martedì 28 agosto 2018
Mission: Impossible - Dalle origini a Fallout - 1
Percorso di Andrea Carlo Cappi
Cominciamo
da una riflessione musicale. Fatti i conti, nel 2018 sono ben
cinquantadue anni che si sente risuonare quel
tema, composto nel 1966 da Lalo Schifrin, nato a Buenos Aires nel
1932 ma cittadino americano del 1969, noto soprattutto per le sue
innumerevoli colonne sonore per cinema e televisione. E, ancora di
più, conosciuto per la sigla iniziale di Mission:
Impossible, destinata fin da
subito a una fama pari a quella del James Bond Theme di
Monty Norman e del Pink Panther Theme
di Henry Mancini, per restare nell’ambito di quello stesso
decennio.
A
dire il vero, in origine il brano dei titoli di testa dei telefilm
avrebbe dovuto essere diverso. Ma Bruce Geller, creatore di Mission:
Impossible, non era convinto e
suggerì al compositore di rielaborare un altro dei temi
scritti per l’episodio pilota. Nel 2010 lo spot pubblicitario di
una nota marca di tè immaginò Schifrin che ne
sorseggiava una tazza mentre scriveva una partitura... con musicisti
e strumenti di un’orchestra immaginaria che comparivano e sparivano
a seconda di correzioni e ripensamenti, fino a quando il brano si
configurava come quello ormai famosissimo di Mission: Impossible.
Per
tradizione gli episodi dei telefilm storici si aprivano con il tipico
trillo sopra l'inquadratura di una mano che dà fuoco a una
miccia; la fiammella scorreva orizzontalmente sopra un montaggio
rapidissimo di scene del particolare episodio (il che comportava
realizzare una sigla parzialmente diversa ogni settimana) prima di
passare alla presentazione del cast e all'apparizione del titolo
della serie sulle note finali.
Dal
1966 il title theme della serie (insieme
a un altro brano, intitolato The Plot)
ha accompagnato le sette stagioni di Mission: Impossible
(fino al 1974), le due stagioni di una successiva ripresa (dal 1988
al 1990) e i sei film dal 1996 a oggi. E non solo: il gruppo rock
King Crimson lo rielaborò in un passaggio di 21st
Century Schizoid Man del 1969,
mentre il regista spagnolo Alex De La Iglesia lo prese in prestito
per una scena del suo film fantasatirico Azione mutante
(1993). Ormai da una ventina
d'anni lo ritroviamo anche nelle suonerie dei cellulari.
Musica
a parte, la Mission: Impossible
televisiva era piuttosto diversa da quella di oggi, pur avendo creato fin dal
principio uno schema narrativo originale nell’ambito della spy
story, all’epoca
del massimo splendore del filone, ovvero gli anni
Sessanta. L'impossibile del titolo consisteva, per una squadra
di agenti statunitensi, nel concepire e attuare una strategia in cui
– mediante infiltrazione tra gli avversari, espedienti tecnologici,
disinformazione e apparenti doppi giochi – si creasse uno scenario
tanto opportuno quanto falso, che traeva in inganno gli avversari.
Che si trattasse di organizzazioni spionistiche o criminali,
l'obiettivo era di condurle all'autodistruzione o di portare alla luce
segreti di importanza vitale che non sarebbero mai stati rivelati in
circostanze normali.
Dal
primo episodio della serie cinematografica (1996), invece,
l’impossibile è
rappresentato principalmente dalla capacità dell’attuale
protagonista Ethan Hunt (Tom Cruise) di sopravvivere a imprese
acrobatiche e prove fisiche che ucciderebbero chiunque altro,
nell’arco di due ore e più di azione pressoché
ininterrotta. La chiave di tutto è divenuta la spettacolarità.
In un certo senso, il film peggiore sul piano della sceneggiatura è
anche quello più apprezzato sul piano estetico, vale a dire
M.I.-2, diretto nel
2000 da John Woo, il grande regista di Hong Kong. La trama è
ridotta all'osso e l'unico guizzo di originalità è,
purtroppo, identico a uno dei colpi di scena del preesistente romanzo
James Bond 007 – Obiettivo Decada (1998)
di Raymond Benson; vuoi perché certe idee sono nell'aria (a
volte capita che autori diversi scrivano qualcosa di molto simile,
ignari l'uno del lavoro dell'altro) vuoi perché è stato
copiato di sana pianta.
Ai
vecchi tempi le sequenze d’azione erano molto più contenute,
anche per la necessità di girare in tempi rapidi gli episodi
settimanali, e la durata di ciascun episodio si limitava a
quarantacinque minuti, con l’eccezione di un paio di storie divise
in due puntate, in seguito rimontate sotto forma di film da novanta
minuti: Mission Impossible versus The Mob (1968)
e Il serpente d’oro
(1989). Ma, curioso a dirsi, il contenuto di trama di un episodio tv
era pari o superiore a quello di un attuale film da due ore e oltre.
Una curiosità: Mission:
Impossible era inizialmente prodotta dalla Desilu, la casa
indipendente di proprietà della coppia di attori Lucille
Ball-Desi Arnaz (interpreti negli anni Cinquanta della sit-com I
Love Lucy, di enorme successo negli USA), che nello stesso
periodo lanciò un'altra serie di culto, Star Trek. Nel
1967 venne acquisita dalla Gulf+Western Company, proprietaria della
Paramount Pictures, che la trasformò nella Paramount
Television e continuò a realizzare entrambe le serie sotto il
nuovo marchio.
Sia nella gestione Desilu, sia in quella Paramount,
diversi interpreti di Star Trek apparvero in episodi di
Mission: Impossible, a partire da George Takei (il signor Sulu
dell'Enterprise), per poi proseguire con la prolungata partecipazione
di Leonard Nimoy (il mitico signor Spock, qui nella parte di Mr.
Paris) e chiudere infine con un'apparizione di William Shatner (il
comandante Kirk). Oggi le due serie, in versione cinematografica,
hanno di nuovo un interprete in comune: Simon Pegg, ingegner Scott in
Star Trek e Benji Dunn in Mission: Impossible.
È
anche da notare che nella M:I anni Sessanta lavorarono per la
prima volta insieme Barbara Bain (nel ruolo di Cinnamon Carter) e
Martin Landau (in quello di Rollin Hand), sposati nella vita e in
seguito protagonisti della serie britannica Spazio: 1999. Ulteriore curisosità di stampo familiare: nella ripresa della serie tv del 1988 fa parte del cast Phil Morris, figlio (come personaggio e nella vita reale) di Greg Morris, uno dei protagonisti delle stagioni originali, che qui riprese la sua vecchia parte come guest star.
Al centro delle vicende delle serie tv è un immaginario servizio segreto del governo
americano – indipendente tanto dalla CIA quanto dall’FBI e
operante sia all’estero, sia sul territorio degli Stati Uniti –
denominato Impossible Mission Force, in sigla IMF. In realtà nelle ultime stagioni degli anni Settanta molte operazioni si svolgono proprio in patria, ma solo per ridurre i costi di costumi e scenografie necessarie a ricreare paesi stranieri; mentre nella versione anni Ottanta le riprese sono effettuate in Australia, dove si girerà anche il secondo film con Tom Cruise.
Tornando al 1966, nella prima
stagione a dirigere le operazioni è un agente di nome Dan
Briggs (l’attore Steven Hill) mentre nella seconda l’incarico
passa a Jim Phelps (Peter Graves), che si vedrà in tutti gli
episodi fino al 1990 e si ripresenterà (interpretato però
da Jon Voight) anche nel primo film, al termine del quale le consegne
passeranno a Ethan Hunt.
Il
format originale prevede una serie di veri e propri rituali, talvolta
richiamati ancora oggi: il team leader
della Impossible Mission Force si presenta in un luogo che si rivela
essere una “buca
delle lettere”, come si dice in gergo,
spesso scambiando parole d’ordine con un contatto; quindi ha
accesso a un nastro (ma in qualche caso a un disco in vinile e, negli
anni Ottanta, un dischetto da computer) da cui riceve una serie di
istruzioni per la missione... “se decide di accettarla”.
Con un
tocco burocratico non estraneo allo stile dei servizi segreti, dopo
il briefing la voce – appartenente all'attore Bob Johnson, mai
apparso di persona nella serie ma presente in questo ruolo fino agli
anni Ottanta – precisa che, qualora uno dei membri della squadra
dovesse essere catturato o ucciso, il Segretario negherà
qualsiasi responsabilità del governo: è il concetto di
“negabilità plausibile” (spesso non poi così
plausibile) che vedremo applicato dalla CIA nella realtà,
specie ai tempi di Reagan, e che sarà rivelato dal giornalista
Bob Woodward nel suo libro-inchiesta Veil.
Nelle serie tv non si è mai saputo chi fosse il Segretario che
dirigeva dall'alto l'IMF, mentre nei film ne vedremo parecchi:
Anthony Hopkins, Laurence Fishburne (che però è
chiamato “direttore”), Tom Wilkinson e, oggi, Alec Baldwin.
Un'altra
pratica ripresa dallo spionaggio della realtà, pur con
modalità più fantasiose nella serie tv, è quella
che sempre Bob Woodward insieme a Charles Bernstein aveva portato
alla luce in un precedente libro-inchiesta, il celebre Tutti
gli uomini del presidente (da
cui l'altrettanto celebre film). Nello slang della CIA la tecnica
veniva chiamata ratfucking –
“intraffottere”, nel doppiaggio italiano – e consisteva
nell'uso attivo della disinformazione e dell'inganno allo scopo di
confondere le acque tra gli avversari. Nel mondo reale, per esempio,
il presidente Nixon e il gruppo di agenti CIA al suo servizio privato
compromisero la candidatura del potenziale rivale Edward Muskie alle
primarie del Partito Democratico in vista delle elezioni del 1972,
diffondendo una falsa missiva scritta sull'autentica carta da lettera
di questi.
Il
ratfucking della serie
tv è molto più sofisticato, anche sul piano
tecnologico. Include la creazione di maschere in grado di replicare
le fattezze di chiunque, curiosamente identiche a quelle in uso fin
dal 1962 nelle avventure di Diabolik; forse è questo il motivo
per cui nel film tratto da Mario Bava nel 1968 dal mitico fumetto
italiano e distribuito nel mondo dalla Paramount – già
allora titolare di Mission: Impossible
– né Diabolik né Eva Kant fanno mai uso delle
maschere, che sono invece una caratteristica irrinunciabile nelle
loro avventure.
Situazione
tipica: uno o più agenti dell'IMF si sostituiscono grazie alle
maschere ad alcuni avversari, agendo o facendo dichiarazioni che
creano scompiglio; così a volte sono le stesse spie straniere
a uccidersi a vicenda, tratte in inganno dai travestimenti. Altra
situazione ricorrente: per indurre un nemico a parlare, l'IMF lo
sequestra e lo porta nella realtà distorta di un set allestito
opportunamente, per indurlo a svelare segreti che non confesserebbe
mai sotto interrogatorio.
Quest'ultima
trovata può essere fatta risalire a un romanzo del 1959 di
Philip K. Dick, Time Out of Joint
(noto in Italia come L'uomo dei giochi a premio,
Tempo fuori luogo e
Tempo fuor di sesto).
Non dev'essere un caso se il grande autore americano di fantascienza
propose nel 1967 un ottimo trattamento per un episodio della serie
che, purtroppo, venne rifiutato, forse perché, malgrado i nomi
di luoghi e personaggi fossero fittizi, aveva chiari riferimenti alla
politica di Cuba e alle figure di Fidel Castro e soprattutto di Che
Guevara, ucciso proprio in quell'anno. Gli avversari dell'IMF tv non
erano mai identificabili con un paese preciso e le missioni
all'estero si svolgevano – anche qui un po' come i fumetti di
Diabolik – in luoghi
del tutto immaginari: in genere paesi dell'Est europeo dalla lingua
ibrida, mentre al posto dell'URSS si nominava un'immaginaria EEPR
(East European People's Republic).
Non
va trascurato inoltre che il Time Out of Joint di Dick precede
anche un appassionante film di spionaggio del 1964: Le ultime
trentasei ore, diretto da George Seaton e liberamente ispirato a
un racconto di Roald Dahl. Nella storia originale, un pilota alleato
durante la Seconda guerra mondiale si risveglia in terapia dopo
essere stato abbattuto e comincia a domandarsi se sia stato davvero
recuperato dai suoi, oppure non si trovi invece prigioniero dei
nazisti nella replica di una stanza di ospedale; non ci viene data
risposta, mentre nel film il protagonista è un agente
americano (James Garner) che ha perso conoscenza dopo un'aggressione
a Lisbona; si risveglia in una clinica per veterani alla fine della
guerra... o così sembra, perché ben presto si rende
conto che la guerra è ancora in corso è l'ambiente che
lo circonda è un'elaborata messinscena dei nazisti per indurlo
a lasciarsi sfuggire i segreti di cui è a conoscenza, credendo
che ormai tutto sia già avvenuto; a questo punto l'unica
possibilità è la fuga. E, per chi è appassionato
di serie televisive, è inevitabile l'associazione di idee non
solo con Mission: Impossible ma
anche con Il Prigioniero
(1967-68). Lo stesso concetto, ancora più vicino all'idea
originale di Philip K. Dick, ispira fortemente il film di Peter Weir
The Truman Show (1998),
che a sua volta richiama l'episodio A World of Difference
(1960) della serie tv Ai
confini della realtà.
domenica 29 luglio 2018
The Shallows (2016)
Recensione di Andrea Carlo Cappi
Un film il cui titolo nella distribuzione italiana, Paradise Beach – Dentro l’incubo, può creare equivoci, se si fa caso solo alla parte che precede ul trattino, laddove il titolo originale significa, più semplicemente, "le secche" (ma in italiano sarebbe stato frainteso). Uscito con un discreto successo nell’estate 2016, è un’ottima variazione sul filone degli squali, in cui il tema non è quello della caccia, bensì quello della pura sopravvivenza individuale.
Nancy Adams (Blake Lively), studentessa texana di medicina, compie una sorta di pellegrinaggio alla spiaggia messicana senza nome in cui venticinque anni prima sua madre scoprì di essere incinta. Il regista iberico Jaume Collet-Serra si serve di unespediente già da lui stesso impiegato nel bel thriller Non-Stop con Liam Neeson e Julianne Moore - sovrapporre alle immagini il display di un cellulare - per raccontare tra fotografie e videochiamate i retroscena della vacanza: la ragazza ha lasciato l’università, in crisi dopo la malattia e la morte della madre. L’aspetto umano della protagonista viene presentato con sobria concisione in brevi ma significative pennellate.
Sono in pochissimi a conoscere le spiaggia, paradiso per i surfisti locali che mantengono il segreto. Nancy prende la tavola. Ma, fatalmente, si avvicina troppo alla carcassa di una balena sotto la quale banchetta invisibile uno squalo gigantesco. Lei gli sfugge per miracolo, a prezzo di uno squarcio a una gamba che dovrà medicarsi da sola con mezzi di fortuna, dopo essersi rifugiata su uno scoglio di cui, con l’alta marea, resta emersa solo la sommità.
E adesso?
La spiaggia è vicina, ma non abbastanza da battere lo squalo sul tempo. Il telefono è nello zaino a riva, l’area è deserta, nessuno può intervenire. Ma Nancy non si arrende, anche se qualsiasi mossa faccia provoca un attacco immediato da parte dell’avversario. Deve giocare d’astuzia, calcolare i tempi e le distanze, e sfruttare il poco che ha a disposizione.
La forza del film, scritto in modo essenziale da John W. Richardson e Chris Roach (stesso duo di Non-Stop), ben diretto e ben interpretato, è proprio il confronto tra un’eroina solitaria, in scena ininterrottamente dal principio alla fine, e una forza della natura nettamente superiore a lei. C’è persino un tocco stile Il vecchio e il mare, cosa insolita per un thriller estivo a base di squali. Il che dimostra che, quando si ha talento, si può prendere un soggetto prevedibile e farne una bella storia.
sabato 28 luglio 2018
La vespa e la formica
Recensione di Andrea Carlo Cappi
Potrebbe
essere il titolo di una favola di Esopo in chiave entomologica, ma mi
riferisco invece a Ant-Man and the Wasp, serie a fumetti anni Sessanta della Marvel Comics dedicata alle imprese
dei due supereroi eponimi – le cui vere identità erano
all’epoca Hank Pym e Janet van Dyne – quando non apparivano insieme ad altri supereroi in The Avengers. E
mi riferisco soprattutto al film che nell’estate 2018 vede invece
come protagonisti i personaggi che, fumettisticamente, ne hanno
assunto i ruoli nella generazione successiva, Scott Lang e Hope van
Dyne, figlia dei primi due.
Innanzitutto
vi rassicuro: non ho intenzione di abbandonarmi qui ad alcuno spoiler
sulla produzione più recente e attuale dei Marvel Studios,
anche se ne troverete qualcuno riguardante i film degli anni passati.
Ma penso di poter affermare ciò che tutti gli appassionati già
sanno: dopo Infinity War,
il cosiddetto MCU – l’universo cinematografico che riunisce buona parte, ma non tutti, dei personaggi dei fumetti Marvel visti nell’ultimo decennio su grande e piccolo schermo – è in sospeso fino alla tarda primavera
del 2019, nell’attesa della seconda parte del film dedicato ai
Vendicatori e alle Guerre dell’Infinito. Il che non impedisce a
sceneggiatori e registi di fare cronologicamente qualche passo
indietro nel tempo.
Nel
caso di Ant-Man and the Wasp,
si parla solo di un balzo a qualche settimana prima di
Infinity War,
spiegando in che cosa fossero impegnati i personaggi di questa
sotto-serie e perché nessuno di loro abbia più a che
fare con l’una o l’altra fazione in cui i Vendicatori si erano
divisi nel corso di Captain America – Civil War.
Va ricordato che, grazie al sistema tecnologicamente avanzato
contenuto nella sua tuta, Ant-Man è in grado di cambiare
dimensioni, raggiungendo quelle di una formica (come lascia intendere
il nome) per tornare poi a quelle normali; un intenso addestramento
impartitogli dal suo mentore Hank Pym e dalla figlia di questi,
Hope, ha fatto di lui un combattente formidabile nell’una e
nell’altra taglia. Ma in Civil War
lo abbiamo visto applicare la stessa tecnologia in senso inverso,
trasformandosi – come già a suo tempo si era visto nei
fumetti – in Giant Man durante lo scontro tra supereroi in
Germania, dal lato dei ribelli.
Catturato
dopo quell’episodio, in base ad accordi tra i governi tedesco e
americano, e nel rispetto del Protocollo di Sokovia sulla limitazione
delle attività superumane, Scott Lang (Paul Rudd) ha
patteggiato due anni di arresti domiciliari, nel corso dei quali non
può allontanarsi di un millimetro dai confini domestici
prestabiliti, tantomeno impegnarsi in attività da supereroe.
Né gli è consentito avere contatti con Hank Pym
(Michael Douglas), inventore del processo di miniaturizzazione
molecolare oltre che già supereroe nei panni di Ant-Man negli
anni Ottanta, prima da solo, poi insieme a Janet/Wasp; o con la
figlia di questi, Hope (Evangeline Lilly), che abbiamo lasciato alla
fine di Ant-man mentre
era sul punto di collaudare una versione modernizzata della tuta di
Wasp.
La
scena di apertura del film ci riporta indietro di trent’anni,
quando Hank e Janet (Michelle Pfeiffer, ringiovanita in questa
sequenza grazie a sofisticati effetti speciali) si congedarono dalla
figlia prima di partire per una missione che si sarebbe rivelata
fatale e di cui abbiamo già visto una sequenza nel precedente
Ant-Man: per
disinnescare un missile nucleare prima che raggiungesse il bersaglio,
Janet dovette miniaturizzarsi a oltranza, riuscendo nell’intento ma
perdendosi poi in un universo quantico da cui non avrebbe mai fatto
ritorno. Tuttavia, nel corso della sua prima avventura, Scott non ha
avuto scelta che usare a sua volta lo stesso espediente, riducendosi
a misure subatomiche ma riemergendo grazie alle nuove tecnologie
sviluppate nel frattempo da Hank. E se Janet fosse ancora viva,
laggiù, da qualche parte, e le scoperte scientifiche del
marito potessero ora permetterle di tornare?
Va
precisato che, mescolando elementi presenti da mezzo secolo nei
fumetti Marvel (a volte raffigurati con memorabili scenari
psichedelici) e teorie scientifiche contemporanee, il Regno Quantico
è un universo vero e proprio, uno dei tanti scoperti da
Stephen Strange nella sua prima lezione di arti mistiche nel film
Doctor Strange, in cui
le leggi convenzionali dello spazio-tempo perdono di validità.
Ma, stando a quanto si apprende in questa nuova pellicola, certi
esperimenti nel campo della fisica quantistica possono avere
conseguenze imprevedibili. Del resto Scott ancora non lo sa, ma la
sua esperienza sub-atomica ha lasciato in lui più tracce di
quanto possa immaginare.
Così,
mentre lui passava due anni senza uscire di casa, giocando con la
figlia e facendo da consulente all’agenzia di sicurezza privata in
cui lavorano Luis (Michael Peña) e i suoi ex-compagni di
galera – opportunamente denominata X-Con, che suona come ex-con,
ovvero ex-detenuti – Hank e Hope si sono dati da fare, nonostante
siano tuttora ricercati dall’FBI in quanto complici indiretti e
involontari delle attività di Ant-Man come supereroe ribelle.
Hanno perfezionato la tecnica di
miniaturizzazione-sminiaturizzazione, applicandola ad autoveicoli e
persino a un intero edificio, e progettato un portale per viaggiare
nell’universo quantico. Hope (che nel frattempo si è fatta
crescere i capelli, abbandonando il rigido caschetto del primo film,
meno pratico per indossare l’elmetto) ha ormai ereditato il ruolo
di Wasp, cosa che le torna utile quando deve trattare con loschi
figuri per procurarsi i componenti che occorrono per completare il
progetto.
Per consentire a Hank di giungere
all’obiettivo finale – la ricerca di Janet – Scott e Hope
devono ora riunire le forze per fronteggiare il subdolo mercante
tecnologico Sonny Burch (Walton Goggins); scontrarsi con un
misterioso rivale denominato Ghost (Hannah John-Kamen) che si
interessa alla stessa tecnologia; discutere con un astioso collega
del dottor Pym, Bill Foster (Laurence Fishburne); e sfuggire
all’agente FBI Jimmy Woo (Randall Park). Mentre il film si addentra
sempre di più nella sua dimensione fantastica, non mancano il
cameo del creatore della Marvel, Stan Lee, e, dato che siamo a San
Francisco, una variante inedita del classico inseguimento tra auto
sulle strade collinari.
Il
film, che rappresenta il ventesimo episodio della saga cominciata nel
2008 con Iron Man, è
una piacevole mescolanza di poliziesco, azione, commedia (con le
consuete gag del gruppo di ex-galeotti) e teorie (fanta)scientifiche
portate a un’efficace rappresentazione visiva. È
consigliabile avere visto ameno il precedente Ant-Man
per apprezzare molti degli aspetti che qui vengono ormai dati per
acquisiti. I doverosi collegamenti con la continuity dell’intera
saga sono riservati invece alle sequenze inserite nei titoli di coda,
che ancora molti spettatori si perdono nella frenesia di correre
all’uscita come se la sala andasse a fuoco; e sì che sono
una consuetudine da almeno quindici anni, in questo genere di film!
Iscriviti a:
Post (Atom)
Iperwriters - "Vuoi pubblicare il tuo libro?"
Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori Letteratura italiacana - 67 - "Vuoi pubblicare il tuo libro?" Venerdì, ore 13. Una d...

-
Retroscena di Andrea Carlo Cappi Vi racconto due storie in breve, una immaginaria e una vera. Ma tutt'e due sono relative a un libro che...
-
Recensione di Andrea Carlo Cappi Una volta di più Gabriele Mainetti realizza con successo un film che non ci si aspetterebbe da una produzi...
-
I perwriters - Editoriale di Claudia Salvatori Letteratura italiacana - 66 - Il re degli zombi Venerdì, ore 13. Sto ancora cercando di crea...