venerdì 10 febbraio 2023

Audition (Ôdishon, 1999)


Retrospettiva di Andrea Carlo Cappi

Audition è uno dei titoli più noti della vasta produzione del regista giapponese Takashi Miike, quello che tra il 2000 e il 2001 lo ha reso noto a livello internazionale. All'epoca si raccontava del pubblico sotto shock durante le proiezioni ai festival, probabilmente perché ignaro di ciò che li aspettava. Se n'è riparlato di recente, quando è stato proposto per alcuni giorni nelle sale italiane come "evento speciale". Mi è venuta voglia di rispolverarne un'edizione spagnola di in dvd, vent'anni fa, con traccia in giapponese e sottotitoli.
Il film, drammatico anche se potrebbe sembrare romantico con qualche punteggiatura umoristica, sfugge alle definizioni: se in Giappone il termine saiko haraa (derivato da psycho horror) indica in realtà storie di oscure presenze sovrannaturali, Audition è un'autentica vicenda di "orrore psicologico", relativamente poco esplicito, ma agghiacciante per tutto ciò che evoca... con l'assoluta mancanza di freni che spesso caratterizza il cinema nipponico di genere.
Tratto da un romanzo del 1997 di Ryu Murakami, racconta di Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi), solitario vedovo quarantatreenne di Tokyo, che su suggerimento del figlio teenager Shigehiko (Tetsu Sawaki) decide di risposarsi. Senza nemmeno accorgersi dell'interesse pressoché manifesto della sua assistente personale in ufficio, il brav'uomo ambisce a ricreare il rapporto che aveva con la defunta moglie, bella, intelligente e colta. Ma dove trovare una giovane donna che risponda a tali requisiti?

L'amico produttore televisivo Yoshikawa (Jun Kunimura) gli suggerisce un espediente: convocare aspiranti attrici per il casting di un film che non verrà mai realizzato e, fra le trenta candidate preselezionate in base al curriculum, scegliere la moglie ideale.
Quando le potenziali interpreti si presentano per l'audizione, tuttavia, Aoyama è già stato colpito dalle note personali di Asami Yamazaki (Eihi Shiina), che per un incidente ha dovuto rinunciare alla carriera di ballerina. La ventiquattrenne Asami, timida e quasi infantile, gli appare subito come una creatura angelica e seducente nella sua innocenza. In effetti, l'attrice aveva ventitré anni all'epoca delle riprese, ma sembra quasi coetanea del figlio del protagonista.
Aoyama non ascolta, ovviamente, il consiglio di Yoshikawa, che a pelle intuisce che qualcosa non vada nella ragazza. E non coglie i segnali del passato traumatico di Asami, che dovrebbe richiedere l'intervento immediato di una task force di psicologi. Al pubblico, tuttavia, la protagonista femminile viene mostrata anche con il suo lato più oscuro, che richiama giustappunto le figure femminili del saiko haraa, pur essendo in carne e ossa.

La ragazza sparisce nel bel mezzo del loro primo weekend romantico e non risponde più alle telefonate. Lui non ne conosce l'indirizzo, gli unici indizi sono una vecchia scuola di danza e un bar in cui lei lavora come cameriera. Aoyama comincia ad avere qualche sospetto quando, nella sua ricerca disperata, sente parlare di persone scomparse, omicidi e amputazioni assortite. Ma è troppo tardi: Asami vede riflessi in lui i responsabili del suo ampio bagaglio di abusi e si è convinta che le sue promesse d'amore siano false... Ma non rivelo come andrà a finire.
Audition è tutt'altro che banale e manicheista: Asami non è una dark lady vecchio stampo, mentre Aoyama, come certi personaggi di Hitchcock, non è del tutto innocente, anche se non merita certo di pagare per colpe altrui. La parte finale della pellicola gioca tra realtà e allucinazione (barando leggermente per spiazzare il pubblico) e trasmette sensazioni dolorose quasi quanto l'uso perverso dell'agopuntura evocato dalle parole kiri kiri kiri, per non parlare dell'altro strumento impiegato nel film.
Ma il fascino di Audition risiede proprio nella ricerca disperata dei protagonisti di una certezza di essere amati o amate. E in fondo, come disse qualcuno, chi ruba un piede è fortunato in amore... O forse no.

venerdì 3 febbraio 2023

Iperwriters - La droga delle formiche

Photo: Etienne Girardet on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 14 - La droga delle formiche

Venerdì, ore 13. Ancora un ritratto della scrittrice come giovane cagna randagia o, come si dice oggi, underdog.
Sempre la mia maestra delle elementari, santa donna che ci faceva disegnare molte Madonne: e non lo dico con sarcasmo. Era un buon essere umano e una eccellente insegnante; scrivo tuttora a partire dai suoi insegnamenti, per l'esempio l'uso del punto e virgola che vedete prima, da impiegare in sostituzione del punto quando non si vuole spezzare il periodo.
Sempre lei, in una valutazione che ho ritrovato dopo l'ultimo trasloco, afferma che ho letto tutti i libri disponibili per il prestito nella biblioteca scolastica. Non so se li ho portati a casa tutti, ma dev'essere sicuramente vero.
Perché, primo: la mia maestra non avrebbe mai firmato una falsità; secondo: cosa mai avrei potuto fare d'inverno con poca televisione e vicini noiosi? e terzo: mi rivedo piccola con un libro in mano, alla luce di una lampadina elettrica.
In una recente intervista, una domanda mi ha fatto ricordare due libri che allora mi avevano rapita: una raccolta di opere di Shakespeare (adattate per ragazzi) e una raccolta di saghe norrene (idem).
Ma ce n'è un terzo, che mi ha lasciato una profonda impressione: raccontava la vita delle formiche. Ogni formica che nasce, quale che sia la sua funzione (anche la regina costretta a partorire fino alla morte) è benvenuta all'Inferno. Non libera, assolutamente intercambiabile, non può far altro che lavorare. Le loro guerre (nere contro rosse) sono crudelissime e lasciano guerriere amputate sul campo.
Ma non è finita qui. Un particolare insetto, detto il pusher delle formiche, si installa in un formicaio. Secerne una sostanza che manda in estasi gli altri insetti. Le formiche lo nutrono e lo servono finché, drogate e indebolite, non muoiono. Il pusher allora le abbandona per andare in cerca di un nuovo formicaio.
Penso ora che il mondo in cui viviamo si sia ispirato ai formicai. I libri (e in seguito i film, le serie televisive), le evasioni da fatica e schiavitù perenni, sono le nostre droghe.
Con una differenza: noi non nutriamo e serviamo i produttori di queste droghe... perché anche loro sono formiche operaie.

venerdì 27 gennaio 2023

Babylon (2022)


Recensione di Andrea Carlo Cappi

"Se pensate che perlopiù i film siano brutti..." scriveva il grande romanziere noir Raymond Chandler nel 1948, dopo la sua scomoda esperienza come sceneggiatore a Hollywood, "vi basterà parlare con qualcuno dell'ambiente e scoprire come vengono fatti per stupirvi che ce ne sia anche qualcuno bello." In un certo senso, Babylon di Damien Chazelle estremizza questo concetto: ci presenta Hollywood nei suoi lati più fragili, problematici, decadenti od oscuri, ma al tempo stesso ne attesta la capacità di creare, nonostante tutto, universi che fanno sognare milioni di persone.
Babylon si svolge tra il 1926 e il 1932 (con una coda "vent'anni dopo"). Hollywood è già consolidata come centro dell'industria del cinema, un mondo assurdo in cui le apparenze vanno sempre mantenute, anche a costo di far sparire qualche cadavere. Ma due grandi cambiamenti sono in arrivo. Il primo è, nel 1927, il passaggio dal cinema muto al sonoro con tutte le sue conseguenze già inscenata nel 1952 in chiave di commedia musicale dal celebre Cantando sotto la pioggia (che nella finzione sarebbe stato ispirato proprio da alcuni episodi narrati in Babylon).
Il secondo cambiamento, sottinteso, è l'arrivo nel 1930 del Codice Hays, che proietta la sua ombra moralizzatrice non solo su quanto avviene sullo schermo, ma anche sulla vita privata dei divi... o perlomeno su ciò che di essa arriva sulla stampa, specie quando si tratta di relazioni omosessuali. E a queste regole se ne aggiungono altre di marca segregazionista: al cinema possono apparire musicisti neri che suonano insieme, purché siano tutti neri; le mixed bands non sono ammesse ed è un problema se un componente non sembra abbastanza nero (nella realtà accadde, per esempio, ad alcuni membri dell0orchestra di Duke Ellington).

Il protagonista Manuel "Manny" Torres, interpretato (in inglese con qualche battuta in spagnolo) da Diego Calva, è un immigrato che da assistente di produzione diviene dirigente di studio, un outsider che a tratti fa pensare al Nick Carraway de Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Dev'essere nato sotto la vergine con ascendente ariete, perché il suo destino è aggiustare situazioni che hanno ormai superato ampiamente la soglia del disastro ma, soprattutto, riuscire a trovare una soluzione per ogni problema.
Il cinismo che riesce ad acquisire non lo salva però dall'amore per la travolgente Nellie LeRoy ovvero Margot Robbie, come sempre perfetta in ruoli borderline, da Tonya Harding ad Harley Quinn; qui il suo personaggio, che ha molti tratti in comune con Marilyn Monroe, incarna ciò che Woody Allen in Mariti e mogli definì "donna kamikaze".
Il terzo comprimario è il divo plurisposato e semialcolizzato Jack Conrad (un impeccabile Brad Pitt). Tutti e tre vivono il sogno di Hollywood non solo come autoaffermazione, ma anche per far parte di qualcosa di più grande e duraturo.

Alcuni personaggi sono presi dalla Storia del Cinema, come il leggendario produttore Irving Thalberg (Max Minghella), che ispirò a Francis Scott Fitzgerald il romanzo Gli ultimi fuochi, da cui il film di Elia Kazan con Robert De Niro; a Thalberg, che qui non fa una splendida figura, è intitolato uno dei premi speciali della Notte degli Oscar. Altro personaggio reale è il gangster James McKay (un Tobey Maguire davvero inquietante) titolare del Cal-Neva, famigerato hotel-casinò sul confine tra California e Nevada che decenni dopo avrebbe portato alla dannazione anche Marilyn.
Il folle regista Otto Von Strassberger (Spike Jonze) è l'intuibile parodia di Erich Von Stroheim. La giornalista Elinor St. John (Jean Smart) richiama le celebri columnists Hedda Hopper, Elsa Maxwell o Louella Parsons ed è l'unica che abbia trovato il modo di restare sempre a galla; a lei viene affidato un monologo illuminante sul senso del cinema per chi lo fa. Ci sono poi il padre parassitario di Nellie (Eric Roberts), l'attrezzista-spacciatore The Count (Rory Scovel); la cabarettista Lady Fay Zhu (Li Jun Li) che per campare scrive le didascalie per il cinema muto... finché dura; e il jazzista Sidney Palmer (Jovan Adepo), uno dei pochi a cercare una via d'uscita dal caos, mentre altri continueranno a flirtare con l'autodistruzione.
Babylon passa dalla commedia all'umorismo nero al dramma, da momenti eleganti ad altri grotteschi o persino disgustosi; strizza l'occhio ai cinefili con riferimenti e citazioni, a partire dal titolo che richiama il libro Hollywood Babylon di Kenneth J. Anger sui veri o presunti scandali della Mecca del Cinema. Ma oltre a suggestioni da vecchi fatti di cronaca, vediamo replicare una gag di James Bond e l'incipit di Viale del tramonto, la danse macabre de Il settimo sigillo e l'elefante di Hollywood Party, fino ad autocitazioni dello stesso regista e persino allusioni ai personaggi di Brad Pitt e Margot Robbie nei film di Tarantino. Film su Hollywood che si nutre di film su Hollywood, in tre ore Babylon raggiunge proprio quello che certi critici prevenuti cercano di negare: la dimostrazione che, malgrado tutto quello che c'è dietro, il sogno del cinema perdura.

venerdì 20 gennaio 2023

Iperwriters - L'analisi del periodo

Photo: Nacho A on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 13 - L'analisi del periodo

Venerdì, ore 13.
Nel '79, come ho detto, comincia la mia navigazione nel mare della scrittura professionale, ovvero retribuita.
Ma a questo punto dovete concedermi un flash-back, anzi una serie di flash-back. Da dove viene un narratore/narratrice naturale alla fine degli anni '70, senza scuole di scrittura creativa, senza specifici corsi universitari e, soprattutto senza che nessuno gli/le abbia detto che si può essere scrittori/scrittrici?
Il mio primo ricordo di letteratitudine: sono alle elementari e il compito a casa è analisi del periodo. Una serie di frasi, forse una dozzina, o una quindicina, di cui individuare la proposizione principale, le coordinate e subordinate (causale, finale, temporale, consecutiva, modale, strumentale, concessiva). Non difficile. Svolgo il compito e vado ai giardini pubblici con mia madre, come ogni pomeriggio di primavera.
I giardini sono deserti. Niente compagni di classe con cui giocare, come al solito. Gioco da sola, un po' delusa.
In seguito saprò che tutti sono rimasti inchiodati a massacrarsi analizzando periodi per ore, talvolta senza venirne a capo, e che una delegazione di mamme avrebbe protestato con la maestra circa l'assegnazione di compiti talmente al di sopra delle normali capacità e forze infantili.
Scopro così che l'analisi del periodo, per me tanto leggera e divertente, era terribile.
Ma la mia maestra, che Dio la benedica, mi ha portata in prima media con un bagaglio di italiacano basico eppure completo, senza errori di sintassi, con un solo errore di ortografia (colossi con due elle, perché li volevo proprio colossali), e con l'analisi del periodo. Con la possibilità, cioè, di essere in futuro retribuita per comporre i miei modesti periodi.
Se negli anni '60 l'analisi del periodo era già oltre le umane possibilità, oggi viviamo nell'Era Illetterata Trionfante. Amici insegnanti o genitori di figli in età scolare mi dicono che i bambini non sanno più leggere e scrivere.
Fra quanti secoli, senza essere Manzoni o Marcel Proust, riavremo periodi di quattro, cinque righe sciolti, eleganti, di grande padronanza tecnica che muta in naturalezza?
Intanto non viene più pagata neppure una semplice proposizione principale. Tanto varrebbe che sparisse anche quella.

domenica 15 gennaio 2023

Le sensitive (Wonder Women, 1973)

 


Recensione di Andrea Carlo Cappi

Tra le curiosità irresistibili che si trovano da Bloodbuster, ecco un B-movie action-fantascientifico prodotto mezzo secolo fa da compagnie minori statunitensi e girato dal regista Robert O' Neil nelle Filippine. Da poco riaffiorato in dvd sotto il marchio High Show, il film riserva qualche sorpresa. Il titolo originale, Wonder Women, non ha nulla a che fare con la Wonder Woman della DC Comics che sarebbe giunta in tv di lì a poco con Lynda Carter, ma vedremo più avanti un curioso collegamento con quella serie. Il titolo italiano, Le sensitive, anche con un enorme sforzo di fantasia, non ha proprio nulla a che fare con la trama.
Ma il primo nome in cartellone è quello di Nancy Kwan, attrice sino-scozzese nata a Hong Kong e poi naturalizzata americana, che nel 1960 vinse un Golden Globe per il ruolo eponimo ne Il mondo di Suzie Wong, già interpretato a teatro. Benché la sua carriera cinematografica non sia proseguita in modo proporzionale all'esordio, ne Le sentitive l'attrice è la presenza senza dubbio più elegante di un cast in netta prevalenza femminile: la geniale e spietata dottoressa Tsu, espulsa da qualsiasi ordine della medicina mondiale per i suoi azzardati esperimenti, ma al tempo stesso molto più avanti rispetto alla sua epoca. Tanto da anticipare un tema narrativamente di moda solo vent'anni dopo: il rapimento finalizzato al traffico di organi.
Un aspetto non meno curioso, almeno per i fan del James Bond cinematografico, è quanto de Le sensitive sia stato saccheggiato esattamente dieci anni dopo e in modo quasi imbarazzante, per un film della serie. Ma occupiamoci di una cosa alla volta.


Le sensitive si apre con una serie di sequestri da parte di un commando multietnico costituito da belissime donne in graziosi mini-abiti, armate di pistole tranquillanti. Dopo l'attacco a una piscina in cui sguazzano voluttuosamente ragazze in topless (unica sequenza nudie del film) vediamo il commando catturare anche vari esemplari maschili, prevalentemente atleti. L'obiettivo è portare le vittime sull'isola privata in cui la dottoressa Tsu conserva corpi perfetti come involontari donatori per costosi trapianti per VIP, grazie al siero anti-rigetto da lei ideato. Si noti il caratterista Sid Haig, amato da Rob Zombie e Tarantino, nel ruolo dell'intermediario della dottoressa.
L'ultimo rapito, famoso giocatore di pelota basca in trasferta nelle Filippine, era assicurato presso i Lloyds di Londra per mezzo milione di dollari. La compagnia preferirebbe ritrovarlo vivo, quindi convoca a Manila il superdetective americano Mike Harber (Ross Hagen), ex CIA ed ex LAPD, di fatto un buzzurro che sotto la sahariana porta un'ingombrante arma da fuoco a canna doppia. Un falso mendicante cieco che ha assistito al rapimento (un ragazzo americano in fuga dalla leva obbligatoria per il Vietnam) indirizza Mike al boss locale Won Ton Charlie. Il quale fornisce a pagamento informazioni preziose, ma poi scatena (invano) i suoi scagnozzi su bizzari veicoli, all'inseguimento del detective in fuga su un pittoresco taxi. A un combattimento di galli Mike raccoglie una dritta: resti umani sono stati trovati dai pescatori al largo di una certa isola. In albergo il detective si lascia irretire dai capelli rossi e dalle lunghe gambe della killer Linda (l'attrice canadese Maria De Aragon) ma riesce a farla prigioniera per costringerla a portarlo sull'isola. Dove viene subito catturato dalle avvenenti guardie private della dottoressa.
Si passa alla parte più psichedelica del film: Mike viene sfiancato dal brain sex con la Tsu (mediante un apparecchio a metà tra Barbarella di Roger Vadim e Il dormiglione di Woody Allen) laddove le sicarie sono solite sollazzarsi fisicamente con gli atleti sequestrati, benché poco partecipi in quanto sotto l'effetto dei sedativi. Poiché Linda non è stata abbastanza efficiente, la dottoressa ordina che per punizione sia avviata all'espianto di organi. Mossa sbagliata in un momento delicato: la Tsu si appresta infatti a trapiantare in un nuovo giovane corpo il cervello del ricchissimo e ormai decrepito miliardario Paulson. Linda si ribella e trova un'alleata nella collega Vera (Claire Hagen, moglie del prim'attore). Per creare un diversivo viene aperta la gabbia degli esperimenti falliti della dottoressa: praticamente quattro orridi zombie che uccidono un po' di belle e cattive ragazze. Nel caos Paulson muore in sala operatoria, la Tsu fugge e Mike porta in salvo il prezioso pelotari, ancora vivo e tutto intero. Anche se nel post-finale il detective cade prigioniero di un nuovo commando di Wonder Women... Non sembra spiacergli troppo ma, dato che non esistono sequel, viene il sospetto che i suoi organi siano stati riciclati (non il cervello, naturalmente).


Si notano subito alcune ispirazioni dai film di 007 (l'isola maledetta di Licenza di uccidere; la banda di sicarie sexy di Missione Goldfinger) ma anche l'influenza dei film di Jess Franco liberamente basati sui personaggi di Sax Rohmer (da Fu Manchu a Sumuru). Sorprende però che un film di 007 del 1983, Octopussy, benché in parte basato su due racconti di Fleming (Octopussy, appunto, e Di proprietà di una signora) e su una buona trama da Guerra Fredda, sia stato rimpolpato rubando a man bassa idee da Le sensitive, riambientandole in India: dallo stravagante taxi inseguito da strani veicoli (in chiave ancora più ridicola rispetto all'originale) all'isola popolata solo da giovani e belle criminali.
Produzione da drive-in americano che richiama gli eurospy anni Sessanta, con un paio di scene che vorrebbero essere di arti marziali, Le sensitive può contare però sui deliziosi costumi di scena delle attrici. La vera co-protagonista è Maria De Aragon (Linda), non la più bella ma interessante (pare tuttavia che il suo ruolo più importante al cinema sia stato quello non accreditato del bounty-killer alieno Greedo in Guerre stellari del 1977). Spicca inoltre Shirley Washington (Maggie), con il suo perfetto look da blaxploitation completo di pettinatura afro; peraltro nella sua filmografia su Wikipedia le viene attribuita per errore un'apparizione nella serie tv Wonder Woman, in un episodio intitolato Women of Transplant Island, in realtà un titolo di lavoro de Le sensitive; ci fu però nel telefilm con Lynda Carter un episodio del 1978 in cui un milardario (John Carradine) cerca di far trapiantare il proprio cervello nel corpo di un giovane atleta... anche la vera Wonder Woman ha preso qualcosa da questo film.
La confezione del dvd contiene inoltre un suggestivo poster italiano dell'epoca (qui sotto), che ha ancora meno a che fare con i personaggi e suggerisce una pellicola sexy con scene di kung-fu e inseguimenti alla 007. Ce ne fu del resto uno fotografico ancora più subdolo (in basso) che sottintende un film erotico, e forse a questo voleva alludere il titolo italiano. Ma è noto che in quegli anni qualsiasi trucco era lecito per attirare pubblico in una sala cinematografica.




 



venerdì 16 dicembre 2022

Iperwriters - I can do that

Photo: Maksim Kaharlytitsyi on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 12 - I can do that

Venerdì, ore 13.
Per me è il 1978, e la svolta arriva dall’alternatività.
In tutti gli ambienti di alternativi c’è una grande mamma di tutti e, in quello che frequentavamo Max e io, la mamma era una sceneggiatrice di fumetti. Arruolata da uno studio locale con un’altra sede a Milano, che dava accesso a tutta l’editoria italiana a fumetti. Un mondo molto, mooolto diverso da quello attuale. Quasi un'era giurassica, di cui noi eravamo i dinosauri.
Niente scuole di scrittura creativa, sceneggiatura per film e comics. Si lavorava da subito e si era pagati. Si era pagati, in un paese in cui anche i laureati confondevano la sceneggiatura con la scenografia. Si era pagati quando quasi nessuno sapeva cosa fossero un soggetto e una sceneggiatura: questo dovrebbe far meditare.
Naturalmente, occorreva aver appreso quanto serviva da subito: gli sceneggiatori anziani fornivano solo consigli di carattere tecnico (per esempio: prepara il colpo di scena in pagina dispari in modo che il lettore lo trovi in pagina pari). Al resto (cultura generale, capacità di visualizzazione, inventiva, struttura, passaggi da una scena all’altra, ritmo ed equilibrio) doveva provvedere la natura.
Nel film Chorus Line un ballerino racconta di aver scoperto il suo talento guardando danzare altri: I can do that. Per me è stato così.
Sapevo costruire una storia. Come, perché? Forse per l'enorme quantità di libri e film divorati: “Tu fai tuo tutto quello che leggi”, diceva la mia insegnante di italiano alle superiori. Ma ho scoperto solo con i fumetti di avere questa capacità biologica.
Il primo soggetto accettato: la storia di uno sciamano sioux che vede la fine dei popoli americani.
Il mondo non si apriva, ma si socchiudeva abbastanza per farmi sperare. Non era il paradiso americano, ma una goccia di libertà e una fuga all’interno dell'Italia. Settantamila lire per le pubblicazioni Universo, cento per quelle della Lancio.
A questo punto la mia storia comincia a intrecciarsi veramente a quella della Letteratura Italiacana. Nella buona e nella cattiva sorte, come in ogni fottuto matrimonio.


domenica 11 dicembre 2022

Buio in scena o la nuova carne della letteratura


Recensione e retroscena di Andrea Carlo Cappi
Illustrazioni di Roberta Guardascione

Era un po' che nell'ambiente della letteratura fantastica italiana sentivo parlare del romanzo "Buio in scena" di Mario Gazzola, già finalista all'illustre Premio Laymon di Independent Legions, benché non ancora pubblicato. Per leggerlo ho dovuto aspettare che nascesse il marchio Posthuman. Perché in apparenza il libro piaceva parecchio ad alcuni editori, ne spaventava molti altri e nessuno sapeva come etichettarlo - come capita a tutto ciò che è davvero innovativo - quindi il romanzo è rimasto inedito fino all'estate 2022.
Meglio così: forse perché cresciuta in un ambiente inospitale, la creatura si è evoluta ed è diventata sempre più forte, trasformandosi in un fenomeno che ormai dallo scorso settembre è colpevole ignorare. Se qualcuno ha bisogno di etichette, ne propongo io una di stampo cronenberghiano: "la nuova carne della letteratura", ossia qualcosa che parte dalla narrativa per occupare nuovi spazi.
L'autore ammette di essere partito da una notizia di cronaca: uno spettacolo teatrale allestito con i detenuti di un carcere ebbe un tale successo da essere portato in tour in teatri veri... ma alcuni degli interpreti approfittarono dei giorni di libera uscita per riprendere certe vecchie attività criminali. Già questo spunto basterebbe per immaginare una storia alla Quentin Tarantino, giusto per usare un'etichetta. Tuttavia Mario Gazzola va ben oltre.


Nel romanzo, il regista dello spettacolo è il folle e geniale Alvaro Cortez, il quale segue i dettami di un saggio ormai introvabile (vero e proprio "libro maledetto") che propone un teatro assoluto e totalizzante. Il regista lavora quindi sui suoi attori-detenuti, innestando nel testo le loro storie personali, a costo di portare alla luce le ombre più oscure del loro inconscio. E qui all'ambientazione carceraria e alla componente noir si aggiunge una dimensione di horror psicologico con risonanze rock-blues. Non siamo di fronte a un'ibridazione letteraria elaborata a tavolino, bensì a un'opera originale, coinvolgente, affascinante e destabilizzante.
Non pago di ciò, Gazzola ha anche scritto una versione alternativa della storia, in chiave di teatro nel teatro. Insieme a Roberta Guardascione, artista il cui immaginario visivo coincide con quello letterario dello scrittore, ha dato vita a un secondo libro, interamente illustrato, per cui bisogna inventare una definizione tutta nuova: potremmo dire "graphic drama", giusto perché il termine più corretto "graphic play" potrebbe essere scambiato da chi non sa l'inglese per un videogame. Il testo teatrale "Buio in scena - Il teatro della dannazione" si inserisce tra immagini di scena e scenografie concepite dall'artista, proiettando chi legge nell'universo condiviso da entrambi gli autori.
Che Gazzola ami le contaminazioni tra varie arti si sapeva già, da quando non solo ha scritto il saggio "Fantarock" con Ernesto Assante (vincitore del Premio Vegetti), ma ne ha messo in pratica i concetti con il sorprendente esperimento di "S.O.S. - Soniche Oblique Strategie", in cui sotto la sua direzione vari autori e illustratori sono stati coinvolti in un gioco letterario tra fantascienza, rock e metaletteratura; entrambi i titoli sono editi da Arcana. 


Ma nei due volumi di "Buio in scena" narrativa, teatro, pittura, musica e realtà si fondono in forme del tutto nuove. Dico "realtà" a seguito di quanto avvenuto nel settembre 2022 al Festival Torre Crawford di San Nicola Arcella (Cosenza), legato all'omonimo concorso letterario ispirato allo scrittore Francis Marion Crawford che proprio qui scrisse molte sue opere. Erano previste la presentazione dei due ancora inediti e misteriosi libri di Gazzola, e la mostra con le relative illustrazioni di Roberta Guardascione, autrice anche dell'immagine di copertina per l'antologia annuale del Premio Torre Crawford.
Tra i racconti anonimi pervenuti al concorso ne era nascosto uno di Mario Gazzola, che si salda sia al tema dell'anno (dal racconto "La bambola fantasma" di F. M. Crawford), sia all'universo di "Buio in scena". Nessuno sapeva ancora nulla del contenuto dei due libri, ma tutti i giurati sono rimasti travolti dalla potenza del racconto, che è risultato vincitore dell'edizione 2022 ed è ora incluso nell'antologia "Un'inquietante sensazione indefinibile", disponibile da Oakmond Publishing in volume e ebook su Amazon, e nell'edizione cartacea ordinabile anche presso segreteria@premiotorrecrawford.it.
So che Mario Gazzola e Roberta Guardascione non hanno ancora finito di esplorare il mondo oscuro di "Buio in scena", ma intanto non potete rinunciare a scoprirlo in tutta la sua forza immaginifica nel romanzo e nella versione teatrale illustrata, che saranno presentati al Wow-Museo del Fumetto di Milano (viale Campania 12, ingresso libero) il 17 dicembre 2022 alle 17.00 durante l'evento "Una slitta piena di libri", che si concluderà alle 18.00 con un brindisi natalizio.










Iperwriters - Tiro al piccione su Superman

Photo: Johan Taljaard on Unsplash I perwriters - Editoriale di Claudia  Salvatori Letteratura italiacana - 59 - Tiro al piccione su Superman...