Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori
Letteratura italiacana - 28 - Stress professionale
Venerdì, ore 13.
Sono, come dicevo, nel ghetto dei fumettisti, circondata da meravigliosi artisti tanto al di sopra di me. Da non crederci, vero? Oggi che il fumetto popolare boccheggia come un pesce nella plastica, oggi che esiste solo il fumetto d'arte di nicchia o d'élite, pare che stia parlando del Giurassico. Eppure.
Ero un'artigiacana, un falegname di parole e immagini.
Non mi ha consolata, in seguito, vedere quelle stesse persone che avevano preso un albo a fumetti con due dita e subito lo avevano posato, per manifestare in quanto poco conto lo tenessero, convertirsi al culto di questa o quella testata di comics. Né veder arrivare seconde e terze ondate di sceneggiatori, perché erano sempre più sottopagati e di conseguenza sarebbero stati ridotti anche i miei guadagni. Né vedere sorgere scuole su scuole di fumetto mentre l'editoria, la sola che poteva garantire compensi dignitosi, si restringeva come un calzino in modo inversamente proporzionale.
Come creare spazio per gli acculturati di massa? Rendendoli dilettanti, cioè artisti. Ora, gli artisti hanno il tormento e l'estasi. Gli artigiani, che sono professionisti, hanno soltanto lo stress. Scrivere per vivere è un lavoro logorante. Cominciavo a sperimentare crisi di saturazione, e uno dei miei metodi per superarle era cambiare. Una nuova proposta, una nuova collaborazione mi ricaricavano.
Gli artisti (e anche tutti gli altri) mi chiedevano: Come fai a fare tante cose diverse? Come fai a passare da Topolino a Oltretomba e Terror (testate horror della Ediperiodici per cui stavo cominciando a scrivere)? Non sapevano spiegarselo, e quello che non si spiega non esiste. Io cercavo di spiegarlo dicendo: "È il mio lavoro."
Ma questa pluralità immaginaria, questa capacità di suonare diversi strumenti, la comprende solo chi, come me, è pourri (per usare un'espressione francese), marcio di fiction.
Credevo che essere poliedrici fosse un merito da ricercare e utilizzare. Mi sbagliavo. Era richiesta un'unica storia, un'unica voce, un unico stile. Specializzarsi in un unico genere e in un unico modo di scriverlo, badando bene a ricercare una routine (ma fingendo originalità), evitando quelle variazioni che rendono sopportabile una narrativa già omologata fino alla nausea.
Niente poliedri, troppa fatica leggerli. Una lastra piatta cancellabile.
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