mercoledì 1 marzo 2023

Hopscotch (2 sotto il divano, 1980)


Retrospettiva di Andrea Carlo Cappi

La metamorfosi di un romanzo in sceneggiatura e film è spesso un percorso curioso: un libro in genere nasce da una singola mente solitaria, mentre ciò che approda sullo schermo è il prodotto di molti fattori, non ultimi la scelta degli interpreti, il periodo in cui viene girato e il tipo di mercato in cui dev'essere proposto.
Nel caso di Hopscotch, tuttavia, l'evoluzione è particolarmente atipica: da un asciutto noir a sfondo spionistico a un thriller internazionale in chiave di commedia. Ma non un tradimento, bensì un gioiello quasi dimenticato che, forse ancora meglio del testo originale, veicola il pungente messaggio politico contenuto in entrambe le opere.


Nei primi anni Settanta il romanziere americano Brian Garfield (1939-2018) è già autore di una sessantina di libri, molti dei quali western in franchise sotto pseudonimo. Nel 1972 ha conquistato fama mondiale con il romanzo Il giustiziere della notte (Death Wish) trasposto da Michael Winner nel celebre e controverso film con Charles Bronson, che avrà quattro sequel nel ventennio successivo e un remake con Bruce Willis nel 2018; mentre il "vero" seguito del romanzo, Death Sentence (del 1975, apparso nel 1982 ne Il Giallo Mondadori come Il giustiziere della notte n.2) ispirerà a sua volta un film nel 2007.
Il prolifico Garfield pubblica uno o due romanzi all'anno, tra cui un piacevolissimo noir-western umoristico a quattro mani con l'amico Donald E. Westlake, 20.000 lingotti sopra i mari (Gangway, del 1973) e nel 1975 scrive la spy-story Hopscotch, con cui vince l'anno dopo il prestigioso Edgar Award conferito dai Mystery Writers of America. Il libro è pubblicato in Italia da Mondadori a fine 1976 nella collana da edicola Segretissimo con il titolo Spionaggio d'autore. All'uscita del film sarà riproposto con lo stesso titolo nella collana da libreria Classici dello spionaggio.
Hopscotch è il nome in inglese del gioco della campana e si riferisce ai continui spostamenti del protagonista del romanzo da una "casella" all'altra in varie parti del mondo, per sfuggire ai suoi ex datori di lavoro della CIA. Miles Kendig è infatti un ex agente della "Compagnia" costretto poco dopo i cinquant'anni d'età a un pensionamento forzato dopo aver servito per un trentennio il suo paese, prima come soldato e poi come spia: annoiato e malinconico, ha deciso di giocare un'ultima partita, denunciando in un memoriale le pratiche dei servizi segreti - in particolare del suo - condite con rivelazioni scottanti.
Mentre ancora lo sta scrivendo, organizza abilmente la pubblicazione del suo libro intitolato Conspiracy of Killers, ma trasforma se stesso in un bersaglio. A dargli la caccia sono Myerson (direttore della sua sezione della CIA), Cutter (ex allievo di Kendig e suo successore) e gli ex colleghi Follett e Ross, coadiuvati dall'FBI nel territorio USA; ma anche Yaskov, veterano del KGB in Europa. Quindi, sfruttando contatti e luoghi segreti che conosce grazie alla sua esperienza sul campo, il protagonista deve far perdere le proprie tracce prima che qualcuno lo faccia tacere per sempre.


Il libro è figlio dei suoi tempi. In quel periodo gli Stati Uniti sono arrivati in fondo a un processo di autocritica cominciato con l'assassinio di Kennedy nel 1963 e culminato con lo scandalo Watergate del 1972. Nel 1975 viene creato il Church Committee, presieduto dal senatore Frank Church, che porta alla luce i lati più oscuri della CIA. Gli americani non si fidano più del loro servizio segreto e la narrativa riflette l'umore dell'epoca, come testimonia il romanzo I sei giorni del Condor di James Grady (Six Days of the Condor, 1974), da cui proprio nel 1975 viene tratto il film di Sydney Pollack I tre giorni del Condor (Three Days of the Condor).
Lo stesso vale per Hopscotch, in cui viene citato di sfuggita l'ex agente della CIA E. Howard Hunt, inquietante figura centrale del caso Watergate (ma anche autore di spy story sotto pseudonimo, i cui libri vengono pubblicati tempestivamente in Italia in Segretissimo con il suo vero nome in copertina, dopo che è stato scoperto e condannato, acquisendo un'improvvisa notorietà internazionale).
Brian Garfield scrive una propria sceneggiatura basata sul suo romanzo, mantenendone l'atmosfera noir. Ma tutto cambia quando nel progetto di portare Hopscotch sullo schermo viene coinvolto l'attore Walter Matthau.


Ho sempre sospettato che l'idea di far entrare Matthau nel film sia nata dalla somiglianza tra Miles Kendig e il protagonista di Chi ucciderà Charley Varrick? (Charley Varrick, 1973, di Don Siegel) tratto dal romanzo del 1968 The Looters di John H. Reese, altro scrittore proveniente dal western: in quella vicenda, il personaggio eponimo viene braccato dopo avere svaligiato una banca in cui una gang criminale nasconde i propri proventi illeciti.
Con quella pellicola l'attore lascia per qualche anno la commedia per il noir, girando la trasposizione a San Francisco del romanzo Il poliziotto che ride (1968) della coppia svedese Sjöwall & Wahlöö, L'ispettore Martin ha teso la trappola (The Laughing Policeman, 1973), e Il colpo della metropolitana (The Taking of Pelham 123, 1974) dal romanzo omonimo di John Godey. Ma, dopo questa parentesi, forse non ha intenzione di girare un film che in chiave "seria" ricorderebbe troppo quello di Siegel. Quindi condiziona esplicitamente la propria partecipazione a una nuova sceneggiatura sotto forma di commedia. Non solo: sarà lui a scegliere buona parte dei brani classici e lirici che accompagnano la colonna sonora, da Mozart a Rossini (con una battuta sui diversi Figaro della lirica, che immagino scritta proprio da Matthau) fino a Puccini.
Così sul primo script interviene il regista-scrittore britannico Bryan Forbes, che firmerà la sceneggiatura insieme a Garfield. Alcune battute resteranno identiche a come sono nel libro, anche se in corso d'opera saranno apportate ulteriori modifiche. Alcune variazioni sono del regista del film, il veterano Ronald Neame, che nel campo della spy story ha già diretto due classici: L'uomo che non è mai esistito del 1956, basato sull'omonimo resoconto di Ewen Montagu dell'Operazione Mincemeat, e Dossier Odessa del 1974 dal romanzo di Frederick Forsyth. Altre, come dicevo, sono per mano dello stesso Walter Matthau, tra cui la prima e l'ultima scena con Glenda Jackson. Perché una delle modifiche più significative è l'inserimento di un unico e continuativo love interest per il protagonista, che all'inizio del romanzo si limitava a trascorrere una notte a Parigi con l'avvenente vedova Stein, incontrata a un tavolo da poker, e più avanti aveva una fugace relazione con Carla Fleming, pilota di aerei da turismo reclutata per una delle sue fughe.
Nasce quindi per il film il personaggio di Isobel von Schönenberg, vedova di un ricco austriaco, ex agente occasionale della CIA, ora amante e ironica complice di Kendig. La parte viene offerta all'attrice inglese Glenda Jackson, che accetta con entusiasmo, avendo già recitato con Walter Matthau nel brillante Visite a domicilio (House Calls, 1978, di Howard Zieff). Il ruolo di Carla - qui solo abile pilota - andrà invece a Lucy Saroyan, figlia dell'attrice teatrale Carol Grace che, dopo il divorzio dallo scrittore William Saroyan, si era risposata proprio con Matthau. Per restare in famiglia, a interpretare l'agente della CIA Ross è David Matthau, figlio del precedente matrimonio dell'attore.


Il film dipinge buona parte degli agenti della CIA come incompetenti, quando non arroganti come il caposezione Myerson (Ned Beatty), di cui viene delineata magistralmente la personalità in una precisa sequenza: mentre questi interrompe una riunione con Kendig per parlare al telefono con la moglie, l'agente ha il tempo di osservare le fotografie appese alle pareti, in cui Myerson appare insieme a Richard Nixon, Henry Kissinger e John Wayne, a una battuta di pesca mentre esibisce la sua preda e in posa alla Clint Eastwood al tiro a segno, con accanto incorniciati i bersagli in cui ha fatto centro.
La chiave umoristica del film non altera la sequenza degli avvenimenti del libro, anche se cambiano molte delle ambientazioni e alcuni dei passaggi sono più lineari, a tutto vantaggio peraltro della solidità della trama. Nella sequenza di apertura si spiega anche la ragione per cui Miles Kendig perde il suo incarico: un confronto con il rivale Yaskov durante l'Oktoberfest di Monaco si è risolto con un accordo tra gentiluomini in cui l'agente del KGB (forse un po' idealizzato, nell'elegante interpretazione di Herbet Lom) ha accettato di buon grado la sconfitta. Myerson non è in grado di capire certe sfumature, a differenza di Cutter (Sam Waterston) che pur, dovendo catturare Kendig, nel film non è troppo dispiaciuto dal fatto che il suo superiore venga ripetutamente beffato. Da questo punto di vista, il film, quasi più del romanzo, è un'ottima lezione su come si possa costruire una vicenda spionistica.
Una curiosità: nel romanzo una delle false identità di Kendig è "Parker", che usa per contattare "Dortmund", alias di Yaskov; è noto che Parker e Dortmunder sono i più famosi personaggi seriali di Donald E. Westlake, amico e collega di Garfield. Nel film l'editore britannico del memoriale di Kendig (qui intitolato proprio Hopscotch) si chiama Parker Westlake. Ma gli inside jokes si moltiplicano: nel romanzo, forse per puro caso, appaiono i cognomi Fleming, Follett e Ross; se il primo è lo stesso dell'autore di James Bond; il secondo è quello di uno scrittore britannico poco noto nel 1975, ma che nel 1978 sarebbe divenuto celebre per La cruna dell'ago (Edgar Award nel 1979); mentre Ross era uno dei suoi numerosi pseudonimi usati in precedenza. Nel film, oltre a questi nomi, compare anche un certo Ludlum, che richiama ovviamente l'autore di molti bestseller spionistici.


In chiusura, qualche osservazione sulle versioni italiane: riletta oggi, la traduzione del 1976 appare piuttosto datata, specie perché all'epoca Il Giallo Mondadori e Segretissimo mantenevano l'usanza del "voi" nei dialoghi, spesso usato anche quando i personaggi si potrebbero dare semplicemente del "tu". Ben riuscito invece il doppiaggio del film, anche se viene inserita una battuta inesistente nei dialoghi originali, a proposito di un albergo dove in passato Kendig e Isobel sarebbero finiti "sotto il divano".
Ma in qualche modo bisognava giustificare la scelta un po' improbabile del titolo 2 sotto il divano, che riecheggia Tre sul divano (Three on a Couch, 1966), commedia sulla psicoterapia diretta e interpreta da Jerry Lewis. D'altro canto il titolo italiano del romanzo era troppo serio e la traduzione letterale di quello originale, "Campana", sarebbe stata fraintesa (nel doppiaggio viene citato come "salto della quaglia"). In realtà il divano appare unicamente nel manifesto con cui la pellicola venne distribuita dalle nostre parti. Non mancarono lo stesso gli equivoci: quando uscì al cinema, se non erro nel dicembre 1980, ricordo una signora che lo scambiò per il titolo di una commedia sexy.
Il film è ricomparso qualche anno fa in dvd, ma di recente mi sono impadronito di un'ottima edizione spagnola in blu-ray - con il titolo 1 enredo para 2 (più o meno "Un intrigo per due") - contenente anche la traccia originale e quella doppiata in italiano.

venerdì 17 febbraio 2023

Iperwriters - La monaca di Monza

Photo. Korie Jenkins on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 15 - La monaca di Monza

Venerdì, ore 13. Dunque, fin dalle elementari ho fatto uso di droghe. Le mie sostanze stupefacenti sono state, come ho detto, libri, film e telefilm.
Le ragioni per cui qualcuno cerca un'evasione da una vita che rifiuta e che lo/la rifiuta (mentre altri vi si gettano come nuotatori, non leggono e vanno al cinema solo per farsi due risate) sono ignote. E' quell'attitudine particolare che poi ti farà dire, da grande, se hai guadagnato due soldi in diritti d'autore, "So solo scrivere".
Il fatto è che per me l'Immaginario è stato, fin dai primi anni di vita, famiglia, patria e religione. Non so se ho cominciato a immaginare perché assorbivo fiction o se cercavo fiction per nutrire l'immaginazione: potrebbe essere un unicum, in fondo.
Dopo i libri, sono arrivati i film.
Pare che la prima volta in cui un bambino guarda un film o una qualche forma di spettacolo (qualcosa insomma in cui appaiono creature non di questo mondo, o in situazioni oltre le regole di questo mondo) prova paura.
E' assolutamente vero, almeno nel mio caso. Il primo contatto con il mistero dell'immagine, del quadro, della rappesentazione non può lasciare indifferenti e immutati. Pensiamo alla sindrome di Stendhal.
Il mio primo film è stato Los tres caballeros, della Disney. Una domenica, con mio padre, in una sala parrocchiale. Ho gridato di terrore, supplicando di andare via. Ma, una volta a casa, più calma, ho capito che qualcosa non andava. Non mi ero comportata nel modo giusto, non avevo approfittato di quell'esperienza che doveva (lo sentivo) essere preziosa. Ero fuggita. Allora ho chiesto di essere riportata là. A lungo e vincendo la resistenza e lo stupore di mio padre. Una volta nuovamente nella sala buia, ho compreso quanto lo spettacolo fosse incantevole.
Un film che mi ha lasciata sotto shock per più di una settimana è stato La monaca di Monza. Finiva con una soggettiva della protagonista murata viva. Voglio dire: io venivo chiusa in una cella cieca e, un mattone sopra l'altro, aria e luce mi venivano tolte.
Dopo, il cinema è stato un amore eterno e oggi posso vedere qualsiasi cosa (proprio qualsiasi cosa) in una fiction provando solo piacere, se la fiction è buona.
Ma tutto ha avuto origine da un film di animazione musicale e da una condanna a una sepoltura in vita.

martedì 14 febbraio 2023

"Spy Game": i thriller della Guerra Fredda

Checkpoint Charlie, Berlino (foto: A. C. Cappi)

A cura di Andrea Carlo Cappi

Questa pagina è dedicata a origini, retroscena e novità di Spy Game - Storie della Guerra Fredda, la collana thriller in ebook di Delos Digital dedicata alla spy story "classica" made in Italy. Ogni numero a 1,99€. A questo link trovate tutti i titoli disponibili, direttamente dal catalogo Delos. Gli ebook possono essere acquistati anche nelle principali librerie online.

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Tutte le nuove uscite di Spy Game (su Amazon.it):

43-Franco Luparia Un gentiluomo sul Bosforo (dal 16 luglio 2024)

42-Giovanni Ingrosso L'affare Underwood (dal 18 giugno 2024)

41-Cristina Biolcati Progetto Mercurio (dal 21 maggio 2024)



 

















La storia della collana

A creare Spy Game, nel 2019, fu Stefano Di Marino, il più grande autore italiano di spionaggio (e di narrativa di genere in ogni campo), che l'inaugurò in occasione dei trent'anni dal crollo del Muro di Berlino. Vi partecipano esclusivamente autrici italiane e autori italiani, beninteso competenti in materia. Dopo che negli ultimi decenni la storica collana Segretissimo di Mondadori ha portato alla luce i talenti del thriller spionistico made in Italy - spesso per tradizione celati sotto psedudonimi stranieri - era tempo di riconoscere l'esistenza di una "scuola italiana" della spy story, senza più travestimenti.
Le trame di Spy Game sono diverse dallo stile di Segretissimo, meno imperniate sull'azione e più sullo spycraft, ovvero le tecniche reali dei servizi segreti. Le storie - racconti lunghi o veri e propri romanzi brevi - narrano di intrighi internazionali, ma le ambientazioni possono essere tanto straniere quanto italiane, così come i protagonisti. Alcune storie sono autoconclusive, altre costituiscono miniserie complete; nel caso di Dark Duet, invece, si tratta di un serial in cui episodi indipendenti sono concatenati fra loro. Anche le epoche variano, tra l'immediato dopoguerra e la fine degli anni Ottanta.
Nell'estate del 2021 la scomparsa di Stefano Di Marino, oltre a privarci del suo enorme talento e di un grande amico, ha imposto l'interruzione della collana al numero 22. Ma era doveroso riprenderla. per ribadire che nella spy story, come in altri campi della narrativa di genere, la narrativa italiana non ha nulla da invidiare a quella estera. Ed è l'occasione per scoprire vicende inedite e nomi nuovi della letteratura spionistica, a confronto con una Storia recente che è bene non dimenticare.






venerdì 10 febbraio 2023

Audition (Ôdishon, 1999)


Retrospettiva di Andrea Carlo Cappi

Audition è uno dei titoli più noti della vasta produzione del regista giapponese Takashi Miike, quello che tra il 2000 e il 2001 lo ha reso noto a livello internazionale. All'epoca si raccontava del pubblico sotto shock durante le proiezioni ai festival, probabilmente perché ignaro di ciò che li aspettava. Se n'è riparlato di recente, quando è stato proposto per alcuni giorni nelle sale italiane come "evento speciale". Mi è venuta voglia di rispolverarne un'edizione spagnola di in dvd, vent'anni fa, con traccia in giapponese e sottotitoli.
Il film, drammatico anche se potrebbe sembrare romantico con qualche punteggiatura umoristica, sfugge alle definizioni: se in Giappone il termine saiko haraa (derivato da psycho horror) indica in realtà storie di oscure presenze sovrannaturali, Audition è un'autentica vicenda di "orrore psicologico", relativamente poco esplicito, ma agghiacciante per tutto ciò che evoca... con l'assoluta mancanza di freni che spesso caratterizza il cinema nipponico di genere.
Tratto da un romanzo del 1997 di Ryu Murakami, racconta di Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi), solitario vedovo quarantatreenne di Tokyo, che su suggerimento del figlio teenager Shigehiko (Tetsu Sawaki) decide di risposarsi. Senza nemmeno accorgersi dell'interesse pressoché manifesto della sua assistente personale in ufficio, il brav'uomo ambisce a ricreare il rapporto che aveva con la defunta moglie, bella, intelligente e colta. Ma dove trovare una giovane donna che risponda a tali requisiti?

L'amico produttore televisivo Yoshikawa (Jun Kunimura) gli suggerisce un espediente: convocare aspiranti attrici per il casting di un film che non verrà mai realizzato e, fra le trenta candidate preselezionate in base al curriculum, scegliere la moglie ideale.
Quando le potenziali interpreti si presentano per l'audizione, tuttavia, Aoyama è già stato colpito dalle note personali di Asami Yamazaki (Eihi Shiina), che per un incidente ha dovuto rinunciare alla carriera di ballerina. La ventiquattrenne Asami, timida e quasi infantile, gli appare subito come una creatura angelica e seducente nella sua innocenza. In effetti, l'attrice aveva ventitré anni all'epoca delle riprese, ma sembra quasi coetanea del figlio del protagonista.
Aoyama non ascolta, ovviamente, il consiglio di Yoshikawa, che a pelle intuisce che qualcosa non vada nella ragazza. E non coglie i segnali del passato traumatico di Asami, che dovrebbe richiedere l'intervento immediato di una task force di psicologi. Al pubblico, tuttavia, la protagonista femminile viene mostrata anche con il suo lato più oscuro, che richiama giustappunto le figure femminili del saiko haraa, pur essendo in carne e ossa.

La ragazza sparisce nel bel mezzo del loro primo weekend romantico e non risponde più alle telefonate. Lui non ne conosce l'indirizzo, gli unici indizi sono una vecchia scuola di danza e un bar in cui lei lavora come cameriera. Aoyama comincia ad avere qualche sospetto quando, nella sua ricerca disperata, sente parlare di persone scomparse, omicidi e amputazioni assortite. Ma è troppo tardi: Asami vede riflessi in lui i responsabili del suo ampio bagaglio di abusi e si è convinta che le sue promesse d'amore siano false... Ma non rivelo come andrà a finire.
Audition è tutt'altro che banale e manicheista: Asami non è una dark lady vecchio stampo, mentre Aoyama, come certi personaggi di Hitchcock, non è del tutto innocente, anche se non merita certo di pagare per colpe altrui. La parte finale della pellicola gioca tra realtà e allucinazione (barando leggermente per spiazzare il pubblico) e trasmette sensazioni dolorose quasi quanto l'uso perverso dell'agopuntura evocato dalle parole kiri kiri kiri, per non parlare dell'altro strumento impiegato nel film.
Ma il fascino di Audition risiede proprio nella ricerca disperata dei protagonisti di una certezza di essere amati o amate. E in fondo, come disse qualcuno, chi ruba un piede è fortunato in amore... O forse no.

venerdì 3 febbraio 2023

Iperwriters - La droga delle formiche

Photo: Etienne Girardet on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 14 - La droga delle formiche

Venerdì, ore 13. Ancora un ritratto della scrittrice come giovane cagna randagia o, come si dice oggi, underdog.
Sempre la mia maestra delle elementari, santa donna che ci faceva disegnare molte Madonne: e non lo dico con sarcasmo. Era un buon essere umano e una eccellente insegnante; scrivo tuttora a partire dai suoi insegnamenti, per l'esempio l'uso del punto e virgola che vedete prima, da impiegare in sostituzione del punto quando non si vuole spezzare il periodo.
Sempre lei, in una valutazione che ho ritrovato dopo l'ultimo trasloco, afferma che ho letto tutti i libri disponibili per il prestito nella biblioteca scolastica. Non so se li ho portati a casa tutti, ma dev'essere sicuramente vero.
Perché, primo: la mia maestra non avrebbe mai firmato una falsità; secondo: cosa mai avrei potuto fare d'inverno con poca televisione e vicini noiosi? e terzo: mi rivedo piccola con un libro in mano, alla luce di una lampadina elettrica.
In una recente intervista, una domanda mi ha fatto ricordare due libri che allora mi avevano rapita: una raccolta di opere di Shakespeare (adattate per ragazzi) e una raccolta di saghe norrene (idem).
Ma ce n'è un terzo, che mi ha lasciato una profonda impressione: raccontava la vita delle formiche. Ogni formica che nasce, quale che sia la sua funzione (anche la regina costretta a partorire fino alla morte) è benvenuta all'Inferno. Non libera, assolutamente intercambiabile, non può far altro che lavorare. Le loro guerre (nere contro rosse) sono crudelissime e lasciano guerriere amputate sul campo.
Ma non è finita qui. Un particolare insetto, detto il pusher delle formiche, si installa in un formicaio. Secerne una sostanza che manda in estasi gli altri insetti. Le formiche lo nutrono e lo servono finché, drogate e indebolite, non muoiono. Il pusher allora le abbandona per andare in cerca di un nuovo formicaio.
Penso ora che il mondo in cui viviamo si sia ispirato ai formicai. I libri (e in seguito i film, le serie televisive), le evasioni da fatica e schiavitù perenni, sono le nostre droghe.
Con una differenza: noi non nutriamo e serviamo i produttori di queste droghe... perché anche loro sono formiche operaie.

venerdì 27 gennaio 2023

Babylon (2022)


Recensione di Andrea Carlo Cappi

"Se pensate che perlopiù i film siano brutti..." scriveva il grande romanziere noir Raymond Chandler nel 1948, dopo la sua scomoda esperienza come sceneggiatore a Hollywood, "vi basterà parlare con qualcuno dell'ambiente e scoprire come vengono fatti per stupirvi che ce ne sia anche qualcuno bello." In un certo senso, Babylon di Damien Chazelle estremizza questo concetto: ci presenta Hollywood nei suoi lati più fragili, problematici, decadenti od oscuri, ma al tempo stesso ne attesta la capacità di creare, nonostante tutto, universi che fanno sognare milioni di persone.
Babylon si svolge tra il 1926 e il 1932 (con una coda "vent'anni dopo"). Hollywood è già consolidata come centro dell'industria del cinema, un mondo assurdo in cui le apparenze vanno sempre mantenute, anche a costo di far sparire qualche cadavere. Ma due grandi cambiamenti sono in arrivo. Il primo è, nel 1927, il passaggio dal cinema muto al sonoro con tutte le sue conseguenze già inscenata nel 1952 in chiave di commedia musicale dal celebre Cantando sotto la pioggia (che nella finzione sarebbe stato ispirato proprio da alcuni episodi narrati in Babylon).
Il secondo cambiamento, sottinteso, è l'arrivo nel 1930 del Codice Hays, che proietta la sua ombra moralizzatrice non solo su quanto avviene sullo schermo, ma anche sulla vita privata dei divi... o perlomeno su ciò che di essa arriva sulla stampa, specie quando si tratta di relazioni omosessuali. E a queste regole se ne aggiungono altre di marca segregazionista: al cinema possono apparire musicisti neri che suonano insieme, purché siano tutti neri; le mixed bands non sono ammesse ed è un problema se un componente non sembra abbastanza nero (nella realtà accadde, per esempio, ad alcuni membri dell0orchestra di Duke Ellington).

Il protagonista Manuel "Manny" Torres, interpretato (in inglese con qualche battuta in spagnolo) da Diego Calva, è un immigrato che da assistente di produzione diviene dirigente di studio, un outsider che a tratti fa pensare al Nick Carraway de Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Dev'essere nato sotto la vergine con ascendente ariete, perché il suo destino è aggiustare situazioni che hanno ormai superato ampiamente la soglia del disastro ma, soprattutto, riuscire a trovare una soluzione per ogni problema.
Il cinismo che riesce ad acquisire non lo salva però dall'amore per la travolgente Nellie LeRoy ovvero Margot Robbie, come sempre perfetta in ruoli borderline, da Tonya Harding ad Harley Quinn; qui il suo personaggio, che ha molti tratti in comune con Marilyn Monroe, incarna ciò che Woody Allen in Mariti e mogli definì "donna kamikaze".
Il terzo comprimario è il divo plurisposato e semialcolizzato Jack Conrad (un impeccabile Brad Pitt). Tutti e tre vivono il sogno di Hollywood non solo come autoaffermazione, ma anche per far parte di qualcosa di più grande e duraturo.

Alcuni personaggi sono presi dalla Storia del Cinema, come il leggendario produttore Irving Thalberg (Max Minghella), che ispirò a Francis Scott Fitzgerald il romanzo Gli ultimi fuochi, da cui il film di Elia Kazan con Robert De Niro; a Thalberg, che qui non fa una splendida figura, è intitolato uno dei premi speciali della Notte degli Oscar. Altro personaggio reale è il gangster James McKay (un Tobey Maguire davvero inquietante) titolare del Cal-Neva, famigerato hotel-casinò sul confine tra California e Nevada che decenni dopo avrebbe portato alla dannazione anche Marilyn.
Il folle regista Otto Von Strassberger (Spike Jonze) è l'intuibile parodia di Erich Von Stroheim. La giornalista Elinor St. John (Jean Smart) richiama le celebri columnists Hedda Hopper, Elsa Maxwell o Louella Parsons ed è l'unica che abbia trovato il modo di restare sempre a galla; a lei viene affidato un monologo illuminante sul senso del cinema per chi lo fa. Ci sono poi il padre parassitario di Nellie (Eric Roberts), l'attrezzista-spacciatore The Count (Rory Scovel); la cabarettista Lady Fay Zhu (Li Jun Li) che per campare scrive le didascalie per il cinema muto... finché dura; e il jazzista Sidney Palmer (Jovan Adepo), uno dei pochi a cercare una via d'uscita dal caos, mentre altri continueranno a flirtare con l'autodistruzione.
Babylon passa dalla commedia all'umorismo nero al dramma, da momenti eleganti ad altri grotteschi o persino disgustosi; strizza l'occhio ai cinefili con riferimenti e citazioni, a partire dal titolo che richiama il libro Hollywood Babylon di Kenneth J. Anger sui veri o presunti scandali della Mecca del Cinema. Ma oltre a suggestioni da vecchi fatti di cronaca, vediamo replicare una gag di James Bond e l'incipit di Viale del tramonto, la danse macabre de Il settimo sigillo e l'elefante di Hollywood Party, fino ad autocitazioni dello stesso regista e persino allusioni ai personaggi di Brad Pitt e Margot Robbie nei film di Tarantino. Film su Hollywood che si nutre di film su Hollywood, in tre ore Babylon raggiunge proprio quello che certi critici prevenuti cercano di negare: la dimostrazione che, malgrado tutto quello che c'è dietro, il sogno del cinema perdura.

venerdì 20 gennaio 2023

Iperwriters - L'analisi del periodo

Photo: Nacho A on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 13 - L'analisi del periodo

Venerdì, ore 13.
Nel '79, come ho detto, comincia la mia navigazione nel mare della scrittura professionale, ovvero retribuita.
Ma a questo punto dovete concedermi un flash-back, anzi una serie di flash-back. Da dove viene un narratore/narratrice naturale alla fine degli anni '70, senza scuole di scrittura creativa, senza specifici corsi universitari e, soprattutto senza che nessuno gli/le abbia detto che si può essere scrittori/scrittrici?
Il mio primo ricordo di letteratitudine: sono alle elementari e il compito a casa è analisi del periodo. Una serie di frasi, forse una dozzina, o una quindicina, di cui individuare la proposizione principale, le coordinate e subordinate (causale, finale, temporale, consecutiva, modale, strumentale, concessiva). Non difficile. Svolgo il compito e vado ai giardini pubblici con mia madre, come ogni pomeriggio di primavera.
I giardini sono deserti. Niente compagni di classe con cui giocare, come al solito. Gioco da sola, un po' delusa.
In seguito saprò che tutti sono rimasti inchiodati a massacrarsi analizzando periodi per ore, talvolta senza venirne a capo, e che una delegazione di mamme avrebbe protestato con la maestra circa l'assegnazione di compiti talmente al di sopra delle normali capacità e forze infantili.
Scopro così che l'analisi del periodo, per me tanto leggera e divertente, era terribile.
Ma la mia maestra, che Dio la benedica, mi ha portata in prima media con un bagaglio di italiacano basico eppure completo, senza errori di sintassi, con un solo errore di ortografia (colossi con due elle, perché li volevo proprio colossali), e con l'analisi del periodo. Con la possibilità, cioè, di essere in futuro retribuita per comporre i miei modesti periodi.
Se negli anni '60 l'analisi del periodo era già oltre le umane possibilità, oggi viviamo nell'Era Illetterata Trionfante. Amici insegnanti o genitori di figli in età scolare mi dicono che i bambini non sanno più leggere e scrivere.
Fra quanti secoli, senza essere Manzoni o Marcel Proust, riavremo periodi di quattro, cinque righe sciolti, eleganti, di grande padronanza tecnica che muta in naturalezza?
Intanto non viene più pagata neppure una semplice proposizione principale. Tanto varrebbe che sparisse anche quella.

Iperwriters - Confessioni erotiche d'autrice

Photo: Karel VH on Unsplash Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori Letteratura italiacana - 45 - Confessioni erotiche d'autrice V...