!).



Tutti devono poter dire ai loro amici quanto è divertente essere spaventati a morte!
(La maschera di cera)

Il ruolo tipico di Vincent (con le varianti di tiranno, inquisitore, stregone, morto vivente, colpito da maledizione) è quello di un suicida, o suicidato, o assassinato, che risorge sfigurato nella mente o nel corpo e si trasforma in serial killer.
Ne La maschera di cera (6), molti elementi prefigurano tragicamente la distruzione dell'attore: i volti dei manichini di cera (di assassini e assassinati) che si sciolgono, moltiplicazioni dello stesso volto di Vincent, loro creatore, che segue la loro sorte e diventa materia molle sotto l'azione del fuoco. Distrutto l'estroso e buono scultore del macabro, resta soltanto un folle assassino che porta una maschera da uomo “normale” (la maschera del suo vero volto di un tempo) e riempie il nuovo museo di cadaveri ricoperti di cera.
Nel fantasmagorico, musicale L'abominevole Dottor Phibes (7), il volto di Vincent è un nudo teschio, e lo stesso incidente che gli ha distrutto le sembianze gli ha tolto anche la voce. È un grande organista e un mago della meccanica, e dirige un'orchestra di automi musicisti. Il suo operato è quello di un serial killer vendicatore che uccide con le piaghe bibliche d'Egitto (ancora l'Egitto!) gli assassini della moglie.
Forse è questo il film che fornisce l'indizio rivelatore dell'utilizzo di Vincent Price nelle produzioni horror di nicchia: nel finale, compiuta la sua missione, si seppellisce automummificato insieme alla sua Regina in un sarcofago d'oro come un re egizio solare, per vivere con lei nell'eternità. Sarà per quella certa sua aria di antica regalità? Il re, nel mondo moderno, va punito; gli si ridisegna sul volto una maschera da buffone, da vizioso, da idiota o da cadavere.
Ma lui gioca sempre: gli basta sollevare un sopracciglio e l'angolo delle labbra per trovare l'esatto equilibrio fra orrore e divertimento, fra calarsi nel suo ruolo e insieme prenderne la giusta distanza. Bisogna ascoltare la sua risata “satanica” al termine del lungo recitativo che fa da intro a Thriller di Michael Jackson per capire tutto. Si ride insieme a lui, irresistibilmente.
Ma qual è il tipo di orrore, il tipo di Male che Vincent trasmette attraverso la proiezione da orco operata su di lui? È, appunto, un Male che viene dalla fiction del tardo Ottocento, dalle fiabe etniche, dalle antiche saghe e dagli spaventi primitivi dell'umanità. È un terrore from beyond, per citare un titolo di Lovecraft: dall'oltre, dall'altrove, dall'inconoscibile. L'orco nella foresta, il vampiro nel castello, l'alchimista nel suo antro pieno di alambicchi e la creatura innominabile che ne striscia fuori, l'artista che turba con il suo virtuosismo diabolico.
Vincent Price è la nostra infanzia e ci incute paura perché siamo bambini. Riflette un tipo di società ancora ingenua e coesa, ancora sufficientemente convinta della propria salute, pur se in preda alle erosioni epocali.



Lo ha ben capito Tim Burton, che gli ha dedicato il suo primo cortometraggio, Vincent. È lo stesso Burton il bambino che muore di paura perché crede di essere Vincent Price: ma naturalmente da quel tipo di morte si risorge ogni volta che si esce dal cinema.
Tim Burton lo vuole nel ruolo dell'Inventore in Edward mani di forbice (8). Qui Vincent ritorna al suo originario reame di fiaba e appare irreale, diafano, ultraterreno: un Frankenstein dal sorriso sempre sghembo ma dagli occhi pieni di luce, che dà vita a un essere puro, portatore di bellezza e bontà, e muore prima di potergli dare mani umane. Come Molière, recita in scena la propria morte poco tempo prima di andarsene davvero, e sembra che stia per ascendere al cielo.
Quasi una glorificazione postuma anticipata.
Meno glorioso, e più spento e stanco, come appiattito, appariva una decina d'anni prima nel metalinguistico La casa delle ombre lunghe (9), in cui recitava insieme alle altre icone dell'horror: Christopher Lee, Peter Cushing, John Carradine. Ormai Vincent, che aveva citato se stesso per tutta la vita, era stato raggiunto dai postmoderni citazionisti. Il film, pur restando una delizia per l'intelletto, è una serie di ricalchi, incastri e scatole a sorpresa: sia Vincent che i suoi colleghi si comportano come bambini offesi a cui hanno rubato e guastato il giocattolo da loro costruito.
Del resto, nell'ultimo ventennio della sua carriera, Vincent Price era scivolato sempre più a fondo nella parodia, sia dei suoi vecchi ruoli che di nuovi personaggi, come il villain antagonista dell'agente segreto in Dr. Goldfoot e il nostro agente 00¼, (10) girato in America e introducing Franco and Ciccio, e il suo seguito italiano Le spie vengono dal semifreddo (11), sempre con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
Non c'era più posto per il tipo di paura che Vincent incarnava, per il mostro che viene da un altro mondo.

Siamo chiusi del passato. Il destino ha negato alla nostra famiglia un futuro.
(La casa delle ombre lunghe)



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