mercoledì 20 febbraio 2019

Cacciatore di...

Tecla e Cappi: rituale "Carvalho" alla Libreria del Giallo negli anni '90  


Racconto di Marcello Cimino

Negli anni Novanta a Milano la Libreria del Giallo in piazza San Nazaro in Brolo, fondata da Gian Franco Orsi de "Il Gialllo Mondadori", poi gestita e rilevata da Tecla Dozio, era un punto di riferimento per autori, cultori e lettori di narrativa di genere in Italia. Tanto quella sede quanto quella successiva in via Peschiera furono un vero e proprio salotto letterario che ospitò scrittori italiani e stranieri, e in cui nacquero diversi libri a partire dall'antologia della Scuola dei Duri, "Crimine Milano Giallo-Nera". Per diversi anni ci lavorai anch'io, prima di essere assorbito completamente dal lavoro nell'editoria.
In piazza San Nazaro erano di casa Renato Olivieri, Andrea G. Pinketts, Carlo Lucarelli; passarono di lì Evan Hunter e Manuel Vázquez Montalbán; tra i frequentatori più assidui figurava Marcello Cimino - apparso all'epoca anche in un mio racconto della serie "Cacciatore di Libri" - che oltre a essere un esperto di narrativa gialla si è dilettato più volte e con successo nella scrittura di genere.
Intorno al 1995 alcuni di noi scrissero racconti ambientati alla Libreria del Giallo e imperniati sui personaggi che la frequentavano. Marcello ne produsse uno in chiave sarcastica e vetrioleggiante che, riemerso in questi giorni dalle nebbie del giallo italiano, riporta alla memoria tanti amici, molti dei quali ormai assenti. (A. C. Cappi)



Piccola guida ai luoghi e ai personaggi principali:

La Sherlockiana, meglio nota come Libreria del Giallo, situata in piazza San Nazaro in Brolo, in un fondo di proprietà della Curia, adiacente alla omonima chiesa

Tecla Dozio proprietaria e animatrice della suddetta, nonché musa di molti giovani talenti
Andrea Carlo Cappi scrittore, traduttore, saggista, nonché cacciatore di libri per conto della Libreria. Grande appassionato di hardboiled ma dotato, ahilui, di un fisico da staccatore di biglietti sul tram
Andrea G. Pinketts scrittore, modello, sceriffo, ma soprattutto depositario di un ego spaventoso
Carlo Oliva scrittore, traduttore, saggista, ex-professore del Liceo Parini, grande affabulatore
Attilio Guardamacchia ispettore capo della Squadra Omicidi
(unico personaggio inventato)
Amici, parenti, scrittori, giornalisti…..


30 agosto 1995

Quella mattina, destandosi da sogni inquieti, Andrea Carlo Cappi si ritrovò nel suo letto completamente avvolto in un bagno di sudore.
L’improvvisa morte di Tecla Dozio, attivissima titolare della Libreria del Giallo, nonché sua datrice di lavoro, l’aveva ovviamente sconvolto.
Era stato lui a trovare il cadavere, due giorni prima. Il lunedì Tecla non lavorava e toccava a lui aprire la libreria al pomeriggio.
Puntuale come sempre, era arrivato in piazza San Nazaro poco prima delle sedici e si era diretto verso l’ingresso sul retro. Aveva inserito la chiave nella toppa e girato verso sinistra, ma non era riuscito a fare più di mezzo giro; allora aveva abbassato la maniglia e la porta si era aperta. Possibile che sabato sera Tecla si fosse dimenticata di chiudere a chiave?
Era entrato guardingo e, appena superato il bagno, l’aveva vista. Tecla era seduta con la testa rovesciata all’indietro e gli occhi sbarrati che puntavano un punto imprecisato sul soffitto. Le braccia ricadevano inerti lungo il corpo e solo lo scarso spazio tra la sedia e la scrivania aveva impedito al corpo di scivolare sul pavimento. I segni presenti sul collo sembravano indicare morte per strangolamento.
Cappi aveva cercato di non perdere la calma, anche se avrebbe voluto vomitare lì, sul posto. Ma così facendo avrebbe inquinato eventuali prove, e lui, noto Cacciatore di Gialli nonché giallista a sua volta, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Come si sarebbe comportato Archie Goodwin in un simile frangente? Certo non avrebbe vomitato davanti al cadavere di Nero Wolfe.
Confortato da tale riflessione, uscì di corsa e vomitò nel cortile dei preti.
La polizia, chiamata dal portiere dello stabile, informato dell’accaduto da Cappi stesso, era arrivata in pochi minuti. In pochissimo tempo la piazza si era riempita di gente: giornalisti, amici della vittima, curiosi e poliziotti, tanti poliziotti che tentavano di tenere tutti a debita distanza.
Il medico avrebbe stabilito che la morte doveva risalire a circa ventiquattr’ore prima e che probabilmente era stata causata da strangolamento. Mentre i poliziotti della Scientifica cospargevano di polverina bianca tutto ciò che era alla loro portata, l’ispettore Guardamacchia, incaricato delle indagini, aveva chiesto a Cappi di controllare se tutto, all’interno della libreria, apparisse in ordine.
Cappi aveva controllato la cassa, il cassetto dove venivano custoditi gli incassi dei giorni precedenti (i versamenti venivano fatti regolarmente ogni martedì mattina) e il resto della scrivania. A parte la tastiera del Mac che era caduta sul pavimento, probabilmente in seguito alla colluttazione tra la vittima e il suo assassino, tutto sembrava essere al suo posto. Tecla non doveva aver opposto molta resistenza. Eppure Cappi provava una strana sensazione, c’era qualcosa che non quadrava, lo sapeva, ma non riusciva a capire cosa.

Erano passati due giorni. Le indagini non avevano ancora portato a nulla. Tecla era benvoluta da tutti, non aveva nemici e certo non era la rapina il movente dell’omicidio. Dalla libreria sembrava non mancare niente, e poi, dove si era mai visto un rapinatore di libri?
Ma era un’altra la domanda a cui gli inquirenti volevano dare una risposta: cosa ci faceva Tecla Dozio in libreria in quell’ultima, caldissima e afosissima domenica di agosto?
Cappi si rigirò ancora un po' nel letto, poi, vinto dall’ansia, si decise ad alzarsi. Era sempre più convinto che la soluzione del mistero si trovasse in libreria, in qualcosa che lui aveva visto ma che non riusciva a mettere a fuoco.
I funerali erano fissati per le undici.
Il Comune di Milano, su richiesta dei familiari, aveva dato l’autorizzazione a tenere la cerimonia funebre, rigorosamente laica, nella piazza antistante la Libreria del Giallo. Quando Cappi arrivò erano da poco passate le dieci, eppure la piazza era già affollata di gente. C’erano i “bolognesi”, Lucarelli, Cacucci, Narciso, Bernardi, con quella sua faccia da John Belushi triste, Nerozzi e Rigosi nella loro solita divisa da funzionari del Partito Comunista Cecoslovacco, la Dhany Coraucci, che se la tirava come sempre.
C’era la Scuola dei Duri al completo: Ossola, Oliva, Riva, Pinardi e Pinketts. Marcello Cimino e Cesare Fiore con gli occhi gonfi di lacrime, forse per il dolore, o, molto più probabilmente perché Tea Vergani aveva deciso di raccontare loro, nei minimi dettagli, l’ultimo convegno che aveva organizzato. Romualdo Grande che, tanto per non smentirsi, aveva trovato il modo di attaccare discorso con un’addetta delle pompe funebri. Curtoni e Massaron che, essendosi vestiti per l’occasione come due bancari, salutavano tutti e non venivano riconosciuti da nessuno. E poi Orsi, Olivieri, Rizzoni e tantissima altra gente.
Alle undici in punto Carlo Oliva, con la voce rotta dall’emozione, iniziò la sua orazione funebre. Parlava dando le spalle all’ingresso della libreria e Cappi, nonostante si trovasse a pochi metri di fronte a lui, non lo sentiva. Stava fissando la vetrina, alla sinistra di Oliva, e in particolare stava guardando le tre file di libri dalla copertina rossa, tutti uguali, che occupavano l’intera scaffalatura.
E all’improvviso comprese.
Si guardò intorno, cercando di non dare nell’occhio, e individuò il suo uomo.
Doveva pensare in fretta.
Oliva stava parlando ormai da quindici minuti e Cappi sperò che, anche in quell’occasione, il mitico ex-professore del Parini tenesse fede alla sua fama di oratore facondo e ispirato, e magari anche un po' prolisso.
Gli servivano ancora dieci minuti.
Se conosceva bene il suo uomo, la sua idea avrebbe funzionato.
Non ci sarebbero state altre occasioni.
Ricacciando indietro i conati di vomito che gli venivano dal profondo della stomaco, si defilò dal mucchio e raggiunse l’ispettore Guardamacchia dentro il portone dello stabile.
Guardamacchia, come aveva visto fare nei telefilm di Derrick, era andato ai funerali sapendo che ci sarebbe stato anche l’assassino, ma non aveva la minima idea di come avrebbe fatto a identificarlo.
Cappi, al riparo dal portone, gli parlò brevemente all’orecchio e poi si diresse all’ingresso posteriore della libreria.
Oliva, fuori, stava ancora parlando quando qualcosa, dall’interno della vetrina, cominciò a muoversi, distraendo gli astanti. Cappi stava togliendo dagli scaffali i libri con la copertina rossa, sostituendoli tutti con le copie del nuovo romanzo di Olivieri con le gesta del commissario Ambrosio.
Oliva si voltò a guardare cosa stava accadendo.
Proprio in quel momento qualcuno, tra la folla, si mosse.
Mentre nella piazza rimbombò un “ORC...!!!“ un uomo in giacca rossa, pantaloni neri e camicia gialla con cravatta in tinta prese Oliva di peso tirandolo giù dallo scalino, sfondò con una spallata la porta della libreria e si lanciò su Cappi, tentando di strangolarlo.
Immediatamente un nugolo di poliziotti gli fu addosso e, seppure con una certa difficoltà, fu messo in condizioni di non nuocere.
Cappi si rialzò massaggiandosi la gola e guardò Pinketts negli occhi dicendogli: -Ho capito che eri stato tu quando ho visto la vetrina con tutte quelle copie de "Il senso della frase". Io stesso, venerdì scorso, l'avevo riempita con il libro di Olivieri e tu questo non hai potuto sopportarlo. Con una scusa hai attirato Tecla in libreria e, di fronte al suo rifiuto di cambiare la disposizione della vetrina, l’hai fatto tu, dopo averla strangolata.
Pinketts, che nonostante fosse stato pestato e strattonato da dieci poliziotti, aveva ancora il sigaro in bocca, lo guardò con tutto il disprezzo di cui era capace. - Cosa ne vuoi sapere tu, piccolo sgabello della natura, di ciò che prova un grande scrittore vedendo la sua opera estromessa proditoriamente dal suo ambito naturale, dal posto che le spetta di diritto? Sei un morto che cammina, Cappi. Sei come Salman Rushdie. Prima o poi ti prenderò!
Cappi sentiva su di sé gli occhi di tutti. Era un eroe, aveva risolto il caso rischiando la vita, aveva reso giustizia a Tecla. Il palcoscenico era suo, non doveva sbagliare la sua battuta.
Pinketts era davanti a lui, trattenuto da decine di mani.
Cappi gli si avvicinò.
Lo guardò dritto negli occhi.
E gli vomitò addosso.


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