Considerazioni di Claudia Salvatori
Si
commette un peccato in ogni strada, in ogni casa, e noi lo
tolleriamo, perché lo consideriamo comune... io invidio la tua
vita comune.
(Seven)
Kevin
Spacey comincia a risplendere sui nostri schermi a partire dal 1995
come il diavolo de I soliti sospetti (24),
l'assassino seriale di Seven
(25) e l'uomo comune di American Beauty
(26). Ancora giovane ma a un'età in cui altri attori meno
talentuosi hanno alle spalle un decennio di apparizioni a cadenza
annuale, il che fa supporre una carriera tutta in salita, forse
ostacolata, sia prima che (a giudicare dalla filmografia) dopo i
riconoscimenti e i due Oscar vinti (non protagonista e protagonista).
L'intelligenza
di The Usual Suspects
sta nel proporre un diavolo minimale, con la d minuscola: il diavolo
dell'ateismo è un boss del crimine organizzato, forse solo una
leggenda metropolitana, dal suggestivo nome turco-tedesco di Kaiser
Soze.
Un
diavolo non metafisico
ma da quadro astratto concettuale, che è diventato tale
sopprimendo in sé tutto quanto è umano e comune, cioè
facendo strage di tutta la sua famiglia prima che lo faccia la banda
rivale: Per avere potere non occorre
denaro, né essere in molti, ma fare quello che gli
altri non vogliono fare. Ma si
riunisce a tutto quanto è umano è comune presentandosi
sotto la forma dell'essere più fragile, debole e stupido della
gang e, da questa posizione, può manipolare tutto e tutti.
Un
capobanda assolutamente spietato e il più comune degli uomini:
cosa di più diabolico?
Kevin
Spacey è nato nel ʻ59, e ha potuto ancora ascoltare una
lontana eco di quei valori vertiginosamente caduti nella seconda metà
del secolo.
Il
suo assassino-predicatore-giustiziere di Seven, del tutto
privo di identità avendo
rinunciato all'umanità, alla speranza e in fondo alla vita, è
il grido d'agonia della moralità naturale che precipita
nell'inferno del materialismo meccanicistico, amorale e ignorante (è
soprattutto l'ignoranza dell'uomo comune che lui invidia, la sua non
conoscenza di Dante Alighieri, di Tommaso d'Aquino, il suo
pronunciare Sade come
Shade). È
questo grido, ben compreso e meglio interpretato, a conferire a Kevin
una terribile concretezza (più
che bucare lo schermo, sembra uscirne per toccarci) e
insieme l'abbaglio della più trasparente visione onirica.
Poco
tempo dopo, ritroviamo Kevin Spacey in American Beauty
nei panni di un tizio come tanti che si ribella alla sua routine,
come se avesse letto un manuale del tipo Come goderti la
vita e tenere a bada i rompicoglioni,
nella sapida sceneggiatura di Alan Ball (ideatore di Six
feet under).
In
fondo, in che cosa consiste l'espressione artistica di un attore,
ingabbiato fra le parole scritte da altri e la direzione di un
regista? Nel modo in cui si impadronisce di parole e gesti? Con il
corpo, la voce, le mani, gli occhi?
In
un'intervista dell'anno scorso, rilasciata qui in Italia, Kevin
Spacey dichiara di essere uno strumento atto a servire scrittori e
registi. Stupefacente e spiazzante, perché non siamo più
abituati all'umiltà dei grandi, e neppure a riconoscere il
merito degli scrittori in una produzione cinematografica. E vediamo
che i film da lui interpretati hanno spesso all'origine solidi
copioni teatrali – Bugie, baci, bambole e bastardi
(27) è di David Rabe, Americani
(28) di David Mamet) – sceneggiature splendidamente scritte (sul
set di Seven era
presente Andrew Walker, autore del racconto da cui il film è
tratto), sono ben diretti e hanno quasi sempre una ragione per essere
realizzati.
È
possibile che Kevin abbia influenzato, ispirato gli sceneggiatori, o
sia intervenuto sulla scrittura?
Forse
la stessa dissoluzione del mondo, e della macchina di produzione
della fiction, ha creato una fluidità che gli ha permesso di
gestire la proiezione operata su di lui
più di quanto non abbiamo potuto, in contesti più
rigidi, Vincent Price e Anthony Perkins. E in effetti, film dopo
film, vediamo comparire elementi che rimandano in modo inquietante, a
volte profetico, ai suoi dati biografici, reali o leggendari che
siano.
Perché
il piccolo diavolo contemporaneo è anche una vittima, a volte
un agnello sacrificale, un suicida volontario (come del resto in
Seven), e il ruolo che
Kevin sceglie per sé e li riassume tutti, quando può
scrivere, dirigere o produrre film, è quello di un condannato
a morte.
Diciamo
sempre che siamo umani quando dobbiamo giustificarci per aver fatto
qualcosa di molto brutto. Non lo diciamo mai quando salviamo un
bambino dalle fiamme.
(Il
delitto Fitzgerald)
Lo
dichiara un giovane assassino che ha ucciso per sollevarvi
dalla vostra tristezza in
Il delitto Fitzgerald (29), un
film poco noto prodotto da Kevin Spacey. Più avanti, lo stesso
assassino dice anche: A volte penso che il Male esista solo
per far risaltare il Bene, poco
prima di essere inevitabilmente ucciso per vendetta.
Diciamo
pure che il bene (anche con la b minuscola) si vende poco e con
estrema difficoltà.
Anche
se è un bene minimale e consiste solo nel fare, per esempio,
una buona azione a qualcuno pregandolo di “passare il favore” ad
altre tre persone, e così via, per formare una specie di
catena della bontà: Un sogno per domani
(30). Il bambino di dieci anni che inventa questo sistemino per
migliorare il mondo esegue un compito datogli dal suo insegnante,
appunto Kevin.
Kevin
che dice: Il mondo esterno esiste. Per quanto pensiate di
non volerlo incontrare, vi arriverà dritto in faccia.
Il suo volto è infatti sfregiato e ustionato in seguito a una
violenza domestica subita da piccolo.
La
bontà comunque è etichettata come “buonismo” e c'è
quasi da vergognarsi a farne una fiction, oggi. Anche se Un
sogno per domani non commette
peccato di edulcorazione: il bambino geniale e ottimista, poco dopo
aver detto che il mondo non è tutto una merda,
viene accoltellato a morte da un branco di bulli.
The
life of David Gale (31)
vede Kevin Spacey in un doppio
ruolo di condannato: ingiustamente calunniato e reso un morto civile,
si fa giustiziare per riabilitarsi.
Questo
film, una volta sicuramente apprezzato come opera “di impegno
civile”, è stato fortemente criticato come “morboso” e
“malato”. Alle soglie del 2000 non vogliamo più morire per
un'idea, né tollerare che altri lo facciano, a parte quei casi
(naufragio, incendio o altro) in cui siamo in pericolo di vita e
reclamiamo degli “eroi” che ci salvino.
Ma
Kevin continua a sacrificarsi, perfino nell'ultima sua
interpretazione, Baby Driver (32),
in cui da spietato capobanda si rovescia in romantico amante e si fa
ammazzare in una sparatoria per coprire la fuga dell'amato.
E
in un film da lui diretto, Insoliti criminali
(33) premiato al
nostro Noir in festival 1996, l'alligatore bianco che viene usato
come esca sacrificale nelle guerre territoriali è sicuramente
il personaggio in cui si identifica e che, fra gli altri, è il
più intelligente.
Beyond
the sea (34) è
probabilmente la sua operazione più ambiziosa, un film
scritto, diretto, prodotto, interpretato, cantato e ballato da lui:
una mimesi totale in un cantante (Bobby Darin) condannato a morte,
stavolta da una malattia degenerativa.
Povero
e malato, con una difficile vita famigliare, dovrebbe vivere quindici
anni ma canta fino a trentasei e raggiunge il successo con la sola
forza di volontà, perché chi viene dal basso
non può non salire.
Racconta se stesso, e in diversi passaggi della sceneggiatura informa
il pubblico che lo sta facendo: ha un tempo contato per dare quanto
può prima di scomparire. Il film, amato da una parte della
critica, è stato una catastrofe al botteghino.
Forse
più fortuna ha avuto il lirico e commovente K-pax
(35). Ecco
un altro doppio ruolo:
di alieno vivente in un mondo di armonia e giustizia e pazzo
traumatizzato catatonico.
Kevin
Spacey è nato il 26 luglio. Nel film l'evento insopportabile,
quello che gli rende impossibile vivere e lo costringe alla fuga su
un altro pianeta (o nella follia, tutto è mantenuto
nell'ambiguità fino alla fine), avviene il 27 luglio.
È
possibile che Kevin abbia suggerito quella data per rivelare,
dissimulando, qualcosa di se stesso? Come se avesse voluto dire che
considera il giorno della sua nascita una sciagura, e la sola uscita
di sicurezza che non sia nell'autismo o nel suicidio è stato
il suo lavoro di attore.
Quando
ti fai fuori da solo prima che lo faccia qualcun altro puoi
controllare come succede.
(House
of cards, stagione 5)
Se
non può essere buono, Kevin esaurisce alla fine tutte le
sfaccettature del cattivo: poliziotto corrotto, rapinatore, mago
della truffa, lobbista, produttore cinico, venditore psicopatico, Lex
Luthor in Superman Returns (36).
Quasi
sempre ammazzato, sempre punito, a parte in Un perfetto
criminale, premio del pubblico
al Noir in festival 2000 (37), in cui è una simpatica
canaglia, un folletto shakespeariano birbante e un Robin Hood (con
due mogli e innumerevoli figli) in una foresta di palazzacci di
periferia.
Del
resto è anomalo anche come cattivo: non lo si vede mai
coinvolto in un'azione violenta (perfino in Seven
i delitti e le scene d'azione sono fuori campo), non taglia mai
nessuno in due con una motosega, al massimo assesta qualche pugno.
Ma
oltre non può andare, non può ripetere un altro Seven.
Dopo
i due Oscar, invece di un film da protagonista a cadenza almeno
biennale, comincia una serie di alterne vicende, di fallimenti
commerciali, di piccoli film che lo delimitano e lo spengono.
Si
fa degli haters, piovono i sarcasmi per aver interpretato Nine
lives – Una vita da
gatto (38) sdoppiandosi in
un'identità da gatto (ma da quando è una cattiva azione
fare un film per ragazzi?).
Ritorna
al teatro da cui è venuto e dirige l'Old Vic di Londra,
recitando oltre un centinaio di repliche di Riccardo III, come a
voler chiudere il cerchio con Vincent Price (anche lui interprete
storico di Riccardo).
Il
Grande Attore è diventato decisamente ingombrante... troppo
pesante, in quest'epoca di leggerezze.
Poi,
soprendentemente, arriva il capolavoro, la serie tv House
of cards (39), un successo
incontrastato che lo porta alla visibilità planetaria. Una
complessa macchina narrativa in cui riassume tutte le precedenti
esperienze e il senso dell'attuale epoca in una precisa prospettiva
storica, nei panni di un protagonista altrettanto complesso.
In
House of cards Kevin è
contemporaneamente e a tutti gli effetti un re antico con la sua
regina-uguale e speculare a sé (non avevamo ancora visto un
ruolo femminile esattamente alla pari
con il ruolo maschile in una fiction), un assassino senza scrupoli e
rimorsi (come Kaiser Soze, non ha figli, ma invece di ucciderli
rifiuta di metterli al mondo), l'uomo più potente del mondo
(il presidente degli States), e anche un uomo comune, che divide la
sorte dei milioni, miliardi di persone comuni. Tutti mescolati
insieme in un intrigo globale in cui non resta che far
torto o patirlo, come scriveva
il nostro (speriamo non dimenticato) Manzoni.
Francis
Underwood, le cui iniziali sui gemelli, FU, sono la contrazione di
Fuck you.
Come
un re antico è solo. Lo è sempre stato, è in
questo sta quello che hanno chiamato il suo “mistero”,
l'espressione di quegli occhi tristi, sempre tristi anche quando si
diverte e vuole far divertire al David Letterman show.
Ma
è solo anche come lo è una persona comune.
Non
può fare BUH! A nessuno, perché la gente ormai è
smaliziata, non ingenua come ai tempi di Vincent.
Come
spaventare, allora?
Bene,
quello che può fare è rompere la quarta parete teatrale
e parlare alla macchina da presa, a tutti e a nessuno, cioè a
noi. Come un attore di teatro che si stacca dall'azione, avanza un
po' sul proscenio e bisbiglia a parte
per informare il pubblico di quello che succede veramente.
Episodio
dopo episodio, stagione dopo stagione, ci parla raggiungendo le
nostre solitudini, svelandoci quello che siamo, come siamo diventati.
Con i suoi occhi tristi, in cui la gentilezza traspare sempre più
raramente, in cui le lacrime che spesso ha versato si sono congelate.
Parla
come un re che confida i segreti del suo potere, come un criminale
legittimato dalla guerra di tutti contro tutti; e come una persona
comune, in un flusso inarrestabile di logorrea (il suo personaggio ne
I soliti sospetti si
chiamava Verbal),
raccontando la sua vita come se fosse una serie televisiva.
Ma
lui ribalta la serie televisiva e la racconta come se fosse (ed è)
la vita, la vita di tutti noi, con la nostra patetica presunzione di
essere re, i nostri piccoli atti criminali, la nostra invidia e la
nostra ipocrisia, e la nostra rinuncia alla pietà.
Di
chi sia stata l'idea di farlo commentare quello che sta
facendo nella fiction, se sua o
di uno degli ideatori e registi della serie, non sappiamo. Sappiamo
che lui è consapevole, e la cosa in sé sarebbe già
un valore da preservare.
Anche
se è prevista a luglio l'uscita americana di Billionaire
Boys Club,
di James
Cox, l'ultimo film in cui ha recitato tra il 2015 e il 2016, Kevin
Spacey forse non potrà più lavorare.
Le
coscienze pensanti, con la capacità e la volontà di
comunicare, si stanno estinguendo come le tigri siberiane, per questo
la sua scomparsa, come hanno osservato le poche persone di buon
senso, sarebbe una perdita incalcolabile.
Senza
di lui saremo ancora più soli, muti e sordi.
E
gli specchi già da tempo non ci riflettono più.
I film citati nel testo:
(1)
Theatre of Blood,
regia di Douglas Hickox (1973)
(2)
The Haunted Palace,
regia di Roger Corman (1963)
(3)
The Keys of the Kingdom,
regia di John M. Stahl (1944)
(4)
The Ten Commandments,
regia di Cecil B. DeMille (1956)
(5)
Nefertite, regina del Nilo,
regia di Fernando Cerchio (1961)
(6)
House of Wax, regia di
André De Toth (1953)
(7)
The Abominable Dr. Phibes,
regia di Robert Fuest (1971)
(8)
Edward Scissorhands,
regia di Tim Burton (1990)
(9)
House of the Long Shadows,
regia di Pete Walker (1983)
(10)
Dr. Goldfoot and the Bikini Machine,
regia di Norman Taurog (1965)
(11)
Le spie vengono dal semifreddo,
regia di Mario Bava (1966)
(12)
Hitchcock, regia di
Sacha Gervasi (2012)
(13)
Psycho, regia di
Alfred Hitchcock (1960)
(14)
Goodbye Again, regia
di Anatole Litvak (1961)
(15)
La décade prodigieuse,
regia di Claude Chabrol (1971)
(16)
The last of Sheila,
regia di Herbert Ross (1973)
(17)
Lucky Stiff, regia di Anthony
Perkins (1988)
(18)
Psycho II, regia di
Richard Franklin (1983)
(19)
Psycho III, regia di
Anthony Perkins (1986)
(20)
Winter Kills, regia di
William Richert (1979)
(21)
Crimes of Passion,
regia di Ken Russell (1984)
(22)
Edge of Sanity, regia
di Gérard Kikoïne (1989)
(23)
Le procès,
regia di Orson Welles (1962)
(24)
The Usual Suspects,
regia di Bryan Singer (1995)
(25)
Seven, regia di David
Fincher (1995)
(26)
American Beauty,
regia di Sam Mendes (1999)
(27)
Hurlyburly, regia di
Anthony Drazan (1998)
(28)
Glengarry Glen Ross,
regia di James Foley (1992)
(29)
The United State of Leland,
regia di Matthew Ryan Hoge (2003)
(30)
Pay It Forward, regia
di Mimi Leder (2000)
(31)The
Life of David Gale, regia di
Alan Parker (2003)
(32)
Baby Driver, regia di
Edgar Wright (2017)
(33)
Albino Alligator,
regia di Kevin Spacey (1996)
(34)
Beyond the Sea, regia
di Kevin Spacey (2004)
(35)
K-PAX, regia di Iain
Softley (2001)
(36)
Superman Returns,
regia di Bryan Singer (2006)
(37)
Ordinary Decent Criminal,
regia di Thaddeus O'Sullivan (2000)
(38)
Nine Lives, regia di
Barry Sonnenfeld (2016)
(39)
House of Cards -
serie TV (2013-cinque stagioni)