domenica 31 dicembre 2017
The Poseidon Adventure (1972)
Retrospettiva
di Andrea Carlo Cappi
Complice
un blu-ray in offerta speciale la scorsa estate (tra parentesi, da
anni adoro l’usanza dei grandi magazzini spagnoli El Corte Inglés
di fare sconti del 40% su acquisti multipli nel settore cinema in
certi periodi dell’anno) mi sono rituffato in un classico del
cinema catastrofico anni Settanta: L’avventura del
Poseidon del 1972, pellicola
realizzata dal megaproduttore hollywoodiano Irwin Allen, che aveva
una particolare predilezione sia per le storie oceaniche (celebre il
suo Viaggio in fondo al mare),
sia per il disaster movie (produsse
anche L’inferno di cristallo),
tanto da essere soprannominato master of disaster.
Acquisiti
i diritti di un bestseller di Paul Gallico, Allen affidò la
regia al veterano Ronald Neame (autore tra l’altro di grandi
spy-story come L’uomo che non è mai esistito e
Due sotto il divano),
che con un collaudato sceneggiatore quale Stirling Silliphant (La
calda notte dell’ispettore Tibbs,
L’investigatore Marlowe,
Shaft e i mercanti di schiavi,
Killer élite)
portò sugli schermi un film memorabile, tanto che ebbe un
sequel (L’inferno sommerso,
diretto dallo stesso Allen) e due remake, uno per la tv e uno più
recente per il grande schermo.
Se
la più recente versione con effetti realizzati al computer non ha lasciato un segno particolare
nella storia del cinema, rimane insuperato l’originale, in cui il transatlantico Poseidon era in
parte un modellino, in parte la Queen Mary
a seconda delle riprese. La Fox si è
autoincensata per anni – tra le featurette
del film e una puntata del suo serial di documentari That’s
Hollywood – per come sono
state realizzate la celebre scena del capovolgimento della nave e i
conseguenti set rovesciati, uno sforzo produttivo enorme in un’epoca
in cui il pubblico si era fatto esigente e quasi tutto doveva essere
girato dal vero, o quantomeno con effetti speciali credibili.
Ciliegina sulla torta: la colonna sonora di John Williams, che di lì
a pochi anni sarebbe stato consacrato come nuovo maestro musicale di
Hollywood per Incontri ravvicinati del terzo tipo,
Star Wars e Superman.
Il
Poseidon
cinematografico originale vede la nave da crociera eponima in rotta
tra New York e Atene, un’ultima operazione commerciale per un
armatore greco senza scrupoli prima di consegnarla alla rottamazione.
Il capitano Harrison (Leslie Nielsen, all’epoca ancora dedito a
ruoli drammatici prima di passare alle parodie) fa del suo meglio per
gestirla al meglio, ma un evento sismico al largo di Creta produce
uno tsunami senza precedenti nel Mediterraneo, che travolge il
vascello in piene celebrazioni di Capodanno.
Tra
i superstiti dell’ondata che rovescia la nave di 180 gradi c’è
il reverendo Frank Scott (Gene Hackman, che illumina qualsiasi film
con la sua presenza), diretto in Africa come missionario, più che altro per
risolvere le sue questioni personali con Dio. Deciso e decisionista,
raduna intorno a sé un gruppo di audaci sopravvissuti che per
la par condicio hollywoodiana
include un’anziana coppia
ebraica diretta in Israele – i signori Rosen, interpretati da Jack
Albertson e da una ormai corpulenta Shelly Winters – un
anziano scapolo (Red Buttons), uno stagionato sbirro di New York
(Ernest Borgnine) e la moglie di questi ex-prostituta (Stella
Stevens, affascinante ancorché appassita), il maître di
bordo (un jolly del cinema americano, Roddy McDowell) oltre alla
traumatizzata cantante della band di fine d’anno (con la canzone
The Morning After
premiata dall’Oscar), a una teenager e al fratellino di questa, che
ha passato i giorni di navigazione a curiosare a bordo e si rivelerà
ottima guida
Mentre
altri superstiti rimangono nel salone capovolto, facendo presto una
brutta fine, e altri ancora si dirigeranno come zombie verso la prua
sommersa, il manipolo di audaci risale la nave da cima a fondo
puntando alla sala macchine, unica speranza di essere salvati. Ma,
come il trailer annunciava da settimane nelle sale cinematografiche di tutto il mondo, solo sei usciranno vivi e l’implacabile lotteria ha inizio... Non tutti arriveranno
in superficie, per essere salvati da un elicottero francese.
D’accordo,
in scena ci sono psicologie di grana grossa per un pubblico di massa,
ma lo spettacolo catastrofico funziona. E soprattutto l’inossidabile reverendo di Hackman, così razionale nella
sua fede in un Dio non troppo misericordioso, è un personaggio che
forse oggi nessuno oserebbe più mettere in scena e un leader
autocritico da cui trarre qualche lezione di vita.
lunedì 18 dicembre 2017
... Chi jedi ultimo
Recensione
di Andrea Carlo Cappi
Mentre
esco dal cinema soddisfatto, non mi è difficile immaginare
qualche critico che, senza nemmeno esserlo andato a vedere, per puro
esercizio di stile stronchi il nono film (e ottavo episodio) di Star
Wars a colpi di frasi fatte,
deplorando che ormai il cinema hollywoodiano – anche quando viene
realizzato altrove – funzioni quasi solo a supereroi, sequel e
remake. Vero, ma l’importante è che almeno siano fatti bene.
Laddove il critico che va a vedere il film senza pregiudizi –
Valerio Caprara, naturalmente – lo valuta per la sua efficacia come
intrattenimento, pur cogliendone ingenuità e scelte di
correttezza politica a fini di mercato. Che è ciò che
conta per lo spettatore medio o mediamente appassionato della saga in
questione.
Tra
breve parlo anche del film, evitando gli spoiler. Ma prima, nel caso
qualche critico pigro leggesse questo pezzo in cerca di spunti per
una stroncatura, colgo l’occasione per spiegargli che con Star
Wars non è sempre
corretto parlare di sequel o di prequel: quando nel 1977 uscì
il primo film, faceva già parte di un progetto costituito da
tre trilogie e pronto ad arricchirsi di storie supplementari tra
romanzi, fumetti e cartoni animati. Anche se nell’edizione italiana
quel film si apriva con la semplice scritta Una nuova
speranza, il pannello obliquo
che spiegava il contesto della storia nella versione originale
indicava Episode IV-A New Hope,
mostrando l’intento evidente di collocare l’episodio all’interno
di una serie più complessa, di cui quello era in realtà
il principio della seconda trilogia (peraltro nella traduzione
italiana molti nomi cambiavano proditoriamente, creando confusione:
chi pensava all’epoca che i personaggi sarebbero diventati
famosissimi con i nomi giusti e che la saga sarebbe continuata a distanza
di quarant’anni?)
Sicché,
quando tra il 1999 e il 2005 uscirono i film della prima trilogia,
non si trattava di una bieca operazione commerciale, bensì di
un progetto che riprendeva dopo una lunga interruzione. Discorso che
vale anche per la terza trilogia ora in corso, anche se ignoro quanto
sia rimasto delle idee originali di George Lucas. Ciò che
permane è la colonna sonora, anche stavolta opera di John
Williams, che qui cita non solo temi precedenti (Here They
Come del 1977),
ma anche la sua musica per Il lungo addio
di Robert Altman.
I
segnali incoraggianti c’erano in ogni caso già dal Natale
2016, quando uscì Star Wars-Rogue One,
film fuori dalla numerazione degli episodi, che si collocava
cronologicamente appena prima del Guerre stellari del
1977. Poteva essere un prodotto minore e invece risultò uno
dei migliori mai usciti con il marchio Star Wars,
sviluppando un accenno narrativo e un dettaglio in sospeso
dell’Episodio IV (ovvero: come i piani della Death Star fossero arrivati nelle mani della principessa Leia e perché l’arma assoluta
dell’Impero avesse un grave difetto di progettazione).
L’Episodio
VII, ovvero Il risveglio della Forza del
2015, non era invece del tutto convincente: la trama sembrava in parte
riciclata da quella dell’Episodio IV, mentre tra i cattivi il
Leader Supremo Snoke (personaggio fabbricato su Andy Serkis) appariva
solo in ologramma e l’ambiguo Kylo Ren (Adam Driver) non poteva
competere con la perfidia assoluta di Darth Vader, lasciando il
compito di far paura, ma solo per le sue attitudini naziste, al generale Hux
(Domhnall Gleeson). Sappiamo tutti quanto contino gli antagonisti in
questo genere di film.
Nell’Episodio
VIII, tuttavia, proprio la debolezza di Ren risulta uno degli spunti
narrativi più utili. Temi principali, come già
altrove nella saga, sono la seduzione del Lato Oscuro della Forza e
l’addestramento di un allievo da
parte di un jedi veterano. Ma non aspettatevi scene, che sarebbero
ormai consunte e prevedibili, in cui il maestro Luke Skywalker (Mark
Hamill) insegni la via della spada alla neofita Rey: ci saranno in
tal senso interessanti sorprese.
Riappaiono
figure classiche: oltre allo stagionato Luke, ben lontano dal
ragazzino bondo di un tempo, troviamo il superstite Chewbacca (Jonáas
Suotamo, che sostituisce Peter Mayhew), la principessa-generale Leia Organa
(Carrie Fisher, alla cui memoria è dedicato il film) e lo
spirito del maestro Yoda (animato come sempre da Frank Oz).
Cominciano a ingranare i nuovi personaggi: l’impulsivo pilota Poe
Dameron (Oscar Isaac), che sembra un po’ meno la brutta copia di
Han Solo; lo stormtrooper disertore
Finn (John Boyega) che deve di nuovo vedersela con la sua nemesi Phasma (Gwendoline Christie); e, soprattutto l’autentica eroina della nuova
trilogia, Rey, cui Daisy
Ridley presta il marcato accento british
cui ha dato libero sfogo anche in Assassinio sull’Orient Express. E ne appaiono anche di
nuovi, quali la viceammiraglio Holdo (Laura Dern), la tecnica Rose
(Kelly Marie Tran) e la figura da spaghetti western di DJ, in cui
gigioneggia Benicio Del Toro. Fanno da contorno i soliti droidi
ciarlieri e le bizzarre creature, comprese quelle fatte apposta per
il merchandising infantile, che per fortuna non occupano troppo
spazio nel film.
La
Resistenza della Repubblica se la sta vedendo brutta, dopo i colpi
subiti per mano del Primo Ordine ne Il risveglio della
Forza. Nella vicenda si
intrecciano la necessità di reperire un hacker e portarlo a
bordo di un incrociatore nemico per disattivare l’apparecchio che
consente di localizzare navi nelll’iperspazio, impresa cui si
dedicano Finn e Rose; l’urgenza di portare in salvo i sopravvissuti
della Repubblica, decimati dai nuovi assalti della flotta avversaria,
situazione che mette l’uno contro l’altra Poe e Holdo; e gli
incontri di Rey con Luke e i rappresentanti del Lato Oscuro, Snoke e
Kylo. Non rivelo nulla, se non che quando il film potrebbe essere
finito, rimandando il resto al prossimo episodio, riserva invece
ancora sequenze memorabili. D’altra parte, nelle trilogie di Star
Wars, i secondi episodi sono
sempre i più interessanti.
martedì 12 dicembre 2017
Ultima cena sull'Orient Express
Recensione di Andrea Carlo Cappi
Quando
parlo di Agatha Christie mi è difficile non pensare alla sua
principale studiosa ed esegeta in Italia, Lia Volpatti, e a una sua
osservazione sulla teatralità del giallo classico: a riprova
citava, tra le altre, la tipica situazione in cui Hercule Poirot
raduna in scena i sospettati per dare inizio alla sua spiegazione
finale. E alla teatralità non rinuncia Kenneth Branagh,
regista e interprete della versione 2017 di Assassinio sull'Orient
Express, quando arriva alla
soluzione del caso, costruendo una doppia scenografia: da un lato,
citando visivamente L'ultima cena leonardesca,
con gli indiziati in fila dietro a un tavolo allestito in una
galleria ferroviaria a fare da spettatori all'esibizione del
prim'attore; dall'altro lato il detective, che recita la sua parte
con le luci e la sagoma della locomotiva alle spalle. Come ha
osservato Giovanna Pimpinella, impegnata sul suo blog in un compendio
della Regina del Giallo libro per libro, Kenneth Branagh cerca di
fare Shakespeare anche quando fa la Christie.
In questo
caso però si tratta di uno dei capolavori di Dame Agatha,
famoso anche per l'ambientazione: il leggendario treno in servizio
tra Istanbul e Parigi, celebrato in letteratura anche da Graham
Greene e Ian Fleming. Per chi avesse poca familiarità con il
mystery d'epoca, la trama vede Poirot – il geniale e azzimato
detective belga con cui l'autrice si era imposta nel genere fin dal
1920 – costretto a indagare su un omicidio commesso a bordo dell'Orient Express, bloccato dalla neve in mezzo ai Balcani.
Nel 1974,
a quarant'anni dall'uscita del libro, Sidney Lumet ne diresse un
impeccabile adattamento cinematografico che lanciò la moda dei
film all-star tratti dai gialli della scrittrice, nessuno tuttavia
perfetto quanto il primo. Merito del ricchissimo cast, con un Albert
Finney che ricalcava ogni aspetto dell'icona di Poirot e una Ingrid
Bergman premiata con un Oscar, ma anche di una sceneggiatura e una
regia che esaltavano proprio l'aspetto dialogico e teatrale della
vicenda senza rinunciare a scene di grande effetto come la partenza
del treno dalla stazione di Istanbul, esaltata da una notevole
colonna sonora. E qui cito invece l'osservazione di uno scrittore e
saggista che se ne intende, Stefano Di Marino: perché rifare a tutti i costi un film che è già stato realizzato in modo perfetto?
Curioso
a dirsi, uno dei difetti della versione di Branagh, prodotta dalla
Scott Free di Ridley Scott, è proprio cercare di essere più
cinematografica del necessario. Si sospetta l'aspirazione di qualche
ufficio marketing di attirare un pubblico giovanile, abituato ai film
d'azione; non dev'essere un caso, del resto, se molti interpreti sono
fin troppo giovani per la parte, in qualche caso minando la
credibilità del ruolo. Dubito però che gli spettatori
si convertano ad Agatha Christie solo perché qui l'Orient
Express viene fermato da una valanga realizzata al computer, anziché
da un semplice muro di neve sui binari. Questo tipo di operazione ha
funzionato con lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie, basato su storie
originali in chiave avventurosa e portato al limite dello steampunk,
perché era una variante clamorosamente diversa del personaggio
di sir Arthur Conan Doyle, in un'epoca in
cui, tra i molti apocrifi letterari e le nuove riletture televisive,
è divenuto legittimo sperimentarne versioni alternative.
Inutile
fare un confronto interprete per interprete dei due adattamenti di
Assassinio sull'Orient Express:
il paragone con Sean Connery, Vanessa Redgrave, Anthony Perkins,
Lauren Bacall e via dicendo sarebbe schiacciante. Vale semmai la pena
di considerare l'errore principale nel montaggio, ossia la
frammentazione di certi dialoghi tra Poirot e i singoli indiziati,
per accelerare il ritmo anche quando non sarebbe richiesto, con
l'effetto però di non dare ai vari indizi il peso che
meritano. Così come risulta artificioso l'inserimento di scene
d'azione (o quasi) destinate a dare una maggiore fisicità a
Poirot.
Non
bisogna tuttavia essere troppo prevenuti: dopotutto i migliori film su miss
Marple - l'altra celebre investigatrice seriale dell'autrice - sono stati quelli con Margareth Rutherford, tutt'altro che la
fragile vecchina descritta dalla Christie e, oltretutto, interprete
solo di una pellicola basata su un romanzo con miss Marple:
delle altre tre, due erano tratte da romanzi con Poirot e una era
basata su una sceneggiatura originale. Sicché, dopo aver visto
il detective belga interpretato in tanti modi diversi – da Tony
Randall a Peter Ustinov, fino al fedelissimo David Suchet – desta
quantomeno un certo interesse la versione di Branagh, più
drammatica ed emotiva, con ombre di un amore perduto che lascia
sospettare sviluppi in possibili film successivi. Dove, nel caso,
auspico un minor uso del computer e un maggior uso di soluzioni
registiche, come quella senza dubbio interessante della scoperta del
cadavere, ripresa interamente dall'alto. In sostanza, l'Assassinio
sull'Orient Express del 2017 è un piacevole spettacolo, ma
non certo un capolavoro in grado di scalzare dalla memoria la
versione precedente.
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