Recensione di Andrea Carlo Cappi
Non
esiste una definizione canonica per il filone del thriller dedicato
agli stalker, rientra in genere
nella grande categoria dello psychothriller.
Ma di fatto lo stalking thriller – chiamiamolo così –
esiste e ha sue caratteristiche specifiche, anche se nella maggior
parte dei casi le abbiamo viste declinate in modo banale in
sottoprodotti di narrativa e tv movies.
Ma
ci sono stati esempi illustri, a partire dal romanzo di John D.
McDonald The Executioners,
pubblicato in Italia sull'onda (e con i titoli) di due celebri
film: Il promontorio della paura
di J. Lee Thompson e il remake Cape Fear di Martin Scorsese.
In quel caso uno psicopatico (Robert Mitchum e Robert de Niro nelle
due versioni cinematografiche) perseguitava l'uomo la cui
testimonianza lo aveva mandato in galera (Gregory Peck e Nick Nolte,
rispettivamente), minacciandone la famiglia.
Se vogliamo, anche il mitico Duel di Steven
Spielberg – in origine un tv movie tratto da Richard Matheson –
ne è una variazione sul tema, in cui un ignoto camionista
insegue il viaggiatore di commercio interpretato da Dennis Weaver.
Non meno inquietante e altrettanto memorabile è Quando
chiama uno sconosciuto di Fred Walton, in cui il bersaglio della
persecuzione è una baby-sitter, poi madre di famiglia,
interpretata da Carol Kane; il film è stato in parte
ispiratore di Scream di Wes Craven.
Curioso a dirsi, alcune delle pellicole più
significative del filone raccontano di stalker al femminile, come
Brivido nella notte – primo film da regista di Clint
Eastwood – in cui questi interpretava un dj radiofonico
perseguitato da un'ammiratrice (Jessica Walter); o come Attrazione
fatale di Adrian Lyne in cui Glenn Close se la prendeva con
Michael Douglas; il quale se le va proprio a cercare, visto che si
trova in una situazione analoga con Demi Moore in Rivelazioni
di Barry Levinson, tratto dal romanzo di Michael Crichton.
Stalking in inglese significa «braccare»
ed è oggi un termine associato, finalmente anche in Italia, a
predatori e persecutori sessuali. E in Unsane di Steven
Soderbergh ne è vittima Sawyer Valentini (Clare Foy), che dopo
due anni di persecuzione, costretta a trasferirsi da Boston alla
Pennsylvania, non riesce a liberarsi dal disturbo da stress
post-traumatico che la porta a rivedere ovunque David Strine (Joshua
Leonard), l'uomo che dice di amarla. Per questo chiede un colloquio
con una terapeuta specializzata in una clinica privata.
E qui comincia un incubo con echi di Kafka e Buzzati che
rende il film particolarmente originale: nel colloquio sono emersi
occasionali pensieri suicidi e, firmando una serie di moduli
apparentemente innocui sulla privacy, l'ignara Sawyer ha dichiarato
di volersi sottoporre a ricovero per ventiquattr'ore. A nulla vale
chiamare la polizia, che alla reception trova i documenti firmati
dall'involontaria paziente. Quando Sawyer comincia ad avere reazioni
violente al sequestro di persona legittimato, viene trattenuta per
un'ulteriore settimana.
Si tratta in realtà di una truffa alle
assicurazioni che sfrutta la legislazione sanitaria americana e non
c'è modo di ribellarsi, come le spiega Nate Hoffman (Jay
Pharoah), un degente che sembra sapere molto di più di un
paziente normale.
Ma la situazione per lei peggiora quando riconosce il
suo stalker in tale George Shaw, addetto alla distribuzione dei
farmaci. Nessuno le crede, com'è ovvio: è un parto
della sua fantasia malata, che ancora una volta le fa vedere Strine
nel volto di un estraneo. Come avrebbe potuto lui sapere dove lei si
trovava e farsi assumere dalla clinica? O invece è tutto vero
e il maniaco innamorato è riuscito a insinuarsi nell'ambiente
ideale per portare a termine il suo piano, un luogo dal quale Sawyer
non può allontanarsi? A nulla vale chiamare in soccorso la
madre Angela (Amy Irving) grazie al cellulare, proibito, che Nate è
riuscito a contrabbandare nella camerata, perché il sistema
perverso sa come difendersi con apparente legalità.
Due temi importanti si sovrappongono nel film. Uno
riguarda la difficoltà e il prezzo da pagare in termini di
libertà personale per difendersi dallo stalking, evidenziati
dal breve flashback in cui Matt Damon veste i panni del detective
Ferguson; sappiamo dalla cronaca come troppo spesso la persecuzione
sfoci nella violenza o lasci quantomeno traumi indelebili nella
vittime. L'altro tema è quello dei rischi della sanità
americana, interamente privata e basata sulle assicurazioni,
pericolosamente soggetta a uno sfruttamento di tipo economico a danno
del paziente; ricordiamo il tentativo del presidente Obama di
istituire un servizio sanitario nazionale, poi demolito dal suo
successore Trump.
Proprio
questa dimensione dai risvolti socio-politici fa sì che Unsane
si distingua dai consueti cliché del filone, pur sfruttandoli
in modo creativo, anche grazie alle modalità singolari con cui
è stato realizzato, solo in una settimana, utilizzando un
iPhone in luogo della macchina da presa, ottenendo effetti singolari a livello cinematografico tanto nei primi piani quanto nei campi
lunghi. Un film che merita di essere visto, proprio per tali ragioni,
sul grande schermo. Nella fattispecie a me è capitato in
un'interessante serata nell'ambito del cineforum del Cinema Splendor
di Bollate (Milano), per poi commentarlo con il pubblico al fianco
dell'esperto Joe Denti.