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mercoledì 29 agosto 2018

Mission: Impossible - Dalle origini a Fallout - 2



Percorso di Andrea Carlo Cappi

Leggi la prima parte

Da una dozzina di anni c'è qualcosa di nuovo nel mondo di Mission: Impossible, qualcosa che ha permesso che il fenomeno non si limitasse a un successo isolato del film del 1996 e al sequel del 2000. È nato un rapporto di consequenzialità tra una storia e l'altra, di cui ora vengono raccolti i frutti. Fallout (2018), ancora di più di quanto avvenuto nei due film precedenti, riavvicina il concetto della serie a quella vista in televisione, equilibrano meglio l'elemento spionistico con la componente di azione, peraltro sempre notevolmente spettacolare.




I telefilm originali erano nati sull'onda del successo cinematografico di James Bond e si erano conclusi nel periodo in cui, con lo scandalo Watergate, cominciarono a venire alla luce i giochi sporchi reali dei servizi segreti americani. La ripresa anni Ottanta, in minima parte influenzata dalla moda dei film d'azione dell'era reaganiana, fu dovuta a circostanze particolari: uno sciopero degli sceneggiatori americani, che indusse i produttori al recupero di materiale preesistente, usato o non usato che fosse, per girarlo a basso costo in Australia.
In realtà la Paramount Pictures aveva in programma di realizzarne una versione cinematografica, vista anche la ripresa di 007 con GoldenEye (1995) dopo sei anni di interruzione e un rinato interesse verso lo spy movie. Il rilancio di M.I. si rese possibile tuttavia solo dopo l'entrata in gioco Tom Cruise, con la compagnia di produzione da questi condivisa con Paula Wagner. Il che, naturalmente, avrebbe comportato il suo controllo assoluto su collaboratori e prodotto finito, a costo di discutere sullo script, sulla colonna sonora e sulla regia, affidata a Brian De Palma. In cambio, l'attore consegnò alla Paramount un film costato meno del budget previsto, in cui aveva realizzato personalmente la maggior parte degli stunt.
I puristi della serie non apprezzarono né la gestione del personaggio classico di Jim Phelps, né il fatto che l'azione spettacolare, come si è detto, prevalesse sulle trame di gioco mentale (come acutamente le definì Martin Landau) che avevano caratterizzato la serie tv. Ma, dopo M:I-2 – che ho già citato come un film quasi interamente affidato al talento registico di John Woo oltre che alle acrobazie di Tom Cruise, più che a una vera costruzione narrativa – e sei anni di intervallo, ha inizio la gestione di J. J. Abrams, già creatore di Alias e Lost, l'uomo che in breve tempo si trova in mano anche i destini di Star Trek e Star Wars, quindi tre gloriosi franchising degli anni Sessanta-Settanta.
Nel 2006 esce M.I.-III, diretto dallo stesso Abrams, che introduce per la prima volta nella serie il concetto di continuity anziché episodi isolati. Il film non è ancora perfetto come costruzione e anche come dettagli: dubito, per esempio, che Maggie Q potrebbe mai entrare in Vaticano con un vestito con tutti quegli spacchi, ma è noto che gli sceneggiatori americani a certe cose non fanno troppo caso. Tuttavia la storia si fa più personale, dal momento che l'indistruttibile Ethan Hunt si sposa con Julia (Michelle Monaghan) e acquisisce una grave vulnerabilità nell'affrontare il perfido Owen Davian (Philip Seymour Hoffman). La moglie diventa la sua kryptonite e, come vedremo negli episodi successivi, il matrimonio andrà a rotoli.
Nel successivo Protocollo Fantasma (2011) si configura una nuova squadra: oltre al fidato tech-guy Luther Stickell (Ving Rhames, unica spalla presente in tutti i film), appaiono Benji Dunn (Simon Pegg, tech-guy più imbranato) e William Brandt (Jeremy Renner), oltre a Jane Carter (una splendida Paula Patton, l'unica che purtroppo non si sia più rivista). L'agente Hunt si trova di nuovo esautorato, ma stavolta insieme a lui lo è l'intera IMF, accusata di un atto di terrorismo a Mosca; laddove il vero responsabile è un fisico nucleare deciso a scatenare una guerra nucleare “controllata”, per riequilibrare il mondo. Scopriamo anche come sia finito il matrimonio tra Ethan e Julia e abbiamo l'annuncio di chi sarà il nemico successivo, un'organizzazione sovrannazionale chiamata il Sindacato.
È quella che troviamo in Rogue Nation, in cui apprendiamo che l'agente MI6 britannico Solomon Lane (Sean Harris) ha preso un po' troppo sul serio i suoi giochi di guerra – come a suo tempo i cattivi de I tre giorni del Condor – e si dedica alla destabilizzazione mondiale. Facciamo anche la conoscenza di Ilsa Faust – un nome, un programma – anche lei agente dell'MI6 (interpretata dall'affascinante Rebecca Ferguson) nel pieno di doppi e tripli giochi. Lavora per Lane? Lavora per l'MI6? Oppure ha altri obiettivi? Alla fine Lane viene catturato, ma, come suggerisce l'inconscio di Ethan all'inizio di Fallout, forse è stato un errore lasciarlo in vita.


Il nuovo film infatti ci rivela che il Sindacato non è morto, ma si è evoluto in una nuova organizzazione chiamata gli Apostoli, gestita da un fantomatico John Lark, che ha tra i propri obiettivi quello di liberare Solomon Lane. Ed è di certo l'obiettivo meno disastroso, dal momento che quando Ethan, insieme ai compagni Luther e Benji, cerca di intercettare tre nuclei di plutonio nel corso di una compravendita; ma li perde per proteggere i suoi compagni Luther e Benji. Così il Sindacato potrà fabbricare altrettante bombe nucleari da far detonare a piacimento (sì, come McGuffin non è una novità). Oltretutto anche stavolta Ethan viene sospettato di essere un traditore (pure questa non è cosa nuova), per la precisione John Lark in persona.
A funzionare nel film sono lo svolgimento della trama e il fatto che tutto ciò che avviene è motivato da una logica basata sui cinque film precedenti e dai nodi al pettine della continuity. L'agente Hunt è sospettato proprio perché in passato questo è già avvenuto più volte e la direttrice della CIA (Angela Bassett) inserisce nella squadra IMF il proprio agente August Walker (Henry Cavill, molto più duro rispetto al suo Superman e al Napoleon Solo di Operazione UNCLE). La missione è delicata: fallito il tentativo di catturare il vero John Lark, Hunt si vede costretto a fare il doppio gioco, infiltrandosi nel gruppo di mercenari che a Parigi si appresta a liberare Solomon Lane. Ma non ci si può fidare di nessuno, nemmeno dei presunti alleati: ognuno sembra avere una propria agenda, che non coincide necessariamente con quella dell'IMF.
Come dicevo, nodi al pettine. Dal secondo film, tra le caratteristiche ricorrenti del protagonista viene inserita la sua passione per scalate e acrobazie aeree, che non mancano in questo episodio. In Protocollo Fantasma si era colta una strizzatina d'occhio al primo film quando è riapparso il Contatto (Andrea Wisniewski) che, come nel 1996 porgeva a Ethan un cappuccio prima di condurlo a un incontro segreto; qui c'è un nuovo personaggio, la Vedova Bianca (Vanessa Kirby), che scopriamo essere figlia dell'intermediaria Max (Vanessa Redgrave) vista nel primo film e fare più o meno lo stesso tipo di mestiere. In Rogue Nation l'analista Brandt (assente in Fallout) è tornato a lavorare a Washington DC fianco a fianco con il Segretario Alan Hunley (Alec Baldwin) che ritroviamo in questo film. Così come ritroviamo Ilsa Faust, sulla quale ancora gravano sospetti di doppio gioco dall'episodio precedente; e Julia, l'ex-moglie di Hunt, che sta cercando di rifarsi una vita e si ritrova invece coinvolta in prima persona nell'operazione.
Dopo un bell'intrigo gestito bene, si può accettare che la parte finale del film consista nella classica corsa contro il tempo per fermare l'apocalisse atomica nel Kashmir. Anche perché condita da un efficace colpo di scena e incentrata su uno spettacolare duello tra elicotteri, cui segue una scena d'azione in un crepaccio, del tipo «tutto va storto nel modo peggiore peggior momento possibile». Basti dire che, per una volta, persino l'inossidabile agente Hunt avrà bisogno di cure ospedaliere.
Un altro buon lavoro di Christopher McQuarrie, sceneggiatore e regista che, oltre a dirigere il precedente episodio, ha collaborato più volte e in varie vesti con Tom Cruise negli ultimi anni.


martedì 28 agosto 2018

Mission: Impossible - Dalle origini a Fallout - 1




Percorso di Andrea Carlo Cappi

Cominciamo da una riflessione musicale. Fatti i conti, nel 2018 sono ben cinquantadue anni che si sente risuonare quel tema, composto nel 1966 da Lalo Schifrin, nato a Buenos Aires nel 1932 ma cittadino americano del 1969, noto soprattutto per le sue innumerevoli colonne sonore per cinema e televisione. E, ancora di più, conosciuto per la sigla iniziale di Mission: Impossible, destinata fin da subito a una fama pari a quella del James Bond Theme di Monty Norman e del Pink Panther Theme di Henry Mancini, per restare nell’ambito di quello stesso decennio.
A dire il vero, in origine il brano dei titoli di testa dei telefilm avrebbe dovuto essere diverso. Ma Bruce Geller, creatore di Mission: Impossible, non era convinto e suggerì al compositore di rielaborare un altro dei temi scritti per l’episodio pilota. Nel 2010 lo spot pubblicitario di una nota marca di tè immaginò Schifrin che ne sorseggiava una tazza mentre scriveva una partitura... con musicisti e strumenti di un’orchestra immaginaria che comparivano e sparivano a seconda di correzioni e ripensamenti, fino a quando il brano si configurava come quello ormai famosissimo di Mission: Impossible.


Per tradizione gli episodi dei telefilm storici si aprivano con il tipico trillo sopra l'inquadratura di una mano che dà fuoco a una miccia; la fiammella scorreva orizzontalmente sopra un montaggio rapidissimo di scene del particolare episodio (il che comportava realizzare una sigla parzialmente diversa ogni settimana) prima di passare alla presentazione del cast e all'apparizione del titolo della serie sulle note finali.
Dal 1966 il title theme della serie (insieme a un altro brano, intitolato The Plot) ha accompagnato le sette stagioni di Mission: Impossible (fino al 1974), le due stagioni di una successiva ripresa (dal 1988 al 1990) e i sei film dal 1996 a oggi. E non solo: il gruppo rock King Crimson lo rielaborò in un passaggio di 21st Century Schizoid Man del 1969, mentre il regista spagnolo Alex De La Iglesia lo prese in prestito per una scena del suo film fantasatirico Azione mutante (1993). Ormai da una ventina d'anni lo ritroviamo anche nelle suonerie dei cellulari.

Musica a parte, la Mission: Impossible televisiva era piuttosto diversa da quella di oggi, pur avendo creato fin dal principio uno schema narrativo originale nell’ambito della spy story, all’epoca del massimo splendore del filone, ovvero gli anni Sessanta. L'impossibile del titolo consisteva, per una squadra di agenti statunitensi, nel concepire e attuare una strategia in cui – mediante infiltrazione tra gli avversari, espedienti tecnologici, disinformazione e apparenti doppi giochi – si creasse uno scenario tanto opportuno quanto falso, che traeva in inganno gli avversari. Che si trattasse di organizzazioni spionistiche o criminali, l'obiettivo era di condurle all'autodistruzione o di portare alla luce segreti di importanza vitale che non sarebbero mai stati rivelati in circostanze normali.
Dal primo episodio della serie cinematografica (1996), invece, l’impossibile è rappresentato principalmente dalla capacità dell’attuale protagonista Ethan Hunt (Tom Cruise) di sopravvivere a imprese acrobatiche e prove fisiche che ucciderebbero chiunque altro, nell’arco di due ore e più di azione pressoché ininterrotta. La chiave di tutto è divenuta la spettacolarità. In un certo senso, il film peggiore sul piano della sceneggiatura è anche quello più apprezzato sul piano estetico, vale a dire M.I.-2, diretto nel 2000 da John Woo, il grande regista di Hong Kong. La trama è ridotta all'osso e l'unico guizzo di originalità è, purtroppo, identico a uno dei colpi di scena del preesistente romanzo James Bond 007 – Obiettivo Decada (1998) di Raymond Benson; vuoi perché certe idee sono nell'aria (a volte capita che autori diversi scrivano qualcosa di molto simile, ignari l'uno del lavoro dell'altro) vuoi perché è stato copiato di sana pianta.
Ai vecchi tempi le sequenze d’azione erano molto più contenute, anche per la necessità di girare in tempi rapidi gli episodi settimanali, e la durata di ciascun episodio si limitava a quarantacinque minuti, con l’eccezione di un paio di storie divise in due puntate, in seguito rimontate sotto forma di film da novanta minuti: Mission Impossible versus The Mob (1968) e Il serpente d’oro (1989). Ma, curioso a dirsi, il contenuto di trama di un episodio tv era pari o superiore a quello di un attuale film da due ore e oltre.


Una curiosità: Mission: Impossible era inizialmente prodotta dalla Desilu, la casa indipendente di proprietà della coppia di attori Lucille Ball-Desi Arnaz (interpreti negli anni Cinquanta della sit-com I Love Lucy, di enorme successo negli USA), che nello stesso periodo lanciò un'altra serie di culto, Star Trek. Nel 1967 venne acquisita dalla Gulf+Western Company, proprietaria della Paramount Pictures, che la trasformò nella Paramount Television e continuò a realizzare entrambe le serie sotto il nuovo marchio.
Sia nella gestione Desilu, sia in quella Paramount, diversi interpreti di Star Trek apparvero in episodi di Mission: Impossible, a partire da George Takei (il signor Sulu dell'Enterprise), per poi proseguire con la prolungata partecipazione di Leonard Nimoy (il mitico signor Spock, qui nella parte di Mr. Paris) e chiudere infine con un'apparizione di William Shatner (il comandante Kirk). Oggi le due serie, in versione cinematografica, hanno di nuovo un interprete in comune: Simon Pegg, ingegner Scott in Star Trek e Benji Dunn in Mission: Impossible.
È anche da notare che nella M:I anni Sessanta lavorarono per la prima volta insieme Barbara Bain (nel ruolo di Cinnamon Carter) e Martin Landau (in quello di Rollin Hand), sposati nella vita e in seguito protagonisti della serie britannica Spazio: 1999. Ulteriore curisosità di stampo familiare: nella ripresa della serie tv del 1988 fa parte del cast Phil Morris, figlio (come personaggio e nella vita reale) di Greg Morris, uno dei protagonisti delle stagioni originali, che qui riprese la sua vecchia parte come guest star.


Al centro delle vicende delle serie tv è un immaginario servizio segreto del governo americano – indipendente tanto dalla CIA quanto dall’FBI e operante sia all’estero, sia sul territorio degli Stati Uniti – denominato Impossible Mission Force, in sigla IMF. In realtà nelle ultime stagioni degli anni Settanta molte operazioni si svolgono proprio in patria, ma solo per ridurre i costi di costumi e scenografie necessarie a ricreare paesi stranieri; mentre nella versione anni Ottanta le riprese sono effettuate in Australia, dove si girerà anche il secondo film con Tom Cruise.
Tornando al 1966, nella prima stagione a dirigere le operazioni è un agente di nome Dan Briggs (l’attore Steven Hill) mentre nella seconda l’incarico passa a Jim Phelps (Peter Graves), che si vedrà in tutti gli episodi fino al 1990 e si ripresenterà (interpretato però da Jon Voight) anche nel primo film, al termine del quale le consegne passeranno a Ethan Hunt.
Il format originale prevede una serie di veri e propri rituali, talvolta richiamati ancora oggi: il team leader della Impossible Mission Force si presenta in un luogo che si rivela essere una “buca delle lettere”, come si dice in gergo, spesso scambiando parole d’ordine con un contatto; quindi ha accesso a un nastro (ma in qualche caso a un disco in vinile e, negli anni Ottanta, un dischetto da computer) da cui riceve una serie di istruzioni per la missione... “se decide di accettarla”.


Con un tocco burocratico non estraneo allo stile dei servizi segreti, dopo il briefing la voce – appartenente all'attore Bob Johnson, mai apparso di persona nella serie ma presente in questo ruolo fino agli anni Ottanta – precisa che, qualora uno dei membri della squadra dovesse essere catturato o ucciso, il Segretario negherà qualsiasi responsabilità del governo: è il concetto di “negabilità plausibile” (spesso non poi così plausibile) che vedremo applicato dalla CIA nella realtà, specie ai tempi di Reagan, e che sarà rivelato dal giornalista Bob Woodward nel suo libro-inchiesta Veil. Nelle serie tv non si è mai saputo chi fosse il Segretario che dirigeva dall'alto l'IMF, mentre nei film ne vedremo parecchi: Anthony Hopkins, Laurence Fishburne (che però è chiamato “direttore”), Tom Wilkinson e, oggi, Alec Baldwin.
Un'altra pratica ripresa dallo spionaggio della realtà, pur con modalità più fantasiose nella serie tv, è quella che sempre Bob Woodward insieme a Charles Bernstein aveva portato alla luce in un precedente libro-inchiesta, il celebre Tutti gli uomini del presidente (da cui l'altrettanto celebre film). Nello slang della CIA la tecnica veniva chiamata ratfucking – “intraffottere”, nel doppiaggio italiano – e consisteva nell'uso attivo della disinformazione e dell'inganno allo scopo di confondere le acque tra gli avversari. Nel mondo reale, per esempio, il presidente Nixon e il gruppo di agenti CIA al suo servizio privato compromisero la candidatura del potenziale rivale Edward Muskie alle primarie del Partito Democratico in vista delle elezioni del 1972, diffondendo una falsa missiva scritta sull'autentica carta da lettera di questi.


Il ratfucking della serie tv è molto più sofisticato, anche sul piano tecnologico. Include la creazione di maschere in grado di replicare le fattezze di chiunque, curiosamente identiche a quelle in uso fin dal 1962 nelle avventure di Diabolik; forse è questo il motivo per cui nel film tratto da Mario Bava nel 1968 dal mitico fumetto italiano e distribuito nel mondo dalla Paramount – già allora titolare di Mission: Impossible – né Diabolik né Eva Kant fanno mai uso delle maschere, che sono invece una caratteristica irrinunciabile nelle loro avventure.
Situazione tipica: uno o più agenti dell'IMF si sostituiscono grazie alle maschere ad alcuni avversari, agendo o facendo dichiarazioni che creano scompiglio; così a volte sono le stesse spie straniere a uccidersi a vicenda, tratte in inganno dai travestimenti. Altra situazione ricorrente: per indurre un nemico a parlare, l'IMF lo sequestra e lo porta nella realtà distorta di un set allestito opportunamente, per indurlo a svelare segreti che non confesserebbe mai sotto interrogatorio.
Quest'ultima trovata può essere fatta risalire a un romanzo del 1959 di Philip K. Dick, Time Out of Joint (noto in Italia come L'uomo dei giochi a premio, Tempo fuori luogo e Tempo fuor di sesto). Non dev'essere un caso se il grande autore americano di fantascienza propose nel 1967 un ottimo trattamento per un episodio della serie che, purtroppo, venne rifiutato, forse perché, malgrado i nomi di luoghi e personaggi fossero fittizi, aveva chiari riferimenti alla politica di Cuba e alle figure di Fidel Castro e soprattutto di Che Guevara, ucciso proprio in quell'anno. Gli avversari dell'IMF tv non erano mai identificabili con un paese preciso e le missioni all'estero si svolgevano – anche qui un po' come i fumetti di Diabolik – in luoghi del tutto immaginari: in genere paesi dell'Est europeo dalla lingua ibrida, mentre al posto dell'URSS si nominava un'immaginaria EEPR (East European People's Republic).


Non va trascurato inoltre che il Time Out of Joint di Dick precede anche un appassionante film di spionaggio del 1964: Le ultime trentasei ore, diretto da George Seaton e liberamente ispirato a un racconto di Roald Dahl. Nella storia originale, un pilota alleato durante la Seconda guerra mondiale si risveglia in terapia dopo essere stato abbattuto e comincia a domandarsi se sia stato davvero recuperato dai suoi, oppure non si trovi invece prigioniero dei nazisti nella replica di una stanza di ospedale; non ci viene data risposta, mentre nel film il protagonista è un agente americano (James Garner) che ha perso conoscenza dopo un'aggressione a Lisbona; si risveglia in una clinica per veterani alla fine della guerra... o così sembra, perché ben presto si rende conto che la guerra è ancora in corso è l'ambiente che lo circonda è un'elaborata messinscena dei nazisti per indurlo a lasciarsi sfuggire i segreti di cui è a conoscenza, credendo che ormai tutto sia già avvenuto; a questo punto l'unica possibilità è la fuga. E, per chi è appassionato di serie televisive, è inevitabile l'associazione di idee non solo con Mission: Impossible ma anche con Il Prigioniero (1967-68). Lo stesso concetto, ancora più vicino all'idea originale di Philip K. Dick, ispira fortemente il film di Peter Weir The Truman Show (1998), che a sua volta richiama l'episodio A World of Difference (1960) della serie tv Ai confini della realtà.



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