Tributo di Andrea Carlo Cappi
Il dodici dicembre 2020, all'età di ottantanove anni, ci ha lasciati John Le Carré, l'autore britannico che ha coniugato la spy-story al giallo psicologico e, nonostante questo, è stato riconosciuto come un grande scrittore. Ricordo quando al Noir in Festival di Courmayeur nel dicembre del 2001 gli fu assegnato il Premio Chandler, riconoscimento consegnato a suo tempo anche a un altro maestro del Novecento, Graham Greene. Entrambi avevano lavorato nei servizi segreti del loro paese e scritto di questioni spionistiche, che per Le Carré - che operò dal 1948 al 1964 presso l'MI6 (lo spionaggio all'estero), l'Army Intelligence Corps (spionaggio e controspionaggio militare) e infine l'MI5 (controspionaggio) - furono l'argomento principale della sua produzione letteraria.
Per
molti anni, quando nelle interviste gli veniva domandato se la sua
competenza nel settore fosse dovuta a esperienza
diretta, Le Carré rispondeva che non occorre appartenere
a un determinato ambiente per scrivere un romanzo su quell'ambiente
e, in particolare, non occorre essere una spia per scrivere una
spy-story.
Forse.
Eppure Ian Fleming, per le avventure di James Bond, si era ispirato
alle proprie esperienze presso lo spionaggio della Royal
Navy durante la Seconda guerra mondiale. Così come William
Somerset Maugham si era basato sul proprio lavoro nell'MI6 per
creare il suo alter ego nei racconti di Ashenden l'inglese; e
Graham Greene, per scrivere Il nostro agente all'Avana, era
partito da un'imbarazzante episodio in cui i servizi segreti
britannici erano incorsi in Nordafrica in tempo di guerra e di cui lo
scrittore era venuto a conoscenza lavorando a sua volta per il
servizio di spionaggio militare. A sua volta, Le Carré ne avrebbe ricavato lo spunto per il suo Il sarto di Panama.
In
effetti, le storie che raccontò già nei suoi
primi romanzi denotano una competenza specifica superiore a quella
della maggior pare dei narratori di spionaggio e, soprattutto, un
realismo e un pessimismo che possono derivare solo da una
frequentazione diretta. Marcus "Misha" Wolff, capo dello
STASI, il servizio segreto della Germania Est, ricordò in un'intervista di avere letto con interesse il romanzo La spia
che venne dal freddo, e di avere osservato che quell'autore britannico
fosse un individuo da tenere d'occhio: sapeva troppe cose per essere
uno scrittore qualunque.
Ma
per molto tempo John Le Carré non ha potuto rivelare che David
Cornwell (la sua vera identità) era stato in servizio presso
l'MI5, distaccato in Germania, dove peraltro ebbe qualche problema per colpa di Harold Philby, la "talpa" sovietica infiltrata ad alto livello nei servizi segreti britannici.
Probabilmente, anche dopo le dimissioni, lo scrittore era vincolato dall'Official Secrets Act, che
impone a ogni dipendente dei servizi segreti di Sua Maestà di
mantenere un perenne, dignitoso silenzio sul proprio operato. E fu per il successo dei suoi romanzi che Cornwell fu costretto a lasciare
il servizio attivo: non doveva essere gradito ai vertici dell'MI5 che uno dei suoi
agenti - benché sotto pseudonimo - attirasse l'attenzione dei giornali scrivendo libri
estremamente efficaci e convincenti sulle pratiche e sulle tecniche
dello spionaggio.
L'agente
007 di Fleming, modellato su fatti e personaggi che risalivano ormai agli anni Quaranta e rielaborato in chiave puramente esotico-avventurosa, non
costituiva un imbarazzo per i servizi segreti. Al contrario, un
autore come John Le Carré, con le sue storie di spie
crepuscolari, falsi traditori e viscidi doppiogiochisti, in cui
spesso i cosiddetti nemici risultavano eticamente superiori agli
alleati del Regno Unito (per non parlare della discutibile moralità
dei vertici dello spionaggio di Londra) non doveva ammettere
di lavorare su una conoscenza di prima mano.
Trascorsero molti anni prima che lo scrittore potesse presentarsi di
fronte alle telecamere della televisione britannica e confessare
senza restrizioni il proprio passato di agente segreto. E non solo
quello. Per esempio ammettere pubblicamente la realtà dei
fatti che costituiscono il background del romanzo La spia
perfetta, compreso l'imbarazzante passato del padre, figura di
avventuriero-truffatore, con quattro
anni di permanenza nella galere di Sua Maestà.
Una
volta liberatosi dell'alone di segretezza cui era stato
costretto per decenni, Le Carré divenne, finalmente, un uomo
veramente libero. Libero di esprimersi senza restrizioni, libero di
ammettere il proprio passato, ma anche di assumere atteggiamenti che
in altri tempi sarebbero potute apparire sospetti nel suo stesso
paese. Il Le Carré della Guerra Fredda era critico tanto verso
il blocco sovietico quanto verso i metodi dei servizi segreti
britannici, e i suoi romanzi non scivolavano mai nell'anticomunismo di
maniera, tantomeno nella letteratura di propaganda.
Ma, svanita "la minaccia comunista", lo scrittore
sembrava sentirsi finalmente autorizzato ad abbracciare posizioni
ideologiche che un tempo avrebbero potuto essere fraintese. Ecco
quindi un Le Carré che denunciava il
neoimperialismo delle multinazionali, la politica militarista degli
Stati Uniti e gli errori che avevano portato
all'ascesa di Bin Laden. "L'Undici Settembre" spiegò, "rappresenta un fallimento dei servizi segreti. Lo spionaggio si è mosso in un'astrazione dalla realtà effettiva. Le direttive dei servizi segreti sono stabilite da funzionari che non hanno un contatto diretto con la situazione."
Le Carré non amava le interviste, ma nel corso del Noir in Festival si presentò a un incontro con il pubblico in cui, oltre a farmi fare un autografo su una copia di un suo libro, ebbi modo di porgli qualche domanda.
A proposito della minaccia costituita da al-Qaeda, Le Carré si ricollegò a un suo romanzo di alcuni anni prima. "Ci
sono grandi difficoltà nel penetrare organizzazioni
terroristiche, un problema che ho cercato di evidenziare in un
romanzo chiamato La tamburina. Il primo problema è comprendere
la natura e la struttura dell'organizzazione. Il secondo problema,
particolarmente sensibile in una democrazia, è quello di
inserire una fonte umana all'interno di un'organizzazione
terroristica. Occorre essere preparati a consentire a quell'uomo o a
quella donna di commettere atti criminali in modo da interpretare la
parte in modo convincente, per guadagnarsi credibilità e
rispetto, e per ascendere ai livelli superiori. E questo non è
normalmente accettabile in termini politici. Sono sicuro che la
risposta del signor Blair a una simile prospettiva sarebbe: 'Dovranno
prima passare sul mio cadavere.'"
Era in corso la cosiddetta Guerra al Terrore, sull'onda emotiva del più devastante attacco agli Stati Uniti dai tempi di Pearl Harbour. "Quello che è avvenuto in America dopo l'Undici Settembre è stato un sollevamento di emozioni e patriottismo che possiamo dire abbia raggiunto la massa critica. Penso
che sia un errore scegliere la guerra come soluzione. A Beirut,
nell'81 e nell'82, sono stato testimone dell'attacco a Libano da
parte di Israele e ho avuto la fortuna di conoscere Arafat. Mi sono
reso conto che c'erano persone ragionevoli da una parte e dall'altra.
Eppure c'era un senso reciproco di vendetta."
Parlò naturalmente dei suoi romanzi e del personaggio ricorrente nelle sue storie della Guerra Fredda. "George
Smiley, a mio parere, porta su di sé il peso della colpa
dell'Occidente e un profondo dolore per ciò che deve fare.
Quando, alla fine della sua saga, riesce a portare il suo omologo
rivale, Karla, fino al Muro di Berlino, Smiley ammette: 'Ho
fatto appello all'umanità del mio avversario. l'ho sedotto
giocando con le sue emozioni.'"
Nell'incontro pubblico Le Carré affrontò anche la reazione ai suoi libri da parte degli addetti ai lavori. "Per
quanto riguarda le reazioni dei servizi segreti inglesi e americani,
non era il contenuto dei miei libri a preoccuparli: si trattava
completamente di fiction. A dare fastidio era l'attenzione che avevo
attirato su di me quando ancora ero in servizio. Da qui l'invito a
lasciare l'intelligence. A
proposito dell'altra parte, non mi ha reso
particolarmente felice la rivelazione che Markus Wolff fosse un mio
appassionato lettore. Ma posso raccontare della serata che ho passato
con Evgeny Primakov" (primo ministro russo durante la presidenza di Boris Eltsin) "che mi ha rivelato che il suo preferito tra i
miei libri era Tutti gli uomini di Smiley. Ho pensato che avesse
trovato particolarmente realistica e coinvolgente la mia descrizione
di Karla, il capo del servizio segreto sovietico.
"Perché
si identificava con Karla?" gli chiesi.
"No!
Con Smiley!"
Si sa che la spy story è stata data per morta varie volte, ma lo scrittore ebbe modo di smentire l'assurda diceria. "Quando cadde il Muro di Berlino, la stampa inglese scrisse che, insieme alla Guerra Fredda, anche la narrativa di spionaggio, e in particolare John Le Carré, erano finiti. Ma le attività dei servizi di intelligence non sono affatto diminuite da allora. Si spende nello spionaggio tanto denaro quanto se ne spendeva nella Guerra Fredda, se non di più. E ci sono ancora molti argomenti da affrontare: i diritti umani, la tortura... Perciò la spy-story non è affatto morta e ha ancora molto da raccontare."
Gli argomenti non mancavano, anche se lo scenario era mutato. "All'indomani
della scomparsa della 'minaccia comunista' mi sono
domandato quale sarebbe stata l'essenza del conflitto a venire", disse in quell'occasione. "Ho
preso in considerazione la rabbia crescente di quelle parti del mondo
che non hanno ciò che noi abbiamo. Sono semplicemente
disgustato dall'atteggiamento dell'Occidente nei confronti del resto
del mondo. Il giardiniere tenace è un romanzo sul potere delle
multinazionali, in particolare le multinazionali
farmaceutiche, soprattutto quelle attive in Africa. Non mi sono
basato esclusivamente su generiche accuse di sfruttamento del Terzo
Mondo. Ho trascorso undici mesi a investigare sugli abusi
effettivamente commessi. Il romanzo è ambientato in Africa, ma
cose del genere avvengono anche in altri continenti."
Recentemente Le Carré ha preso posizione contro la Brexit e non ha risparmiato critiche al lavoro sporco svolto da Donald Trump per conto della "Grande Madre Russia", argomenti delicati che pochi nel mondo della narrativa spionistica hanno osato affrontare.
Le Carré, con i suoi libri, ha fornito grande ispirazione a cinema e televisione, a partire dal capolavoro con Richard Burton basato su La spia che venne dal freddo. "Credo
che le migliori trasposizioni dei miei libri siano state quelle
realizzate per la televisione con Alec Guinness", raccontò nel 2001. "Quanto ai film...
Non posso immaginarne uno peggiore di quello che è stato
tratto da La tamburina. Ho apprezzato l'interpretazione di Sean
Connery ne La casa Russia, anche se il film cercava di essere fin
troppo fedele al romanzo. Sono molto soddisfatto de Il sarto di
Panama. Ho partecipato alla realizzazione del film, quindi non posso
definirmi imparziale. Ma ritengo che Pierce Brosnan abbia la capacità
di interpretare James Bond e al tempo stesso di diventare un
personaggio perfettamente immorale... che è in fondo un James
Bond portato alle estreme conseguenze."
Chi ha visto l'ottimo adattamento cinematografico de La talpa del 2011 può riconoscere lo stesso John Le Carré tra gli ospiti della festa verso la fine del film, in un cameo alla Hitchcock. E viene da pensare a quanto rivelò nel 2008 in un'intervista al Sunday Times: a un certo punto della sua carriera fu persino tentato di lavorare per l'altra parte. “Non
era una tentazione ideologica”, precisò. “Ma quando si spia
intensamente e ci si avvicina sempre di più al confine...
sembra un passo così breve saltare dall'altro lato e scoprire
il resto.”
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