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La città proibita di Gabriele Mainetti
Recensione di Andrea Carlo Cappi
Una volta di più Gabriele Mainetti realizza con successo un film che non ci si aspetterebbe da una produzione italiana. "Voglio sentirmi scomodo", dice il regista, dopo avere trattato in modo molto personale temi supereroistici in due film del tutto insoliti e potenti, Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) e Freaks Out (2021). Per tenersi alla larga dalla sua comfort zone, con La città proibita ha sfidato se stesso girando un autentico film di kung fu italiano, nel contempo restando fedele al genere e mantenendo tutti gli elementi divenuti tipici delle sue opere: umanità, personaggi coinvolgenti, cattivi non convenzionali e... Roma, che risulta ben di più di una semplice ambientazione.
Gli appassionati di cinema di kung ricordano L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente (noto nel mondo comeThe Way of the Dragon) con Bruce Lee - anche regista - che si scontra con un giovane Chuck Norris: una produzione Concord/Golden Harvest insolitamente ambientata e girata a Roma. Il personaggio di Lee, Tang Lung (ribattezzato a forza "Chen" nella versione italiana, per ricollegarlo agli omonimi protagonisti dei precedenti film dell'attore distribuiti in Italia) arriva a Roma per proteggere il ristorante di famiglia da una gang locale. Reminiscenze di questa pellicola del 1972 (arrivata da noi nel 1974, sei mesi dopo la morte di Bruce Lee e due anni prima della nascita di Mainetti) possono avere in parte ispirato La città proibita, per quanto - dice il regista - quando lui propose un film di arti marziali ambientato a Roma, il produttore abbia creduto che volesse fare qualcosa come The Karate Kid. Niente di tutto questo: Mainetti conosce a fondo il filone e sa come affrontarlo.
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