venerdì 4 dicembre 2020

Il solito vizio, di Pierluigi Larotonda


Presentazione di Enrico Luceri

Torino, febbraio 1975. Una città grigia, piovosa, dove i viali sfumano nella foschia, le locandine dei quotidiani appese alle edicole sventolano, agitate da un vento freddo e umido, e i passanti che si fermassero a leggere i titoli a caratteri cubitali, troverebbero le notizie su attentati terroristici e casi di cronaca nera.
Benevento è un poliziotto di origini meridionali, che si aggira per i quartieri più degradati di questa città industriale che già risente della crisi dei consumi dell’epoca.  Benevento non è un poliziotto qualsiasi: è stato corrotto da una gang siciliana per chiudere un occhio su un giro di bische clandestine. Come ammette egli stesso, si è corrotti per lucrare un guadagno illecito oppure per codardia e salvarsi la vita. Lui, poi, avrebbe come massima ambizione quella di ficcarsi in un posto di lavoro tranquillo e privo di rischi. Ma il destino decide diversamente.
Benevento non è solo un poliziotto corrotto. È l’io narrante del romanzo Il solito vizio, scritto da Pierluigi Larotonda, una storia che evoca immagini, suoni, voci e un’atmosfera che oggi pare remota e invece è immersa in un tempo relativamente vicino. Eppure reso così diverso e distante da un cambiamento epocale di abitudini e mezzi, favorito dal consumismo esasperato e dall’inarrestabile evoluzione della tecnologia.
Incaricato delle indagini sulla morte per apparente overdose della figlia di un maldestro ricattatore, Benevento scopre di amare il suo lavoro e dimostra capacità insospettabili di sbirro, aggirandosi in un milieu di immigrati senza possibilità di riscatto, emarginato con sospetto e sfiducia da colleghi e superiori. Allo sbaraglio dentro un intrigo che si rivela un vero labirinto di inganni e crimini, questo poliziotto scalcagnato che somiglia un po’ al sergente Sarti Antonio di Loriano Macchiavelli (che però è un questurino onesto fino al midollo) e cita correttamente Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, rovista a mani nude nella melma di usura, rapine, eversione, spaccio, truffa, prostituzione e un campionario vasto di delitti. A tratti confuso da personaggi abili a simulare un’indole diversa da quella reale, trova comunque il bandolo della matassa, consapevole del rischio che corre: essere soffocato dal filo teso attorno a lui da una singolare convergenza di interessi.
Una storia che sembra prendere vita dalle pagine e svolgersi davanti ai nostri occhi, per l’incisiva descrizione di un’umanità dolente, di una realtà di emarginati, piccola e media criminalità, spacciatori e tossici, insospettabili assassini e situazioni dove i profili di vittime e colpevoli si confondono e diluiscono, forse in quella stessa foschia che dilata le ombre e le facciate dei palazzi borghesi e popolari di Torino. Una sequenza ritmata di scene da film poliziottesco degli anni Settanta del secolo scorso, magari trasmesso qualche anno dopo da uno dei primi modelli di televisione a colori, con quell’effetto carico di ricordi addormentati nella memoria, e mai rimossi, che attendono solo una parola, un nome, il titolo di una canzone per svegliarsi. 
Perché i ricordi in fondo sono le nostre radici, e accettata l’indispensabile e minima dose di rimpianto, possono sfumare nella nostalgia solo a condizione di lasciarci guardare il futuro con la consapevolezza di ciò che siamo stati. E in fondo restano la più concreta testimonianza di essere vivi e vitali.
Il noir troverà la sua soluzione in un fatto di cronaca, in un vizio italiano purtroppo ancora ben presente nella società contemporanea.

Pierluigi Larotonda Il solito vizio, Bertoni Editore, euro 16,00

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