Giovanni Ingrosso |
Spy Game incontra...
Continua su Borderfiction Zone la serie di incontri con gli autori della collana in ebook di Delos Digital Spy Game – Storie della Guerra Fredda. Dopo Enzo Verrengia, parliamo con Giovanni Ingrosso, entrato a far parte della squadra nel 2023, ma ormai da anni autore di narrativa di spionaggio, oltre che esperto dei suoi retroscena storici.
Giovanni Ingrosso, l'indagatore della Guerra Fredda
SG: Benvenuto tra gli autori di Spy Game. Abbiamo conosciuto il tuo nuovo protagonista, ex partigiano e funzionario dei servizi segreti italiani negli anni Settanta, negli episodi Ufficio R e L’oro del lago, prime due parti di una trilogia che si conclude con L’uomo di Cambrige e della quale stai già preparando il seguito. Presentaci la tua serie e il tuo protagonista.
GI: Quando Cappi mi ha offerto di collaborare a una collana di spionaggio, il mio cuore ha fatto un salto. Ho pensato che era un bellissima occasione per entrare nel mondo delle “Storie di Frontiera”, il mondo di Andrea Carlo Cappi, Andrea G. Pinketts, Alan D. Altieri, Stefano di Marino, senza dimenticare Ferdinando Pastori, Sergio Rilletti e gli altri autori conosciuti agli incontri di Borderfiction all’Admiral Hotel di Milano.
Una simile occasione richiedeva un approccio di lusso. Ho pensato prima di tutto a un personaggio diverso dal solito agente segreto, più sul genere Le Carré che sul genere Fleming. Un personaggio che guarda da fuori le storie e poi le racconta. Ho scelto il cognome di un famoso sceneggiatore come Zavattini, che rappresentava esattamente questo. Poi ho pensato che con quel cognome doveva per forza essere di Pennabilli e di conseguenza avere gusti da romagnolo: pane, mortadella e lambrusco. Ho cercato di raccontare uno qualunque, che fa la spia per i casi della vita e non per vocazione… Ma attenti: Zavattini non è un fessacchiotto, quindi da lui ogni tanto c’è da aspettarsi qualche colpo di genio, da vero professionista, e una profonda, prudente conoscenza del mondo in cui si muove
Ma Zavattini è anche il testimone di un’epoca della storia italiana coincidente con la Guerra Fredda, in cui i servizi segreti, nostri e altrui, hanno imperversato sul nostro povero paese. Così ci sono la strana morte di Adriano Olivetti e quella fin troppo annunciata di Mattei; il terrorismo, rosso e nero, ma forse figlio della stessa matrice; e lo scontro tra i servizi segreti del mondo Mediterraneo, dal Mossad alla PIDE portoghese, dalla SDECE francese al SIFAR italiano, dalla strage di Bologna a quella di Ustica. Queste storie sono state narrate mille volte, sempre in modo ambiguo e senza conclusioni. Io le racconto senza proporre una "verità vera", che non conosce nessuno che sia ancora vivo, bensì ipotesi che potrebbero anche essere vere, basate su quello che si sa e su quello che si può verosimilmente immaginare.
SG: la Guerra Fredda è spesso lo scenario delle tue storie di spionaggio.
GI: Io nella Guerra Fredda, come molti babyboomers come me, ci sono vissuto, e anche nella “Notte della Repubblica”, una notte annunciata e che nessuno ha voluto illuminare. Ricordo il botto sinistro dell’attentato di piazza Fontana, udito da chilometri di distanza mentre giocavo a pallone in un campetto di periferia. Ricordo la reazione collettiva, stupita, alla notizia del sequestro Moro, arrivata mentre facevo l’esame di economia dello sviluppo con la professoressa Lenti Targetti all’Università di Pavia. La Guerra Fredda è stata come un rumore di fondo dei primi trent’anni della mia vita e mi piace raccontarli, infilandoci dentro anche tante note nostalgiche di un costume che, piaccia o no, ha influenzato per anni il paese dove sono nato.
SG: Com'e stata la tua iniziazione alla spy-story?
I miei interessi per la spy story risalgono alla mia adolescenza. Sono partito con James Bond, che somiglia più a un “avventuriero e un pirata” che a una vera spia. Ma è stato un’ icona della mia gioventù e di un consumismo ancora alle origini, che sarebbe diventato quello delle Barrow’s, delle cravatte di Hermès e dei Ray Ban. Più che altro un modello di stile, piuttosto che un esempio di agente segreto.
Ho sempre legato la passione per le spy story a quella per la storia politico-militare e infatti i miei libri sono veri e propri manuali di storia dell’epoca che descrivo. Ci metto tutta la precisione possibile, cerco accuratamente di evitare ossimori e anacronismi; le descrizioni di oggetti, abbigliamento e ambienti cercano sempre di essere molto accurate, e sono parecchio influenzate da Ian Fleming.
SG: Come sei diventato autore di spionaggio?
GI: Ho cominciato a scrivere tardi, avevo più di cinquant’anni ed era il 2007. Feci un corso di scrittura creativa con Paolo Roversi: avevo pubblicato la mia tesi di laurea in Scienze Strategiche, ma scrivere romanzi è un’altra cosa. Sono partito subito con un romanzo di spionaggio sulla Guerra Fredda, Zsuzsana, e lì dentro ci ho messo tutti gli autori che avevano influenzato i mei gusti letterari, da Alistair McLean a Frederick Forsyth, da Tom Clancy a Ken Follett. In realtà i miei sono più romanzi di azione che spy story alla John Le Carré o alla Graham Greene.
Un autore di noir – non esattamente un autore di spionaggio – che mi ha influenzato è stato Don Winslow con il suo Il potere del cane, che mi ha spinto a scrivere Gli Illuminati: Uragano sui Caraibi. Io però, al contrario di Winslow, tendo all’happy end o magari al finale a sorpresa, come in See You in Budapest, un’avventura alle soglie dell’era nucleare.
SG: Qual è il tuo approccio a questo genere?
GI: I miei personaggi maschili non sono mai supereroi alla James Bond, ma più spesso sono vittime del destino che li scaraventa in mezzo alle vicende drammatiche della storia – alla George Smiley – e che rispondono come possono, ma quasi sempre sanno arrangiarsi, perché non sono degli stupidi.
Poi ci sono le donne: le mie “personagge” invece sono sempre determinate, sanno gestirsi da sole; spesso sono madri e non somigliano mai alle... mezze zoccole in estasi di fronte al maschione supereroico. Questo mi succede probabilmente perché ho sempre incontrato soprattutto donne che, ho dovuto ammettere, erano migliori di me, almeno quelle che sono state importanti nella mia vita. Infine ci sono i cattivi: mai cattivissimi, anche loro spesso più vittime che aguzzini.
Nelle mie storie la violenza è sempre limitata al necessario, così come le scene di sesso. Una volta Pinketts mi definì "una specie di Liala". Lui aveva un modo strano di fare i complimenti, ma francamente non mi dispiacerebbe avere lo stesso successo di Amalia Liana Negretti Odescalchi alias Liala, che sapeva azzeccare i gusti dei suoi lettori in tempi in cui a scrivere dovevi essere davvero bravo e non c’erano le E.L. James e le Cilizie Gurrado, con alle spalle uno stuolo di editor o un padre giornalista. Inoltre nei miei romanzi infilo personaggi realmente esistiti: personaggi storici come Malenkov e Chruščëv, o Ettore Maiorana e spessissimo Ian Fleming.
Io scrivo perché mi diverto, perché scrivere è come fare una seduta di psicanalisi, e scrivo perché spero di incuriosire i miei lettori sui mondi che descrivo. Non scrivo solo romanzi ma anche saggi, per esempio Un conflitto lungo 50 anni, anche questo sulla Guerra Fredda, sulle sue cause e sulle sue origini.
SG: Hai un ricordo di Stefano Di Marino, fondatore della collana Spy Game in cui lui stesso, prima di lasciarci, ha pubblicato la miniserie che ne stabiliva le regole?
GI: Nell’invitarmi a collaborare a Spy Game, Cappi mi ha fatto un enorme complimento, dicendomi che in qualche modo prendevo il posto di Stefano Di Marino, cosa molto difficile. Ho incontrato più volte Stefano nelle serate di Borderfiction. Non ho avuto l’occasione di conoscerlo a fondo, ma mi sarebbe piaciuto molto. Ricordo la sua conoscenza approfondita della letteratura noir, del fantastico e di molto altro, la sua ironia da liceale indisciplinato, il suo non troppo letterario interesse per Lisa Ann, nota diva di un mondo in un certo senso fantasy .
“A noi piace farci le saghe”, disse una volta, con la sua ineffabile espressione di ragazzino che ne ha fatta una delle sue, mentre raccontava di un qualche lavoro forse fatto con Alan D. Altieri, altro genio di questo genere, che grazie a Borderfiction ho avuto il piacere e l’onore di incontrare. Stefano era bravissimo a nascondere i suoi dolori, fisici – le sue ginocchia erano un disastro a causa della sua passione per il hickboxing, “contratta” in Estremo Oriente – e dell’anima. La sua morte ha colpito tutti come uno schiaffo ricevuto di sorpresa.
Così ho intrapreso questa avventura nello Spy Game. Ne approfitterò per raccontare, romanzandola, la storia di un paese, il mio, che è stato la vittima di potentati stranieri, ma soprattutto di una classe dirigente incompetente, ignorante ed egoista fino al masochismo.