martedì 11 giugno 2019

Lo sguardo abissale di Enrico Luceri


Recensione di Andrea Carlo Cappi

La celebre frase di Nietzsche sullo sguardo – ricambiato – sull'abisso è sempre attuale nella mente di chi scrive horror. Specie quando non lavora sui mostri per così dire tradizionali (dai lupi mannari ai morti viventi nelle loro varie forme) ma si occupa del lato più spaventoso dell'essere umano, di cui i predatori della letteratura gotica sono solo una metafora.
In principio, il fenomeno del serial killer nei libri e sullo schermo non fece che ricondurre alla vita quotidiana la paura atavica dell'Uomo Nero; dopo trent'anni di inflazione di serial killer nella fiction, anche loro sono diventati, al pari dei vecchi mostri della Universal, una variante dei supereroi e dei supercriminali; il che va benissimo, fintanto che le storie sono efficaci. Ma "Lo sguardo dell'abisso" di Enrico Luceri (Edizioni DrawUp, 202 pagine, 14,00 euro) ci riporta alle radici della paura e del terrore. Le radici del male, per citare un titolo di una maestra del genere, Alda Teodorani. 
I due personaggi principali sono una scrittrice horror di successo – solitaria, timida, ma a suo modo affascinante – e una sua giovane lettrice che tira a campare come apprendista reporter di provincia ma sogna di diventarne un giorno l'erede. Come possono donne dall'aspetto così gentile risvegliare nei lettori angosce sopite, nascoste, eppure sconfinate? È una domanda che ricorre anche nella realtà, ogni volta che ci si trova di fronte a una scrittrice di storie del terrore: ricordo che fu questo il commento del romanziere spagnolo Pedro Casals, dopo che ebbe incontrato Cristiana Astori. 
Tuttavia bisogna stare attenti a ciò che si sogna: ispirazione e immaginazione, terrore fittizio o presente, sono così vicini da confondersi. Basta poco perché la cronaca sconfini nell'incubo, qualche indizio porti a orrori occulti, un ambiente idilliaco all'improvviso si presenti atroce. In questo romanzo – sulla cui trama vi sto tenendo volutamente all'oscuro – Luceri ci porta a spasso proprio sull'orlo del precipizio, permettendoci di osservare il mondo attraverso gli occhi di chi riesce a vedere quanto di più terribile si possa annidare nella normalità. E, in tutto questo, scoprire anche i segreti più oscuri e inconfessabili del meccanismo creativo.
Così le vicende narrate nell'ultimo successo della grande scrittrice e quelle che potrebbero diventare il prossimo libro dell'esordiente si scontrano con vari livelli di realtà, con il presente, il passato e l'altra faccia del sogno, fino a farci domandare chi davvero stia guardando chi e cosa riconosca in ciò che vede.

"Lo sguardo dell'abisso" di Enrico Luceri sarà presentato a EDU Milano 2019, venerdì 14 giugno dalle 18.30, presso Garage Moulinski, via Pacinotti 4, Milano.

venerdì 5 aprile 2019

Aperitivo con Biagio Proietti




Giovedì 11 aprile, 18.30, Milano, Ribs and Beer, v. Pitteri 110 (ingresso libero), aperitivo con Biagio Proietti, la leggenda della tv; presentazione di "Biagio Proietti-Un visionario felice" di Mario Gerosa, con A.C. Cappi, S. Di Marino, E. Luceri (Ed. Il Foglio). Sono presenti Biagio Proietti e tutti gli autori. Conduce A. C. Cappi

mercoledì 13 marzo 2019

Scusi, dov'è il western?


Dossier di Andrea Carlo Cappi

Borderfiction presenta in collaborazione con Bloodbuster un nuovo aperitivo "Ribs & Books", stavolta dedicato al western, giovedì 14 marzo 2019 dalle 18 alle 20 a Milano, presso l'adattissimo Ribs and Beer (via Riccardo Pitteri 110, ingresso libero). L'appuntamento è condotto da Andrea Carlo Cappi. Motore dell'incontro sono il nuovissimo romanzo western "Gunfighter" di Stefano Di Marino (Dbooks), il dizionario dello spaghetti western "Matalo!" di Silvio Giobbio (Bloodbuster) e la "Guida al cinema western" di Michele Tetro con Stefano Di Marino (Odoya). Con l'occasione riproponiamo in versione leggermente aggiornata questo dossier pubblicato sullo storico numero intitolato "Nero West" di "M-Rivista del Mistero" del 2008.

Cos'è il western?

Che cosa si intende per “western”? Come aggettivo, in inglese, significa innanzitutto “occidentale”, ma come genere narrativo definisce le vicende ambientate nel Wild West, l'Ovest Selvaggio, la frontiera non ancora regolamentata dalle leggi del governo, la terra degli indiani e dei bisonti, dei cowboy e delle mandrie. Per il cinema americano, che ne ha diffuso il mito nel mondo, i temi dominanti sono la conquista e la colonizzazione delle regioni centrale e occidentale degli Stati Uniti d'America, le guerre contro gli indiani (che solo oggi, dopo essere stati in buona parte sterminati, sono stati in modo politicamente corretto ribattezzati Native Americans) e il mantenimento della legge nelle zone conquistate.
Le storie western sono ambientate essenzialmente nell'Ottocento, quando il dominio dei tredici stati fondatori, allineati sulla Costa Est, comincia a estendersi verso ovest, confinando gli inglesi in Canada, acquistando territori dalla Francia napoleonica e dalla Spagna e occupando con la forza le terre delle tribù indiane. I territori spagnoli del Southwest e della California sono lungamente contesi all'imperatore del Messico, a partire dal Texas, teatro nel 1836 dell'assedio di Fort Alamo in cui perde la vita Davy Crockett. Tra il 1861 e il 1865 il paese è sconvolto dalla Guerra di Secessione: gli stati confederati del sud, la cui economia è legata alla raccolta del cotone e conseguentemente allo schiavismo, si staccano dagli stati industrializzati del nord, l'Unione, fino alla vittoria di quest'ultima, a prezzo di seicentomila vite umane.
E qui ha inizio la fase finale, ma anche la più leggendaria, della storia del West, con l'ultima fase delle “guerre indiane” culminate con la battaglia di Little Big Horn (1876), in cui muore il generale George Armstrong Custer. Uno degli artefici di questa temporanea vittoria dell'alleanza lakota-cheyenne è il sioux-lakota Toro Seduto, che verrà ucciso dalla polizia durante in tentativo di arresto nel 1890, lo stesso anno del massacro dei lakota da parte dell'esercito a Wounded Knee, ultimo atto di quello che è stato definito “olocausto americano”.


Toro Seduto resta nella memoria come uno dei più leggendari capi indiani – al pari dell'apache Geronimo e del lakota Cavallo Pazzo – ma questo non gli ha impedito di guadagnare qualche dollaro esibendosi negli spettacoli dell'ex militare ed ex cacciatore di bisonti Buffalo Bill, così come altre celebrità del West quali l'ex sceriffo Wild Bill Hickok, che sarà ucciso a tradimento a Deadwood (Black Hills, territorio del Dakota) nel 1876, e la pistolera Calamity Jane, che verrà sepolta accanto a lui nel 1903. Nel 1890 il Wild West Show di Buffalo Bill arriva anche in Italia, dove tuttavia i cowboy americani perdono una clamorosa sfida nella doma dei cavalli contro i butteri dell'Agro Pontino.
Questo è appunto il periodo mitico dei più famosi uomini di legge: dal già citato Wild Bill a Tom Horn, affiliato all'agenzia investigativa Pinkerton, a Wyatt Earp e Doc Holliday, protagonisti della sfida all'OK Corral a Tombstone, Arizona (1881). Ed è anche quello dei più famosi fuorilegge, come Billy the Kid, ucciso dallo sceriffo Pat Garrett a Fort Sumner, New Mexico, nel 1881; Jesse James, ucciso a tradimento a St. Joseph, Missouri, nel 1882; e Butch Cassidy, fondatore del Mucchio Selvaggio, attivo in tutto il West fino al 1900, quando, braccato dalla Pinkerton, fugge in Sud America dove morirà otto anni dopo. La storia finirebbe dunque con l'arrivo del XX secolo.


Ancor più della letteratura, a partire dal 1903 con The Great Train Robbery di Siegmund Lubin, è Hollywood a trasfigurare il West trasformandolo in una terra mitica, consolidando la convenzione degli “indiani cattivi” che sarà smentita solo dal western revisionista degli anni Settanta, e rendendo familiari al pubblico di tutto il mondo i territori, gli eroi (veri o presunti) e i fuorilegge.
In sostanza, grazie a Hollywood, che trasforma il cinema in un'industria e in un mezzo di comunicazione di massa a livello globale, esiste un mito letterario-cinematografico del West, mentre non c'è un'epopea equivalente per il periodo delle guerre napoleoniche o per il Risorgimento italiano.
Tuttavia la visione USA-centrica del western è smentita dalla stessa Hollywood, che si ricorda della colonizzazione spagnola della California portando sullo schermo già dal 1920 le avventure di Zorro, il giustiziere mascherato creato nel 1918 dallo scrittore pulp Johnston McCulley, ambientate nel tardo Settecento.
Ma a rigor di logica, se il punto di riferimento è la colonizzazione dei territori a ovest della East Coast, dovremmo risalire ancora addirittura al Seicento, il secolo della principessa indiana Pocahontas e de La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Nel frattempo, il western ha esteso i suoi confini al Canada e al Messico, spostando il suo limite cronologico alla rivoluzione di Villa e Zapata, ossia agli anni Venti del Novecento.


Il western non esiste?


Ho dedicato spazio a una sommaria definizione storico-geografica del western per poter formulare la mia teoria: il western, come genere, è solo una convenzione. Potremmo dire che il western non esiste: in realtà non è che un contenitore di altri generi cui viene attribuita solo una precisa ambientazione.
Se ci facciamo caso, tutte le storie che rientrano nel genere western possono essere ricondotte ad altri generi. Diventano “western” perché collocate in quei precisi limiti cronologici e geografici. Libri e film sulle guerre indiane non sono altro che vicende storico-belliche. I racconti di viaggio delle carovane in territori ostili non sono altro che storie di avventura che potrebbero essere ambientate tra gli antichi romani o su un altro pianeta. I fortini circondati dagli indiani si rifanno a un modello decisamente arcaico: l'assedio di Troia nell'Iliade. Le vicende di banditi e tutori della legge sono analoghe al noir e alla gangster story.
Pensiamo a quanto noir si avverte in film come Un dollaro d'onore di Howard Hawks, Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens (a cui si è rifatto Jeffery Deaver nella sua trilogia dedicata al location scout hollywoodiano John Pellam) e Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinneman – quest'ultimo ha avuto anche una sorta di remake fantascientifico in Atmosfera zero di Peter Hyams. Pensiamo a Sentieri selvaggi di John Ford, che riprende il tema della ricerca dalla tradizione medioevale. Pensiamo a La maschera di fango di André de Toth, una vera e propria spy-story ambientata durante la Guerra civile. C'è persino una versione western della parte conclusiva dell'Odissea, Il ritorno di Ringo di Duccio Tessari.
Uno dei più grandi registi western è Akira Kurosawa, che non ha mai ambientato una storia nel West. Eppure tre suoi film hanno avuto remake western più o meno ufficiali: I sette samurai è diventato I magnifici sette di John Sturges, Rashomon (di cui “M-Rivista del Mistero” ha proposto recentemente i racconti originali) è diventato L'oltraggio di Martin Ritt, Yojimbo - La sfida del samurai ha dato origine a Per un pugno di dollari di Sergio Leone e a un successivo remake spostato all'epoca del Proibizionismo, Ancora vivo di Walter Hill... e va osservato che, secondo Sergio Leone (e non a torto), Kurosawa aveva tratto ispirazione dal romanzo noir Piombo e sangue di Dashiell Hammett, scritto e ambientato negli anni Venti.
Verrebbe allora da dire che il western non esista come genere: è solo uno scenario storico-geografico in cui possono essere impiantate storie di qualsiasi provenienza.
Eppure il western non dipende solo da questo: Via col vento e Il buono, il brutto, il cattivo sono ambientati nello stesso paese e nella stessa epoca, ma il primo non è un western mentre il secondo sì.
Allora potremmo dire che il western esiste e che si perpetua anche al di fuori dei suoi confini: tanto La notte dei morti viventi di George A. Romero quanto La casa del diavolo di Rob Zombie sono western. Questo perché le convenzioni, lo stile, le situazioni maturate nell'ambito della letteratura e del cinema western sono diventate così peculiari da essere associate a un genere, caratterizzandolo a posteriori.


Il western esiste!

A pensarci bene, ci sono parecchi elementi che rendono il western un genere propriamente detto. Per cominciare gli spazi e le distanze, caratteristiche proprio del continente americano. È vero che ad Almeria, in Spagna, si trovano panorami molto simili a quelli del West, che hanno consentito la nascita di un cinema western europeo, ma solo grazie all'illusione dello schermo: la loro estensione non è paragonabile a quella degli scenari originali. L'Europa può soltanto simularli.
Quando lo spazio è così grande, si pensa anche più in grande: in uno dei racconti che presentiamo in questo numero si parla del trasferimento delle mandrie di quattro ranch, per un totale di dodicimila capi di bestiame che devono attraversare le praterie in direzione nord. Difficile immaginare uno spostamento di tali proporzioni in un'altra parte del mondo.
Ma non c'è solo questo: l'occupazione delle terre dell'ovest genera un nuovo ordine sociale. La land of opportunity garantisce le migliori occasioni a coloro che hanno pochi scrupoli e lauti guadagni a chi non ha nulla da perdere. Perciò la frontiera diviene una terra senza legge in cui chiunque può portare una pistola, consuetudine tuttora in vigore in molte aree, negli Stati Uniti con tutti i problemi che ne derivano. Anche la gestione della legge è spesso sommaria e risolta con frettolose impiccagioni che possono costare ore di sofferenza al condannato prima che la morte sopraggiunga (si pensi al film Impiccalo più in alto di Ted Post, il primo prodotto e interpretato da Clint Eastwood dopo il periodo degli spaghetti western).
È il territorio ideale per la genesi di cavalieri solitari e disillusi, che dal western americano poi trasmigrano nell'hardboiled, e di antieroi cinici, infami e violenti, che contraddistinguono lo spaghetti-western per poi ripresentarsi non solo nel criminal-poliziottesco italiano, ma anche nel noir americano anni Settanta: non è un caso che due icone come l'ispettore Callaghan e il giustiziere della notte siano interpretate rispettivamente da Clint Eastwood e Charles Bronson, passati attraverso l'esperienza “spaghetti” prima di rientrare nel western americano e da qui passare al noir.
Lo stesso linguaggio visivo del western fa scuola: per cominciare gli spazi aperti di John Ford, che evocano grandi silenzi e viaggi per deserti e praterie, fondamento del cinema on the road; i duelli alla pistola che, a differenza di quelli alla spada, sono costituiti da minuti di tensione che sfociano in un istante di violenza, seguito dall'attesa di capire chi dei due contendenti abbia avuto la peggio; e i grandi showdown a colpi di arma da fuoco, in cui spesso c'è un eroe solitario che fronteggia più avversari.
Il western europeo, che nasce come imitazione a basso costo di quello americano, ne prende a prestito gli aspetti più noir, esasperandone la violenza, ma trova presto una propria identità che, paradossalmente, sarà poi imitata dagli americani. La musica (come non citare Ennio Morricone?), i personaggi picareschi, persino in qualche caso i contenuti politici si sposano ai primissimi piani, all'ironia, alla dilatazione della tensione attraverso lunghe sequenze in cui non accade nulla ma sta per accadere di tutto. Compiuto questo percorso, il western è diventato definitivamente un modo di raccontare più che un genere.


Che fine ha fatto il western?

Il western è stato dato molte volte per morto. Dopo la seconda guerra mondiale le piccole case cinematografiche della “Poverty Row” di Hollywood, quellle che producevano western a basso costom dovettero chiudere i battenti. Ma il western passò alle majors e, ben presto, alla televisione. Ne fecero le spese il western letterario e i pulp magazines a esso dedicati.
Negli anni Sessanta gli spaghetti-western gli diedero nuova vita, preludendo al western americano post-'68. Poi il western è tramontato: Balla coi lupi è stata forse l'ultima pellicola del genere ad avere un grande successo di pubblico e una messe di Oscar. Oggi i nuovi western al cinema e in televisione sono fenomeni occasionali, anche se non passano inosservati, come il remake di Quel treno per Yuma (da un racconto di Elmore Leonard), L'assassinio di Jesse James, o la serie televisiva Deadwood.
Eppure il linguaggio western è rimasto. Ci sono echi western nell'horror, a partire da George A. Romero, con il “fortino” degli umani attorniati da zombi. John Carpenter ha trasferito il western di assedio, riletto alla “luce” degli zombi di Romero, nella metropoli di Distretto 13 - Le brigate della morte e nella fantascienza con Fantasmi da Marte – per non parlare delle atmosfere western di Vampires.
C'è sapore di spaghetti western in certe sparatorie di John Woo come in molte scene di Kill Bill di Quentin Tarantino (che poi girerà due "veri" western: Django Unchained e The Hateful Eight). Lo si ritrova dichiaratamente nelle trilogie del Mariachi (di fatto uno straniero senza nome alla Clint Eastwood) e di Dal tramonto all'alba (ancora assedio e sparatorie, stavolta con i vampiri) di Robert Rodriguez. E riappare quasi spudoratamente in salsa di soia nel western nipponico Sukiyaki Western Django (con l'inevitabile Tarantino come guest star tra gli interpreti) di Takashi Miike. Senza contare le ormai frequenti commistioni tra western e horror.
Come dire che il western benché sbattuto a calci fuori dal saloon, è rientrato dalla finestra fracassando il vetro. E le schegge si sono conficcate un po' dappertutto... tranne che da noi.
Eppure in Italia abbiamo un esempio dell'inossidabilità del western: i fumetti di Tex sono nati dai testi di Gianluigi Bonelli e dai disegni di Aurelio Galleppini come primo grande esempio di western made in Italy, diventando un primo laboratorio sperimentale sulla contaminazione tra generi, con occasionali inserimenti persino di fantastico-esoterico. Ancora oggi, dopo settant'anni, Tex è uno dei fumetti più letti nel nostro paese.
Eppure in campo cinematografico-televisivo, salvo eccezioni illustri, il paese che ha rinnovato completamente il genere nel breve periodo tra il 1964 e il 1968 per molti anni ha espresso quasi soltanto fiction buoniste in cui mancavano il sano cinismo e la cruda espressività del caro vecchio spaghetti western. Salvo poi saltare senza mezzi termini a violente storie gangsteristiche. Forse un po' di ripasso ci farebbe bene.




sabato 9 marzo 2019

Godzilla: l'alba dei Grandi Mostri - 3, il re dei mostri


Riscoperta di Andrea Carlo Cappi

Sull'onda del successo, a quel tempo solo giapponese, del primo Gojira, la Toho realizza nel 1955 un nuovo film di cui la regia, causa altri impegni di Ishiro Honda, viene affidata a Motoyoshi Oda. Il titolo originale è Gojira no Gyakushū, qualcosa di simile a "Gojira alla riscossa". In Italia è noto come Il re dei mostri, ma non va confuso con la versione americana della pellicola precedente, conosciuta come Godzilla, il re dei mostri.
Protagonisti stavolta sono Tsukhioka e Kobayashi due piloti di idrovolante che seguono dall'alto le rotte di banchi di tonni per conto di una compagnia di Osaka; il primo è il fidanzato della figlia del proprietario, il secondo ha speranze su una ragazza che, con l'altra, tiene i contatti radio con i piloti. Quando Kobayashi, per un guasto, è costretto a un ammaraggio di emergenza nei pressi dell'isola di Iwato, Tsukioka va a recuperarlo. I due assistono sbalorditi a un combattimento tra mostri: un secondo Gojira e una sorta di enorme anchilosauro. 
La notizia viene discussa a Tokyo, l'unica scena in cui appaia un personaggio del film precedente, il professor Yamane. Stando al testo di un paleontologo polacco di nome Hondon che lo battezzò Angiras, il nuovo mostro sarebbe vissuto alla stessa epoca di Gojira, contendendogli il primato. Le due bestie, entrambe sotto l'influsso delle radiazioni, sono nuovamente in competizione e si avvicinano pericolosamente a Osaka. 


Yamane sa che non esiste più l'Oxygen Destroyer usato con successo in precedenza, quindi ora nulla potrà fermare la creatura. Quando Gojira è avvistato al largo della città, grazie all'esperienza dell'attacco a Tokyo, viene attuato un piano di sicurezza: Osaka è messa in completo blackout e il mostro è attirato lontano dalla costa mediante razzi.
Ma accade un imprevisto: un gruppo di detenuti in trasferimento tenta di evadere dal cellulare che li sta trasportando. Alcuni di loro riescono a fuggire rubando un'autocisterna, che nella fuga si ribalta ed esplode nella zona del porto. Gojira vede l'incendio e si avvicina, subito raggiunto da Angiras. L'inevitabile scontro che devasta la città si conclude con la vittoria del primo, che dopo avere ridotto l'avversario in fin di vita lo brucia con l'alito atomico. 
Osaka è da ricostruire, la compagnia trasferisce l'attività negli uffici di Hokkaido e l'aviazione deve fare i conti con Gojira, precettando anche Tsukioka e Kobayashi. Arriva l'inverno e il mostro superstite viene localizzato su un'isola innevata e intrappolato in una gola, dove l'aviazione – a prezzo della vita di numerosi piloti – riesce a provocare una serie di valanghe tale da seppellirlo. Beninteso, fino al film successivo del 1962.
Per allora la Toho avrà trasformato il ciclo in una serie destinata più che altro a un pubblico infantile, in cui appaiono altre creature gigantesche, tra cui come alleati o avversari ricorrono Rodan, Mothra, Ghidorah e un King Kong apocrifo: gli elementi che ora vengono recuperati nel cosiddetto Monsterverse realizzato su licenza della Toho dalla Warner Bros a partire dal Godzilla del 2014. 


A rendere noto il filone negli Stati Uniti e, di riflesso, nel mondo è un'operazione singolare della RKO, che nel 1956 acquisisce i diritti di Gojira (ribattendolo Godzilla) ma decide di americanizzarlo. A questo scopo vengono tagliate varie scene, spesso cancellando notazioni sociali e umane, e il regista Terry Morse ne gira altre interpretate da Raymond Burr, l'attore all'epoca celebre per la serie tv Perry Mason, facendone una sorta di protagonista-narratore nei panni del giornalista Steve Martin.


Il film viene rimontato, aprendosi sulle scene di devastazione di Tokyo mentre il giornalista, emerso ferito dalle macerie, racconta quanto è accaduto negli ultimi giorni. Burr appare circondato da attori e figuranti nipponici, fingendo di trovarsi nei luoghi in cui si muovono i personaggi; interagisce con alcuni di loro, controfigure con indosso gli stessi abiti degli attori del film originale ma inquadrate di spalle; in un caso sono utilizzati ritagli di primi piani di Emiko, mentre il doppiaggio altera le battute, simulando che parli con il giornalista.
L'altezza di Godzilla viene dichiarata di 150 metri; mentre il trilobite viene descritto come three-winged worm ("verme dai tre lobi", anche se si tratta di un artropode), il che dà adito a un'ancor più clamorosa svista sulla parola wing (che vuol dire soprattutto "ala") nella versione italiana, in cui è definito un serpente alato. Non meno sorprendente è il fatto che il sempre cupo e tormentato Serizawa sia invece giovale e di ottimo umore quando la sua controfigura risponde a una telefonata dell'amico giornalista. Alla fine Martin assiste all'atto finale, assicurando gli spettatori che la minaccia è stata sventata. 


Questa è la versione che, intitolata Godzilla, King of the Monsters, viene distribuita nel mondo (anche, paradossalmente, in Giappone, sottotitolata) e che farà sì che Gojira diventi famoso come Godzilla. E che darà origine a un'ulteriore versione quando nel 1976 il regista italiano Luigi Cozzi ne farà un ulteriore rimontaggio, realizzandone una versione a colori nota tra gli appassionati come Cozzilla
Anche il film successivo è fortemente rimaneggiato per il pubblico americano, diventando Gigantis, the Fire Monster; solo più avanti se ne riscopre la versione Toho, che diventerà Godzilla Raids Again. In Italia ne è arrivata nel 1957 invece la versione con il montaggio originale giapponese, con il titolo Il re dei mostri, in cui nel doppiaggio si mantiene il nome Godzilla. 
Nel 2003 sul mercato italiano viene distribuito da Cecchi Gori/Yamato Video il doppio dvd Godzilla/Godzilla, il re dei mostri, contenente il primo film giapponese sottotitolato e il primo film americano sia con il sonoro inglese sia con il doppiaggio d'epoca. Nel 2018 è uscito in dvd da Sinister Film Il re dei mostri, un'edizione di ottima qualità con le tracce giapponese e italiana, anche qui con il doppiaggio d'epoca. Ulteriore curiosità: nel 2004, per i cinquant'anni della prima pellicola, ne è uscita su cd la colonna sonora originale di Akira Ifukube con alcuni brani inediti. Trovata, come Il re dei mostri, in una visita all'inimitabile Bloodbuster.



giovedì 7 marzo 2019

"Diabolik sono io": tra documentario e thriller


Annotazioni di Andrea Carlo Cappi


A quasi cinquantasette anni dalla nascita editoriale e a oltre mezzo secolo dalla pellicola che gli dedicò Mario Bava, Diabolik torna finalmente al cinema, ora e nel 2020. In attesa del film in lavorazione dei Manetti Bros, previsto per il prossimo anno, dall'undici al tredici marzo 2019 in duecentonovanta sale italiane si proietta Diabolik sono io. Scritto da Mario Gomboli (direttore dell'Astorina, la casa editrice di Diabolik) e da Giancarlo Soldi che ne è il regista, con le musiche di Teho Teardo, viene definito "docufilm", perché è qualcosa di diverso da un documentario convenzionale. E il titolo non è, s'intende, scelto a caso.
Ci sono due frasi essenziali nella vita di Diabolik, il personaggio dei fumetti di Angela e Luciana Giussani. La prima è "Diabolik, chi sei?", pronunciata dall'ispettore Ginko nell'albo che la porta come titolo e in cui il criminale rievoca ciò che sa delle proprie origini. L'altra è "Io sono Diabolik", che oltre a essere il titolo di una "autobiografia" del personaggio edita da Mondadori qualche anno fa, rappresenta un aspetto molto significativo: Diabolik, a differenza degli altri personaggi mascherati del fumetto (eroi e criminali che siano) non ha una vera identità da celare sotto la maschera. Non conosce il proprio nome, non sa chi siano i suoi genitori, né da dove venga. Diabolik ergo sum: la sua unica identità è quella che si è costruito da solo, con il nome che si è scelto; e la sua unica famiglia è costituita da Eva Kant.
Io invece so che, se cito i nomi di Diabolik, Eva Kant e Ginko, moltissimi in Italia - e anche altri in giro il mondo - sanno chi siano anche senza aver letto le loro avventure. Per riciclare una mia vecchia battuta, è il fenomeno del "fumetto passivo": Diabolik e i suoi comprimari sono parte della cultura popolare italiana, al punto da essere noti pure a chi non ha mai preso in mano un albo della serie.


Di documentari ben fatti su Diabolik ce ne sono già stati, ma ci sono ancora molte cose da scoprire. Una di queste l'ha ritrovata Giancarlo Soldi nelle teche RAI: una divertente intervista inedita alle sorelle Giussani che parlano del loro personaggio mentre bevono il tè, brani della quale punteggiano la parte non-fiction del film. Ci sono poi contributi realizzati appositamente, con Mario Gomboli e altri sceneggiatori storici di Diabolik quali Alfredo Castelli (creatore a sua volta di serie famose come Gli Aristocratici, L'Ombra e Martin Mystère) e Tito Faraci; e ancora si vedono il disegnatore Giuseppe Palumbo, il leggendario Milo Manara, due collaboratrici della redazione, esperti come il grande fumettologo Gianni Bono, il costumista Massimo Cantini Parrini, un paio di scrittori che hanno avuto a che fare con Diabolik (Carlo Lucarelli, che anni fa lavorò a un progetto di sceneggiatura cinematografica, e me, autore dei romanzi di Diabolik & Eva Kant). Ma la finzione si fa strada anche nella parte documentaristica, quando nei panni di un avvocato appare l'attrice Stefania Casini.
Perché questo film è anche una sorta di thriller basato su un vero mistero: che fine ha fatto Angelo Zarcone, il primo disegnatore di Diabolik, l'uomo che diede un volto al personaggio? Dopo avere consegnato le tavole del numero uno, scomparve per sempre senza lasciare traccia. E se riapparisse dopo tutto questo tempo, ipotizza Gomboli all'inizio del film, chi troverebbe? Se stesso o Diabolik?
Così la vicenda si dipana intorno al ritorno nella società di un uomo che soffre di amnesia e il cui volto assomiglia molto a quello di Diabolik (Luciano Scarpa). In mente lo smemorato ha proprio quel nome, Diabolik, e quegli occhi che spuntano da una maschera, immagine che si trova a disegnare ossessivamente. Seguendo gli indizi ricavati da Internet con l'aiuto di una ragazza che somiglia a Eva Kant (Claudia Stecher) il protagonista arriverà a una conclusione sorprendente.
Diabolik sono io si sviluppa su tre piani narrativi: quello delle interviste, quello della ricerca da parte dello smemorato e quello di un misterioso interrogatorio a cui il protagonista viene sottoposto. Ne risulta una storia dai contorni onirici in cui realtà e fantasia si confondono e persino i personaggi reali parlano di Diabolik come se esistesse veramente. Una formula molto originale per raccontare un mito che nei primi anni Sessanta, per citare la canzone Esci, Diabolik di Canciani & Covri, "cambia il fumetto e cambia l'Italia". 

Lunedì 11 marzo all'Arcadia di Melzo (Milano) Andrea Carlo Cappi alle 19.30 firmerà le copie dei suoi romanzi di Diabolik presso il Mondadori Bookstore e alle 20.30 sarà in sala a introdurre la proiezione.


lunedì 4 marzo 2019

Godzilla: l'alba dei Grandi Mostri - 2, Gojira!


Riscoperta di Andrea Carlo Cappi




Allarme nel Mar del Giappone! Il 13 agosto alle 19.05 il mercantile Eiko Maru della Nankai Shipping lancia un SOS prima di affondare in fiamme al largo dell'isola di Odo. Un'altra nave della stessa compagnia, la Bingo Maru, inviata in soccorso, segue lo stesso destino. Di lì a poco, affonda anche una barca di pescatori che ha raccolto alcuni superstiti. Un unico sopravvissuto riesce a tornare sull'isola, ma non a spiegare cosa sia successo. I vecchi di Odo, tuttavia, conoscono giá la risposta. Si tratta nientemeno che di Gojira: una creatura mostruosa che in tempi antichi era considerata una divinità, cui dedicare cerimonie e offrire di tanto in tanto una giovane donna in sacrificio per placarne la fame insaziabile. Perché, quando nel mare scarseggiano i pesci, Gojira viene sulla terraferma a caccia di uomini. E in una notte di uragano qualcosa di gigantesco devasta l'isola, distruggendo case e uccidendo nove persone. 
Il professor Yamane, insigne paleontologo chiamato in causa dal governo giapponese, organizza una spedizione a Odo. È accompagnato tra gli altri dalla figlia Emiko, dal giovane Ogata della Nankai Shipping e dal giornalista Hagiwara. Sull'isola si rileva un'intensa radioattività nei punti in cui sarebbe passata la creatura. In quella che potrebbe essere un'orma smisurata viene trovato un trilobite – artropode teoricamente estinto da milioni di anni – con tracce di sabbia di una formazione databile al periodo Giurassico.
Poi, finalmente, la creatura viene avvistata dall'altra parte dell'isola. 
Le caratteristiche sono quelle di un dinosauro sconosciuto, ma le proporzioni smisurate: l'altezza è stimata sui cinquanta metri (per la cronaca, un tirannosauro non avrebbe superato la dozzina di metri dalla testa alla coda). Le gambe a dire la verità sono piuttosto tozze, mentre le zampe anteriori si articolano curiosamente come braccia umane... ma questo più che all'evoluzione si deve al modo in cui sono stati realizzati gli "effetti creatura". La pericolosità di Gojira non si limita alle dimensioni, ma anche all'alito radioattivo dall'effetto incendiario, che lo rende una sorta di drago dell'era atomica. Gli abitanti di Tokyo lo scopriranno presto, quando il mostro prenderà per due volte terra seminando rovina e vittime al suo passaggio per la metropoli. Le armi convenzionali non possono sconfiggerlo. Lo scenario che l'orrida creatura si lascia dietro prima di rituffarsi in mare è di pura devastazione.


Il Gojira diretto da Ishiro Honda (talvolta accreditato in Occidente come Inoshiro Honda) segue il punto di vista dei personaggi umani: il professor Yamane, che soffre al pensiero di dover dirigere la commissione scientifico-militare destinata a eliminare la creatura anziché studiarla e scoprire come sia sopravvissuta alla contaminazione; Emiko Yamane, che ama Hideto Ogata anche se in passato era fidanzata con lo scienziato Daizuke Serizawa; quest'ultimo, che dopo aver perso un occhio in guerra si è chiuso in se stesso e nel proprio laboratorio. Qui lo scienziato confessa alla ragazza di avere scoperto accidentalmente un'arma terribile: una sostanza che ha battezzato – in inglese – Oxygen Destroyer.
Dal momento che questa sembra essere l'unico modo per distruggere il mostro, dietro l'insistenza di Emiko e Ogata, Serizawa acconsente a farne uso, dopo avere distrutto i propri appunti perché il segreto non possa cadere in mani sbagliate come già accaduto per la bomba H. 
Una spedizione in mare localizza il mostro grazie alla sua radioattività. Serizawa e Ogata si immergono con tutta la scorta di Oxygen Destroyer prodotto dallo scienziato. La sostanza, liberata nell'acqua, produce una reazione letale che distrugge la creatura. La minaccia cessa di esistere, anche se solo uno dei due uomini torna in superficie. Yamane però sospetta che, se continueranno gli esperimenti con armi nucleari, altri Gojira appariranno. 


Dal momento che una lavorazione con la tecnica di stop motion, usata tanto per gli effetti speciali di King Kong quanto per i celebri film realizzati a Hollywood da Ray Harryhausen negli anni Cinquanta (per esempio A trenta milioni di km dalla Terra, 1957), la casa di produzione Toho opta per una tecnica più povera: un costume indossato da un attore (da qui la configurazione del mostro) che dovrà muoversi su uno scenario in miniatura, con occasionali sovrapposizioni a riprese di attori e figuranti che corrono sulle colline di Odo o per le strade di Tokyo.
Forse oggi, con la consuetudine a sofisticati effetti in CGI, il Godzilla anni Cinquanta può sembrare primordiale... in tutti i sensi. Ma, provando a immaginarlo con gli occhi di quei tempi e su un grande schermo, tra paesaggi di distruzione molto simili a quelli fotografati a Hiroshima, riesce ancora a fare una certa impressione. 
Di sicuro ne fa quando esce nei cinema nipponici il 6 novembre del 1954. La pellicola ottiene un enorme successo in patria, tanto che la Toho ne mette presto in cantiere un seguito: la profezia di Yamane su un nuovo Gojira è destinata ad avverarsi in un secondo film, nel 1955. Nel frattempo il fenomeno non passa inosservato e nel 1956, attraverso gli Stati Uniti (sebbrene, come vedremo, in una versione riveduta e corretta) il mostro radioattivo conquisterà il mondo.

Godzilla: l'alba dei Grandi Mostri - 1, le origini



Riscoperta di Andrea Carlo Cappi

In vista dell'uscita imminente di un nuovo film su una delle icone della fantascienza, Godzilla, il re dei mostri, può essere interessante riscoprirne le origini e le varie interpretazioni nel corso dei decenni. In particolare il significato storico della scelta di qualcosa di enorme come un dinosauro mutante dalle dimensioni esagerate, quindi una minaccia in apparenza insormontabile per gli esseri umani, un'arma di distruzione di massa vivente sotto la quale si sbriciolano le nostre costruzioni più ardite, una forza della natura alterata dalla degenerazione della scienza. 

Gli anni Venti e Trenta videro approdare al cinema i mostri della letteratura gotica ovvero minacce di proporzioni umane, più o meno in grado di mimetizzarsi tra noi, a volte come predatori (Dracula, dal romanzo di Bram Stoker) a volte come esseri disadattati e persino discriminati (la creatura di Frankenstein, dal romanzo di Mary Shelley). Forse una metafora involontaria delle dittature nascenti in Europa, in cui singoli uomini avrebbero portato allo sterminio di altri uomini perché ritenuti diversi. Ma in quei decenni, in cui il cinema passa dal muto al sonoro, si avverte anche il primo impulso ad affrontare fenomeni di dimensioni superiori. 






Nel film Il mondo perduto (1925), tratto con qualche libertà da un romanzo di sir Arthur Conan Doyle – sì, il creatore di Sherlock Holmes – il professor Challenger scopre un'isola popolata da dinosauri superstiti e riesce nel finale a portare a Londra un brontosauro che, sfuggito al controllo, devasta la città: è il primo esempio di confronto diretto tra natura preistorica incontrollabile e mondo moderno governato dall'uomo. Otto anni dopo, nel 1933, il concetto viene ripreso da King Kong, con l'enorme gorilla idolatrato dalla popolazione di un'isola sconosciuta, anch'essa popolata da creature preistoriche; il gigante scimmiesco, trascinato a New York, avrà modo di creare scompiglio nella modernità occidentale rappresentata dalla città. 
Apprendo da Wikipedia che il successo di King Kong in Giappone produsse due curiosi effetti collaterali: una commedia di mezz'ora intitolata Wasei Kingu Kongu (ovvero "King Kong alla giapponese", 1933), in cui il protagonista è un uomo che indossa un costume da gorilla per replicare su un palcoscenico le gesta di King Kong su una città in miniatura, causando però equivoci quando esce per la strada; e un falso sequel apocrifo intitolato Edo ni arawareta Kingu Kongu (ovvero "King Kong appare a Tokyo", 1938) in cui ad avere tale nome è tuttavia una sorta di scimmia-killer ammaestrata di proporzioni "normali". Entrambi i film sono andati distrutti durante la guerra e vengono iscritti come prototipi del filone kaiju, "mostri", anche se non si tratta di "grandi" mostri. 


La vera nascita dei kaiju eiga (i film giapponesi di mostri, definizione divenuta popolare solo da alcuni anni anche in Occidente, dopo Pacific Rim) si ha negli anni Cinquanta. Si può dire che il genere sorga contemporaneamente a Hollywood e a Tokyo, in concomitanza con il crescente sviluppo delle armi nucleari e la percezione collettiva di una hybris della scienza, che potrebbe condurre l'umanità alla distruzione. Tra questo, gli avvistamenti UFO postbellici negli USA e le premesse della conquista russo-americana dello spazio, il cinema di fantascienza diventa un prodotto di attualità, oltre che di massa. Ma in Giappone tutto ciò assume un significato particolare. 
Nel 1954 quello del Sol Levante è un paese segnato in profondità dalla guerra. Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945, con le loro conseguente sia immediate sia protratte nel tempo, sono un ricordo ancora bruciante, testimoniato dai cheloidi sui corpi dei superstiti che ispireranno la pelle di Godzilla. Ma è anche l'epoca degli esperimenti nucleari nel Pacifico, le cui conseguenze si fanno sentire anche sulla popolazione nipponica: il primo marzo di quell'anno la Daigo Fukuryu Maru (nota anche come Lucky Dragon 5) attrezzata per la pesca del tonno, viene investita da una pioggia di cenere radioattiva prodotta dal test americano Castle Bravo sull'atollo di Bikini, pur trovandosi al di fuori dell'area indicata come a rischio; quasi tutto l'equipaggio si salverà, benché contaminato, e la vicenda sarà oggetto di un film giapponese del 1959. In Gojira, che esce il 6 novembre 1954, una donna fa riferimento proprio a «tonno all'idrogeno e pioggia radioattiva» ma in tutta la pellicola si avverte l'incubo delle armi nucleari e delle radiazioni misurate dai contatori Geiger. 


Lo stesso Godzilla viene giudicato dall'insigne paleontologo Yamane, personaggio che appare nei primi film, un rettile preistorico anfibio contaminato dalle radiazioni e mutato a seguito di queste; allontanatosi dal proprio habitat in fondo all'oceano a seguito degli esperimenti nucleari, il mostro va ora in cerca di un nuovo ambiente, grazie alla sua capacità di muoversi anche sulla terraferma. L'aspetto della creatura – un misto fra iguanodonte, tirannosauro e stegosauro – è il risultato finale di una lunga serie di ipotesi tra produttore e autori: si pensa inizialmente a un ibrido tra gorilla (gorira, dato che in giapponese la lettera l viene pronunciata r) e balena (in giapponese kujira), da cui il nome Gojira; dopo varie riflessioni, a Gojira viene data però la configurazione di un dinosauro. La versione inglese Godzilla inserisce la parola god, cioè dio, esaltando l'aspetto di divinità pagana del mostro ed evocando, seppure solo nel nome, la figura di King Kong.

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