lunedì 7 ottobre 2019

Joker contro Hollywood


Recensioni incrociate di Andrea Carlo Cappi

Ho la sensazione che, almeno in Italia, anche a seguito dell'uscita a distanza di poche settimane l'uno dall'altro, si stia creando una sorta di rivalità tra i due film americani più attesi di questa stagione. Sto parlando di C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino e Joker di Todd Phillips. Le due pellicole hanno senz'altro qualcosa in comune: il fatto di essere ambientate nel passato, rispettivamente la prima cinquant'anni fa (1969, quando il regista aveva sei anni); la seconda poco meno di quarant'anni fa (stando all'inquadratura di un cinema che proietta due film del 1981, quando il regista aveva undici anni). Entrambe traboccano di citazioni e allusioni, più o meno colte dagli spettatori. Tarantino prende a riferimento il mondo del cinema e un tragico fatto di cronaca di quell'epoca per realizzare... un film indubbiamente di Tarantino, quindi adorato o detestato come suo solito; Phillips parte invece da un personaggio dei fumetti per creare un film del tutto diverso dagli abituali cinecomics, vincendo persino il Leone d'Oro a Venezia.
Ebbene: a quale attore protagonista assegnerei un Oscar? Inevitabilmente a Joaquin Phoenix, a malincuore sottraendolo a Di Caprio (ma tanto lui ci è abituato). Quale film voterei come migliore? Senza esitazione, quello di Tarantino. Ora, sempre che vi interessi, vi spiego perché, con le mie recensioni incrociate. 


C'era una volta a... Hollywood è una visione nostalgica ma non troppo dell'impietosa macchina dell'intrattenimento made in USA di quegli anni. Del resto Raymond Chandler, che con gli studios aveva un rapporto conflittuale, scrisse che ci si lamenta della qualità dei film hollywoodiani, ma se si sapesse come vengono fatti ci si stupirebbe che ogni tanto ne esca uno buono.
Uno dei tre protagonisti di Tarantino, Rick Dalton (Leonardo di Caprio) è un attore sempre bisognoso di conferme, già sul viale del tramonto senza essere mai diventato una star, vicino di casa della coppia del momento, Polanski & Tate. La carriera di Dalton assomiglia molto a quella di Steve McQueen, ma non abbastanza: come Steve ha interpretato una serie western in tv nel ruolo di un cacciatore di taglie e avrebbe potuto essere al posto suo il protagonista de La grande fuga, ma non ha avuto fortuna. Ora gli vengono offerti solo ruoli occasionali da cattivo in tv, passando da una serie di telefilm all'altra; come sottolinea l'agente interpretato da Al Pacino, ormai l'unica possibilità che gli resta è andare in Italia a fare spaghetti western (ed eurospy). Ancor meno trionfale è il destino dell'altro protagonista maschile, Cliff Booth (Brad Pitt), l'insostituibile controfigura del primo, di cui è anche migliore amico, autista e confidente. L'esistenza dell'uno dipende da quella dell'altro.


La protagonista femminile è Sharon Tate, ricordata dalla Storia come vittima per caso del massacro di Cielo Drive e nota nelle cronache rosa più come moglie di Roman Polanski che come attrice di per sé: la poliedrica Margot Robbie le dà alla perfezione viso, corpo e piedi sporchi (non dimentichiamo le predilezioni feticiste del regista) mentre stenta a farsi riconoscere quando entra in un cinema che proietta il suo (vero) nuovo film, Missione compiuta, stop. Bacioni, Matt Helm, quarto episodio della serie spy-comedy con Dean Martin. Vediamo Sharon-Margot guardare sullo schermo la vera Sharon, quasi a rassicurare se stessa che è davvero un'attrice di belle speranze. Esattamente come il personaggio di Di Caprio si guarda con l'amico in tv in un episodio di The FBI, per convincersi di essere ancora qualcuno. 
In sostanza, a Hollywood (un po' come nell'editoria italiana, solo con meno soldi in gioco) vale la regola della Regina Rossa di Lewis Carroll: devi correre a più non posso per restare dove sei, se vuoi anche andare da qualche parte, devi correre almeno il doppio. 
Non mancano altri personaggi veri reinterpretati, come l'irrequieto Steve McQueen; un Bruce Lee, all'epoca co-star della serie tv The Green Hornet, che si dà arie per mascherare le proprie frustrazioni; l'attore-regista Sam Wanamaker che si concede alla televisione con velleità autoriali; Roman Polanski in versione mod; il parrucchiere Jay Sebring, in attesa che Sharon molli Polanski, se mai avverrà; Charles Manson con la sua inquietante comunità hippie (nella quale ha ampio risalto Maya Hawke nel ruolo di Linda Casabian) e il vecchio Spahn, proprietario dell'ex-set cinematografico che li ospita.


Se la faccia dell'interprete di Spahn, Bruce Dern, così come quelle di Kurt Russell o di Michael Madsen, è già automaticamente un'autocitazione, Tarantino non lesina i riferimenti alla tv di quegli anni (Mannix, The FBI, L'uomo dell'UNCLE e molte altre serie, persino Batman, mescolata a una criptocitazione musicale di James Bond), ma anche al cinema di genere italiano: questa forse è la parte più criptica per chi non sia un lettore di Nocturno o un frequentatore di Bloodbuster. Si racconta di registi italiani (veri) che dirigono l'attore americano e il suo stuntman di fiducia (immaginari). Senza contare che tutto questo e il titolo strizzano l'occhio ai film di Sergio Leone, sopra una colonna sonora come al solito ricchissima che spazia dai successi dell'epoca alle sigle tv. Finzione che si mescola alla realtà e la riplasma. 
Ma la chiave di tutto è la sceneggiatura, che dà agli attori principali, soprattutto a Di Caprio, ampio spazio di recitazione e fa a pezzi il mito pseudosatanico di Charles Manson. Certo, c'è qualche lungaggine, come la crisi dell'attore sul set del pilot di una nuova serie western (che si immagina diretto da Wanamaker) in cui gli tocca il ruolo di cattivo, contrapposto a un insulso attore emergente. Questo peraltro è il vero momento da candidatura all'Oscar per Di Caprio. Gli spettatori di Tarantino sono abituati a qualche lentezza e stanno al gioco. Ma l'essenza del film è che per tutto il tempo non si sa mai che cosa aspettarsi e le sorprese non mancano. 


Per contro, l'esaltatissimo Joker si basa, oltre che su un'altra perfetta messa in scena d'epoca, un'impeccabile fotografia e una trovata geniale di scrittura: il diario su cui il protagonista, clown su commissione e aspirante cabarettista, annota battute tragiche e memorabili, quali I hope my death makes more cents than my life. Ma soprattutto si regge sulle spalle smagrite e gli intensi primi piani di un titanico Joquin Phoenix. Se il film raggiunge vette di grandezza, il merito è essenzialmente suo. Perché, mi spiace dirlo, la sceneggiatura è quanto di più prevedibile possa capitare in un film. 
L'idea di raccontare per il nemico storico di Batman un'origin story diversa da quella che abbiamo visto nel film di Tim Burton con il Joker di Jack Nicholson (liberamente basata su albi datati 1951) proviene a grandi linee da una rilettura di Alan Moore nella graphic novel The Killing Joke (1988) in cui si apprende che, prima di finire durante un'azione criminale nell'impianto chimico che segnerà per sempre il suo aspetto, Joker era un comico fallito. Questo film cancella la parte dell'incidente ed esalta invece la tragicità del personaggio.


Al povero protagonista sono capitate e capitano più sventure che a un personaggio di Dostojevskij che venisse portato sullo schermo da Ingmar Bergman negli anni Settanta: la madre malata da accudire, che gli nasconde segreti imbarazzanti; un trauma nell'infanzia che gli ha lasciato problemi psichiatrici, in particolare una risata incontrollabile nei momenti di forte tensione; il taglio dei servizi psichiatrici pubblici, che non gli garantisce più i sette farmaci da cui dipende il suo instabile equilibrio; la perdita del posto di lavoro come clown conseguente alla sua instabilità mentale; i difficili rapporti con le donne; le botte ricevute da delinquentelli da strada nell'esercizio delle sue finzioni e quelle ricevute in metrò da un branco di yuppie molestatori di ragazze. Un clown che avrebbe portato alla depressione persino Fellini.
Il tutto in una Gotham City decadente, minata da tensioni generalizzate e scoppi di violenza gratuita, da uno sciopero della nettezza urbana e da politici inaffidabili. Tra costoro si fa largo l'imprenditore di successo Thomas Wayne, aspirante sindaco e sedicente salvatore della città malgrado i commenti sprezzanti nelle interviste televisive (qualsiasi somiglianza con Donald Trump non dev'essere puramente casuale).
Insomma, il povero Arthur Fleck – soprannominato Joker (nel senso spregiativo di buffone) dalla strafottente star televisiva Murray Franklin interpretata da un sempre eccezionale Robert De Niro – ha così tante sfortune da essere più un caso umano rifiutato da una società crudele imperniata sul successo a tutti i costi, che un criminale creativo e imprevidibile. 
Nulla contro la revisione del personaggio. Nondimeno, quando ci dovesse capitare di rivedere Batman che prende a pugni Joker, a fare la figura dello stronzo sarebbe proprio il Cavaliere Oscuro. Che oltretutto qui vediamo ancora in veste di ragazzino ricco, con intorno un padre stronzo, una madre altezzosa e un maggiordomo antipatico, ben diverso da Michael Caine o Jeremy Irons.
Oltretutto le prime vittime di Joker sono stronzi pure loro, oggetto più che altro di un eccesso di legittima difesa. E il gesto assume un imprevisto valore politico, trasformando la sua faccia da clown in un simbolo per tutti quelli che Thomas Wayne definisce i “pagliacci”, nel senso di “falliti”, di Gotham. Fino a scatenare senza volerlo una vera e propria rivolta urbana. Joker dunque come eroe rivoluzionario al pari dell'epico V di Alan Moore in V for Vendetta? Non stiamo esagerando, compagni? Ringraziate il cielo che il senatore McCarthy è sottoterra da un bel po'. 
Non c'è da stupirsi che il film ottenga un certo gradimento sul piano intellettuale. Nessun elemento lo avvicina all'attuale cinema dei supereroi DC o Marvel, detestabili per definizione in quanto prodotti di puro intrattenimento ed effetti speciali. E che, dice Scorsese a proposito di quelli Marvel, non sarebbero cinema. La denuncia sociale, così evidente da farti dire “D'accordo, ho capito, ma la trama vi siete ricordati di scriverla?”, è tirata in lungo come altrove sono stati protratti all'eccesso gli sganassoni volanti tra Superman e i suoi avversari. Ma la storia, in sostanza, riserva ben poche sorprese, almeno per chi è del mestiere: avviene puntualmente tutto ciò che ci si aspetta che avvenga, solo con più lentezza del necessario. 
Quindi che cosa rende imperdibile questo film, contrariamente a quanto ho detto finora? La capacità dell'attore protagonista, in scena senza interruzione, di rendere appieno la tragicità del personaggio. Con i suoi numeri di danza stralunata, con le sue illusioni, i momenti grandiosi e le spaventose cadute. That's life, è la canzone ricorrente, that's what the people say/ Riding high in april, shot down in may/ but I'm sure they're gonna change their tune/ 'cause I'm back on top, back on top in june! Ma soprattutto risalta la tragica risata patologica di Joker, oggetto di veri e propri monologhi giocati su sghignazzo irrefrenabile, pausa, rantolo sommesso, sofferenza allo stato puro che gli si legge negli occhi. Un'interpretazione memorabile, da Actor's Studio, misurata nella sua esagerazione; ben diversa da quella delirante di Jared Leto in Suicide Squad, meno comico-grottesca di quella di Jack Nicholson (per non parlare di Cesar Romero nei bizzarri telefilm camp anni Sessanta citati da Tarantino), superiore persino alla faccia sporca del Joker di Heath Ledger in The Dark Knight


Con il film di Tarantino, come dicevo, rimane tuttavia qualcosa in comune: le lungaggini e soprattutto il citazionismo militante. Rivediamo una scena che ci ricorda un flashback di Batman vs Superman. La sala cinematografica che in altre versioni proiettava il classico The Mask of Zorro (ispirazione per la doppia identità di Batman/Bruce Wayne) qui propone invece Zorro mezzo e mezzo (Zorro the Gay Blade, una parodia di Peter Medak con George Hamilton) in doppio spettacolo con Blow Out di Brian De Palma. Citazione di citazioni.
In tv passa un vecchio film di Fred Astaire, Voglio danzare con te, con un coro nero (su una canzone di Gershwin) che oggi potrebbe sembrare razzista mentre all'epoca insegnava ai bianchi un certo tipo di musica. In un cinema di lusso si proietta per un pubblico di ricchi Tempi moderni, di cui Arthur Fleck vede di straforo la scena dei pattini, in cui Charles Chaplin univa in modo brillante comicità e suspense. E ci sono persino evidenti rimandi a due film con De Niro di Martin Scorsese, inizialmente co-produttore di Joker, poi uscito dal progetto. Si riconoscono Taxi Driver (il monologo Are you talking to me?) e Re per una notte (il rapporto tra lo stand-up comedian di successo, con tanto di suo programma tv, e l'aspirante cabarettista fallito). Inoltre, se ci fate caso, la sequenza finale richiama il surrealismo dei cartoni animati della Warner, casa di produzione di Joker
Dobbiamo dire quindi che Joker batte Hollywood almeno sul piano del messaggio? Be', fate caso a un aspetto importante e trascurato del film di Tarantino: tutti, ma proprio tutti, sono incollati agli schermi tv. Persino i ragazzi presuntamente ribelli della Manson Family sono tossicodipendenti (anche) da telefilm confezionati in serie dall'industria hollywoodiana. Oppio dei popoli. Come mi ha fatto notare la mia fidanzata – che apprezza tanto i film impegnati quanto i cinecomics e, dopo che le ho fatto scoprire Fast and Furious, è diventata fan di Dwayne Johnson – non è forse quanto avviene tuttora, non solo con Netflix ma anche con telefonini e computer? Non siamo tutti appiccicati a un fottuto schermo, dando più importanza a quello che avviene là dentro, invece che fuori? Non è forse, ehm, anche quello che voi e io stiamo facendo in questo momento?
Per quanto mi riguarda, aspetto il prossimo febbraio di rivedere la follia catartica di Margot Robbie nel ruolo di Harley Quinn in Birds of Prey.


giovedì 8 agosto 2019

Quando l'uomo fa il mestiere del diavolo



Intervista di Gigi Montero ad Andrea Carlo Cappi
(Da "Cronaca vera", 23/7/2019)


Nella stessa estate in cui l'uomo mise piede sulla Luna e 400.000 giovani si radunarono al Woodstock Festival, la notte tra l'8 e il 9 agosto 1969 Bel Air, quartiere di lusso di Los Angeles, fu teatro di un orribile massacro: l'assassinio dell'attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, incinta di otto mesi, e di altre quattro persone nella villa in Cielo Drive 10050. Polanski scampò alla strage perché in quei giorni era in Inghilterra a preparare un nuovo film, che abbandonò per tornare negli USA appena ebbe la notizia.
La brutalità degli omicidi, le scritte tracciate col sangue sulle pareti e il fatto che l'anno prima il regista avesse avuto successo con un horror demoniaco, “Rosemary's Baby”, fecero pensare all'orrido rito di una setta satanica.
La sera del 10 agosto furono commessi altri omicidi analoghi: i coniugi La Bianca vennero trucidati nella loro casa in Waverly Drive 3301. Il diavolo si era scatenato a Los Angeles? La soluzione fu molto diversa, ma non meno spaventosa. 
Cinquant'anni dopo, i delitti di Bel Air del 1969 sono rievocati sia nel film di Quentin Tarantino “C'era una volta... a Hollywood”, sia nel romanzo “Martin Mystère – Il mestiere del diavolo” di Andrea Carlo Cappi, ora in edicola da Sergio Bonelli Editore.


Cosa c'entra il diavolo in questa storia? 
Nulla, anche se uno degli assassini di Sharon Tate, Tex Watson, dichiarò di fare “il mestiere del diavolo” e il loro mandante Charles Manson fu soprannominato “Satana” dalla stampa. La verità è che Manson si credeva un nuovo Gesù Cristo, pur essendo solo un pregiudicato che aveva raccolto intorno a sé un gruppo di giovani sbandati, “The Family”. Vivevano di droga e furti d'auto, in un ranch un tempo usato per girare western. 

Spahn, Ranch, già set cinematografico e rifugio di Manson nel 1969

Com'è passato agli omicidi? 
Voleva diventare una rockstar. Aveva convinto ad aiutarlo Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys, il quale incise una sua canzone e gli presentò un discografico, ma questi rifiutò di produrgli un album. Nel frattempo Manson ascoltava canzoni dei Beatles sotto l'effetto della droga, interpretandole come un invito a scatenare l'Apocalisse. In quegli anni di tensioni razziali, decise di assassinare ricchi bianchi incolpando attivisti neri, fino a provocare una guerra civile. Lui dava gli ordini e i suoi adepti, molti dei quali ragazze, diventavano angeli della morte. Aveva scelto la villa affittata dai Polanski in Cielo Drive perché fino a qualche mese prima ci abitava il discografico che lo aveva respinto. Scoperto e condannato, Manson morì ancora detenuto nel 2017. 

Charles Manson (rielaborazione di A. C. Cappi). Benché non abbia partecipato materialmente ai delitti, è divenuto una figura mediatica del Male, citata per mezzo secolo da artisti di ogni tipo.

Nel libro si racconta anche un altro caso, molto simile. 
Nel 1914 il celebre architetto americano Frank Lloyd Wright viveva in una proprietà nel Wisconsin, Taliesin, con il suo staff e la compagna Martha "Mamah" Borthwick. Il 15 agosto, mentre Wright era a Chicago per lavoro, il loro domestico Julian Carlton massacrò a colpi di scure la donna e i suoi due bambini, quindi diede fuoco alla casa: fece in tutto sette vittime, per poi avvelenarsi e morire dopo lunga agonia. Nessuno sa cos'abbia scatenato la sua furia. Nel romanzo immagino un collegamento tra le stragi di Taliesin e Bel Air. Martin Mystère, il “detective dell'impossibile” deve impedire che accada di nuovo. 


I romanzi con Martin Mystère, il personaggio nato nel 1982 nei fumetti di Alfredo Castelli, stanno avendo molto successo.
Con gli ultimi due, anch'essi usciti in edicola e ora in vendita online su shop.sergiobonelli.it, ho vinto il Premio Italia per il miglior romanzo fantasy italiano del 2017 e il Premio Atlantide per la miglior storia di Martin Mystère del 2018. Spero che "Il mestiere del diavolo" risulti altrettanto gradito ai lettori. 




martedì 11 giugno 2019

Lo sguardo abissale di Enrico Luceri


Recensione di Andrea Carlo Cappi

La celebre frase di Nietzsche sullo sguardo – ricambiato – sull'abisso è sempre attuale nella mente di chi scrive horror. Specie quando non lavora sui mostri per così dire tradizionali (dai lupi mannari ai morti viventi nelle loro varie forme) ma si occupa del lato più spaventoso dell'essere umano, di cui i predatori della letteratura gotica sono solo una metafora.
In principio, il fenomeno del serial killer nei libri e sullo schermo non fece che ricondurre alla vita quotidiana la paura atavica dell'Uomo Nero; dopo trent'anni di inflazione di serial killer nella fiction, anche loro sono diventati, al pari dei vecchi mostri della Universal, una variante dei supereroi e dei supercriminali; il che va benissimo, fintanto che le storie sono efficaci. Ma "Lo sguardo dell'abisso" di Enrico Luceri (Edizioni DrawUp, 202 pagine, 14,00 euro) ci riporta alle radici della paura e del terrore. Le radici del male, per citare un titolo di una maestra del genere, Alda Teodorani. 
I due personaggi principali sono una scrittrice horror di successo – solitaria, timida, ma a suo modo affascinante – e una sua giovane lettrice che tira a campare come apprendista reporter di provincia ma sogna di diventarne un giorno l'erede. Come possono donne dall'aspetto così gentile risvegliare nei lettori angosce sopite, nascoste, eppure sconfinate? È una domanda che ricorre anche nella realtà, ogni volta che ci si trova di fronte a una scrittrice di storie del terrore: ricordo che fu questo il commento del romanziere spagnolo Pedro Casals, dopo che ebbe incontrato Cristiana Astori. 
Tuttavia bisogna stare attenti a ciò che si sogna: ispirazione e immaginazione, terrore fittizio o presente, sono così vicini da confondersi. Basta poco perché la cronaca sconfini nell'incubo, qualche indizio porti a orrori occulti, un ambiente idilliaco all'improvviso si presenti atroce. In questo romanzo – sulla cui trama vi sto tenendo volutamente all'oscuro – Luceri ci porta a spasso proprio sull'orlo del precipizio, permettendoci di osservare il mondo attraverso gli occhi di chi riesce a vedere quanto di più terribile si possa annidare nella normalità. E, in tutto questo, scoprire anche i segreti più oscuri e inconfessabili del meccanismo creativo.
Così le vicende narrate nell'ultimo successo della grande scrittrice e quelle che potrebbero diventare il prossimo libro dell'esordiente si scontrano con vari livelli di realtà, con il presente, il passato e l'altra faccia del sogno, fino a farci domandare chi davvero stia guardando chi e cosa riconosca in ciò che vede.

"Lo sguardo dell'abisso" di Enrico Luceri sarà presentato a EDU Milano 2019, venerdì 14 giugno dalle 18.30, presso Garage Moulinski, via Pacinotti 4, Milano.

venerdì 5 aprile 2019

Aperitivo con Biagio Proietti




Giovedì 11 aprile, 18.30, Milano, Ribs and Beer, v. Pitteri 110 (ingresso libero), aperitivo con Biagio Proietti, la leggenda della tv; presentazione di "Biagio Proietti-Un visionario felice" di Mario Gerosa, con A.C. Cappi, S. Di Marino, E. Luceri (Ed. Il Foglio). Sono presenti Biagio Proietti e tutti gli autori. Conduce A. C. Cappi

mercoledì 13 marzo 2019

Scusi, dov'è il western?


Dossier di Andrea Carlo Cappi

Borderfiction presenta in collaborazione con Bloodbuster un nuovo aperitivo "Ribs & Books", stavolta dedicato al western, giovedì 14 marzo 2019 dalle 18 alle 20 a Milano, presso l'adattissimo Ribs and Beer (via Riccardo Pitteri 110, ingresso libero). L'appuntamento è condotto da Andrea Carlo Cappi. Motore dell'incontro sono il nuovissimo romanzo western "Gunfighter" di Stefano Di Marino (Dbooks), il dizionario dello spaghetti western "Matalo!" di Silvio Giobbio (Bloodbuster) e la "Guida al cinema western" di Michele Tetro con Stefano Di Marino (Odoya). Con l'occasione riproponiamo in versione leggermente aggiornata questo dossier pubblicato sullo storico numero intitolato "Nero West" di "M-Rivista del Mistero" del 2008.

Cos'è il western?

Che cosa si intende per “western”? Come aggettivo, in inglese, significa innanzitutto “occidentale”, ma come genere narrativo definisce le vicende ambientate nel Wild West, l'Ovest Selvaggio, la frontiera non ancora regolamentata dalle leggi del governo, la terra degli indiani e dei bisonti, dei cowboy e delle mandrie. Per il cinema americano, che ne ha diffuso il mito nel mondo, i temi dominanti sono la conquista e la colonizzazione delle regioni centrale e occidentale degli Stati Uniti d'America, le guerre contro gli indiani (che solo oggi, dopo essere stati in buona parte sterminati, sono stati in modo politicamente corretto ribattezzati Native Americans) e il mantenimento della legge nelle zone conquistate.
Le storie western sono ambientate essenzialmente nell'Ottocento, quando il dominio dei tredici stati fondatori, allineati sulla Costa Est, comincia a estendersi verso ovest, confinando gli inglesi in Canada, acquistando territori dalla Francia napoleonica e dalla Spagna e occupando con la forza le terre delle tribù indiane. I territori spagnoli del Southwest e della California sono lungamente contesi all'imperatore del Messico, a partire dal Texas, teatro nel 1836 dell'assedio di Fort Alamo in cui perde la vita Davy Crockett. Tra il 1861 e il 1865 il paese è sconvolto dalla Guerra di Secessione: gli stati confederati del sud, la cui economia è legata alla raccolta del cotone e conseguentemente allo schiavismo, si staccano dagli stati industrializzati del nord, l'Unione, fino alla vittoria di quest'ultima, a prezzo di seicentomila vite umane.
E qui ha inizio la fase finale, ma anche la più leggendaria, della storia del West, con l'ultima fase delle “guerre indiane” culminate con la battaglia di Little Big Horn (1876), in cui muore il generale George Armstrong Custer. Uno degli artefici di questa temporanea vittoria dell'alleanza lakota-cheyenne è il sioux-lakota Toro Seduto, che verrà ucciso dalla polizia durante in tentativo di arresto nel 1890, lo stesso anno del massacro dei lakota da parte dell'esercito a Wounded Knee, ultimo atto di quello che è stato definito “olocausto americano”.


Toro Seduto resta nella memoria come uno dei più leggendari capi indiani – al pari dell'apache Geronimo e del lakota Cavallo Pazzo – ma questo non gli ha impedito di guadagnare qualche dollaro esibendosi negli spettacoli dell'ex militare ed ex cacciatore di bisonti Buffalo Bill, così come altre celebrità del West quali l'ex sceriffo Wild Bill Hickok, che sarà ucciso a tradimento a Deadwood (Black Hills, territorio del Dakota) nel 1876, e la pistolera Calamity Jane, che verrà sepolta accanto a lui nel 1903. Nel 1890 il Wild West Show di Buffalo Bill arriva anche in Italia, dove tuttavia i cowboy americani perdono una clamorosa sfida nella doma dei cavalli contro i butteri dell'Agro Pontino.
Questo è appunto il periodo mitico dei più famosi uomini di legge: dal già citato Wild Bill a Tom Horn, affiliato all'agenzia investigativa Pinkerton, a Wyatt Earp e Doc Holliday, protagonisti della sfida all'OK Corral a Tombstone, Arizona (1881). Ed è anche quello dei più famosi fuorilegge, come Billy the Kid, ucciso dallo sceriffo Pat Garrett a Fort Sumner, New Mexico, nel 1881; Jesse James, ucciso a tradimento a St. Joseph, Missouri, nel 1882; e Butch Cassidy, fondatore del Mucchio Selvaggio, attivo in tutto il West fino al 1900, quando, braccato dalla Pinkerton, fugge in Sud America dove morirà otto anni dopo. La storia finirebbe dunque con l'arrivo del XX secolo.


Ancor più della letteratura, a partire dal 1903 con The Great Train Robbery di Siegmund Lubin, è Hollywood a trasfigurare il West trasformandolo in una terra mitica, consolidando la convenzione degli “indiani cattivi” che sarà smentita solo dal western revisionista degli anni Settanta, e rendendo familiari al pubblico di tutto il mondo i territori, gli eroi (veri o presunti) e i fuorilegge.
In sostanza, grazie a Hollywood, che trasforma il cinema in un'industria e in un mezzo di comunicazione di massa a livello globale, esiste un mito letterario-cinematografico del West, mentre non c'è un'epopea equivalente per il periodo delle guerre napoleoniche o per il Risorgimento italiano.
Tuttavia la visione USA-centrica del western è smentita dalla stessa Hollywood, che si ricorda della colonizzazione spagnola della California portando sullo schermo già dal 1920 le avventure di Zorro, il giustiziere mascherato creato nel 1918 dallo scrittore pulp Johnston McCulley, ambientate nel tardo Settecento.
Ma a rigor di logica, se il punto di riferimento è la colonizzazione dei territori a ovest della East Coast, dovremmo risalire ancora addirittura al Seicento, il secolo della principessa indiana Pocahontas e de La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Nel frattempo, il western ha esteso i suoi confini al Canada e al Messico, spostando il suo limite cronologico alla rivoluzione di Villa e Zapata, ossia agli anni Venti del Novecento.


Il western non esiste?


Ho dedicato spazio a una sommaria definizione storico-geografica del western per poter formulare la mia teoria: il western, come genere, è solo una convenzione. Potremmo dire che il western non esiste: in realtà non è che un contenitore di altri generi cui viene attribuita solo una precisa ambientazione.
Se ci facciamo caso, tutte le storie che rientrano nel genere western possono essere ricondotte ad altri generi. Diventano “western” perché collocate in quei precisi limiti cronologici e geografici. Libri e film sulle guerre indiane non sono altro che vicende storico-belliche. I racconti di viaggio delle carovane in territori ostili non sono altro che storie di avventura che potrebbero essere ambientate tra gli antichi romani o su un altro pianeta. I fortini circondati dagli indiani si rifanno a un modello decisamente arcaico: l'assedio di Troia nell'Iliade. Le vicende di banditi e tutori della legge sono analoghe al noir e alla gangster story.
Pensiamo a quanto noir si avverte in film come Un dollaro d'onore di Howard Hawks, Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens (a cui si è rifatto Jeffery Deaver nella sua trilogia dedicata al location scout hollywoodiano John Pellam) e Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinneman – quest'ultimo ha avuto anche una sorta di remake fantascientifico in Atmosfera zero di Peter Hyams. Pensiamo a Sentieri selvaggi di John Ford, che riprende il tema della ricerca dalla tradizione medioevale. Pensiamo a La maschera di fango di André de Toth, una vera e propria spy-story ambientata durante la Guerra civile. C'è persino una versione western della parte conclusiva dell'Odissea, Il ritorno di Ringo di Duccio Tessari.
Uno dei più grandi registi western è Akira Kurosawa, che non ha mai ambientato una storia nel West. Eppure tre suoi film hanno avuto remake western più o meno ufficiali: I sette samurai è diventato I magnifici sette di John Sturges, Rashomon (di cui “M-Rivista del Mistero” ha proposto recentemente i racconti originali) è diventato L'oltraggio di Martin Ritt, Yojimbo - La sfida del samurai ha dato origine a Per un pugno di dollari di Sergio Leone e a un successivo remake spostato all'epoca del Proibizionismo, Ancora vivo di Walter Hill... e va osservato che, secondo Sergio Leone (e non a torto), Kurosawa aveva tratto ispirazione dal romanzo noir Piombo e sangue di Dashiell Hammett, scritto e ambientato negli anni Venti.
Verrebbe allora da dire che il western non esista come genere: è solo uno scenario storico-geografico in cui possono essere impiantate storie di qualsiasi provenienza.
Eppure il western non dipende solo da questo: Via col vento e Il buono, il brutto, il cattivo sono ambientati nello stesso paese e nella stessa epoca, ma il primo non è un western mentre il secondo sì.
Allora potremmo dire che il western esiste e che si perpetua anche al di fuori dei suoi confini: tanto La notte dei morti viventi di George A. Romero quanto La casa del diavolo di Rob Zombie sono western. Questo perché le convenzioni, lo stile, le situazioni maturate nell'ambito della letteratura e del cinema western sono diventate così peculiari da essere associate a un genere, caratterizzandolo a posteriori.


Il western esiste!

A pensarci bene, ci sono parecchi elementi che rendono il western un genere propriamente detto. Per cominciare gli spazi e le distanze, caratteristiche proprio del continente americano. È vero che ad Almeria, in Spagna, si trovano panorami molto simili a quelli del West, che hanno consentito la nascita di un cinema western europeo, ma solo grazie all'illusione dello schermo: la loro estensione non è paragonabile a quella degli scenari originali. L'Europa può soltanto simularli.
Quando lo spazio è così grande, si pensa anche più in grande: in uno dei racconti che presentiamo in questo numero si parla del trasferimento delle mandrie di quattro ranch, per un totale di dodicimila capi di bestiame che devono attraversare le praterie in direzione nord. Difficile immaginare uno spostamento di tali proporzioni in un'altra parte del mondo.
Ma non c'è solo questo: l'occupazione delle terre dell'ovest genera un nuovo ordine sociale. La land of opportunity garantisce le migliori occasioni a coloro che hanno pochi scrupoli e lauti guadagni a chi non ha nulla da perdere. Perciò la frontiera diviene una terra senza legge in cui chiunque può portare una pistola, consuetudine tuttora in vigore in molte aree, negli Stati Uniti con tutti i problemi che ne derivano. Anche la gestione della legge è spesso sommaria e risolta con frettolose impiccagioni che possono costare ore di sofferenza al condannato prima che la morte sopraggiunga (si pensi al film Impiccalo più in alto di Ted Post, il primo prodotto e interpretato da Clint Eastwood dopo il periodo degli spaghetti western).
È il territorio ideale per la genesi di cavalieri solitari e disillusi, che dal western americano poi trasmigrano nell'hardboiled, e di antieroi cinici, infami e violenti, che contraddistinguono lo spaghetti-western per poi ripresentarsi non solo nel criminal-poliziottesco italiano, ma anche nel noir americano anni Settanta: non è un caso che due icone come l'ispettore Callaghan e il giustiziere della notte siano interpretate rispettivamente da Clint Eastwood e Charles Bronson, passati attraverso l'esperienza “spaghetti” prima di rientrare nel western americano e da qui passare al noir.
Lo stesso linguaggio visivo del western fa scuola: per cominciare gli spazi aperti di John Ford, che evocano grandi silenzi e viaggi per deserti e praterie, fondamento del cinema on the road; i duelli alla pistola che, a differenza di quelli alla spada, sono costituiti da minuti di tensione che sfociano in un istante di violenza, seguito dall'attesa di capire chi dei due contendenti abbia avuto la peggio; e i grandi showdown a colpi di arma da fuoco, in cui spesso c'è un eroe solitario che fronteggia più avversari.
Il western europeo, che nasce come imitazione a basso costo di quello americano, ne prende a prestito gli aspetti più noir, esasperandone la violenza, ma trova presto una propria identità che, paradossalmente, sarà poi imitata dagli americani. La musica (come non citare Ennio Morricone?), i personaggi picareschi, persino in qualche caso i contenuti politici si sposano ai primissimi piani, all'ironia, alla dilatazione della tensione attraverso lunghe sequenze in cui non accade nulla ma sta per accadere di tutto. Compiuto questo percorso, il western è diventato definitivamente un modo di raccontare più che un genere.


Che fine ha fatto il western?

Il western è stato dato molte volte per morto. Dopo la seconda guerra mondiale le piccole case cinematografiche della “Poverty Row” di Hollywood, quellle che producevano western a basso costom dovettero chiudere i battenti. Ma il western passò alle majors e, ben presto, alla televisione. Ne fecero le spese il western letterario e i pulp magazines a esso dedicati.
Negli anni Sessanta gli spaghetti-western gli diedero nuova vita, preludendo al western americano post-'68. Poi il western è tramontato: Balla coi lupi è stata forse l'ultima pellicola del genere ad avere un grande successo di pubblico e una messe di Oscar. Oggi i nuovi western al cinema e in televisione sono fenomeni occasionali, anche se non passano inosservati, come il remake di Quel treno per Yuma (da un racconto di Elmore Leonard), L'assassinio di Jesse James, o la serie televisiva Deadwood.
Eppure il linguaggio western è rimasto. Ci sono echi western nell'horror, a partire da George A. Romero, con il “fortino” degli umani attorniati da zombi. John Carpenter ha trasferito il western di assedio, riletto alla “luce” degli zombi di Romero, nella metropoli di Distretto 13 - Le brigate della morte e nella fantascienza con Fantasmi da Marte – per non parlare delle atmosfere western di Vampires.
C'è sapore di spaghetti western in certe sparatorie di John Woo come in molte scene di Kill Bill di Quentin Tarantino (che poi girerà due "veri" western: Django Unchained e The Hateful Eight). Lo si ritrova dichiaratamente nelle trilogie del Mariachi (di fatto uno straniero senza nome alla Clint Eastwood) e di Dal tramonto all'alba (ancora assedio e sparatorie, stavolta con i vampiri) di Robert Rodriguez. E riappare quasi spudoratamente in salsa di soia nel western nipponico Sukiyaki Western Django (con l'inevitabile Tarantino come guest star tra gli interpreti) di Takashi Miike. Senza contare le ormai frequenti commistioni tra western e horror.
Come dire che il western benché sbattuto a calci fuori dal saloon, è rientrato dalla finestra fracassando il vetro. E le schegge si sono conficcate un po' dappertutto... tranne che da noi.
Eppure in Italia abbiamo un esempio dell'inossidabilità del western: i fumetti di Tex sono nati dai testi di Gianluigi Bonelli e dai disegni di Aurelio Galleppini come primo grande esempio di western made in Italy, diventando un primo laboratorio sperimentale sulla contaminazione tra generi, con occasionali inserimenti persino di fantastico-esoterico. Ancora oggi, dopo settant'anni, Tex è uno dei fumetti più letti nel nostro paese.
Eppure in campo cinematografico-televisivo, salvo eccezioni illustri, il paese che ha rinnovato completamente il genere nel breve periodo tra il 1964 e il 1968 per molti anni ha espresso quasi soltanto fiction buoniste in cui mancavano il sano cinismo e la cruda espressività del caro vecchio spaghetti western. Salvo poi saltare senza mezzi termini a violente storie gangsteristiche. Forse un po' di ripasso ci farebbe bene.




sabato 9 marzo 2019

Godzilla: l'alba dei Grandi Mostri - 3, il re dei mostri


Riscoperta di Andrea Carlo Cappi

Sull'onda del successo, a quel tempo solo giapponese, del primo Gojira, la Toho realizza nel 1955 un nuovo film di cui la regia, causa altri impegni di Ishiro Honda, viene affidata a Motoyoshi Oda. Il titolo originale è Gojira no Gyakushū, qualcosa di simile a "Gojira alla riscossa". In Italia è noto come Il re dei mostri, ma non va confuso con la versione americana della pellicola precedente, conosciuta come Godzilla, il re dei mostri.
Protagonisti stavolta sono Tsukhioka e Kobayashi due piloti di idrovolante che seguono dall'alto le rotte di banchi di tonni per conto di una compagnia di Osaka; il primo è il fidanzato della figlia del proprietario, il secondo ha speranze su una ragazza che, con l'altra, tiene i contatti radio con i piloti. Quando Kobayashi, per un guasto, è costretto a un ammaraggio di emergenza nei pressi dell'isola di Iwato, Tsukioka va a recuperarlo. I due assistono sbalorditi a un combattimento tra mostri: un secondo Gojira e una sorta di enorme anchilosauro. 
La notizia viene discussa a Tokyo, l'unica scena in cui appaia un personaggio del film precedente, il professor Yamane. Stando al testo di un paleontologo polacco di nome Hondon che lo battezzò Angiras, il nuovo mostro sarebbe vissuto alla stessa epoca di Gojira, contendendogli il primato. Le due bestie, entrambe sotto l'influsso delle radiazioni, sono nuovamente in competizione e si avvicinano pericolosamente a Osaka. 


Yamane sa che non esiste più l'Oxygen Destroyer usato con successo in precedenza, quindi ora nulla potrà fermare la creatura. Quando Gojira è avvistato al largo della città, grazie all'esperienza dell'attacco a Tokyo, viene attuato un piano di sicurezza: Osaka è messa in completo blackout e il mostro è attirato lontano dalla costa mediante razzi.
Ma accade un imprevisto: un gruppo di detenuti in trasferimento tenta di evadere dal cellulare che li sta trasportando. Alcuni di loro riescono a fuggire rubando un'autocisterna, che nella fuga si ribalta ed esplode nella zona del porto. Gojira vede l'incendio e si avvicina, subito raggiunto da Angiras. L'inevitabile scontro che devasta la città si conclude con la vittoria del primo, che dopo avere ridotto l'avversario in fin di vita lo brucia con l'alito atomico. 
Osaka è da ricostruire, la compagnia trasferisce l'attività negli uffici di Hokkaido e l'aviazione deve fare i conti con Gojira, precettando anche Tsukioka e Kobayashi. Arriva l'inverno e il mostro superstite viene localizzato su un'isola innevata e intrappolato in una gola, dove l'aviazione – a prezzo della vita di numerosi piloti – riesce a provocare una serie di valanghe tale da seppellirlo. Beninteso, fino al film successivo del 1962.
Per allora la Toho avrà trasformato il ciclo in una serie destinata più che altro a un pubblico infantile, in cui appaiono altre creature gigantesche, tra cui come alleati o avversari ricorrono Rodan, Mothra, Ghidorah e un King Kong apocrifo: gli elementi che ora vengono recuperati nel cosiddetto Monsterverse realizzato su licenza della Toho dalla Warner Bros a partire dal Godzilla del 2014. 


A rendere noto il filone negli Stati Uniti e, di riflesso, nel mondo è un'operazione singolare della RKO, che nel 1956 acquisisce i diritti di Gojira (ribattendolo Godzilla) ma decide di americanizzarlo. A questo scopo vengono tagliate varie scene, spesso cancellando notazioni sociali e umane, e il regista Terry Morse ne gira altre interpretate da Raymond Burr, l'attore all'epoca celebre per la serie tv Perry Mason, facendone una sorta di protagonista-narratore nei panni del giornalista Steve Martin.


Il film viene rimontato, aprendosi sulle scene di devastazione di Tokyo mentre il giornalista, emerso ferito dalle macerie, racconta quanto è accaduto negli ultimi giorni. Burr appare circondato da attori e figuranti nipponici, fingendo di trovarsi nei luoghi in cui si muovono i personaggi; interagisce con alcuni di loro, controfigure con indosso gli stessi abiti degli attori del film originale ma inquadrate di spalle; in un caso sono utilizzati ritagli di primi piani di Emiko, mentre il doppiaggio altera le battute, simulando che parli con il giornalista.
L'altezza di Godzilla viene dichiarata di 150 metri; mentre il trilobite viene descritto come three-winged worm ("verme dai tre lobi", anche se si tratta di un artropode), il che dà adito a un'ancor più clamorosa svista sulla parola wing (che vuol dire soprattutto "ala") nella versione italiana, in cui è definito un serpente alato. Non meno sorprendente è il fatto che il sempre cupo e tormentato Serizawa sia invece giovale e di ottimo umore quando la sua controfigura risponde a una telefonata dell'amico giornalista. Alla fine Martin assiste all'atto finale, assicurando gli spettatori che la minaccia è stata sventata. 


Questa è la versione che, intitolata Godzilla, King of the Monsters, viene distribuita nel mondo (anche, paradossalmente, in Giappone, sottotitolata) e che farà sì che Gojira diventi famoso come Godzilla. E che darà origine a un'ulteriore versione quando nel 1976 il regista italiano Luigi Cozzi ne farà un ulteriore rimontaggio, realizzandone una versione a colori nota tra gli appassionati come Cozzilla
Anche il film successivo è fortemente rimaneggiato per il pubblico americano, diventando Gigantis, the Fire Monster; solo più avanti se ne riscopre la versione Toho, che diventerà Godzilla Raids Again. In Italia ne è arrivata nel 1957 invece la versione con il montaggio originale giapponese, con il titolo Il re dei mostri, in cui nel doppiaggio si mantiene il nome Godzilla. 
Nel 2003 sul mercato italiano viene distribuito da Cecchi Gori/Yamato Video il doppio dvd Godzilla/Godzilla, il re dei mostri, contenente il primo film giapponese sottotitolato e il primo film americano sia con il sonoro inglese sia con il doppiaggio d'epoca. Nel 2018 è uscito in dvd da Sinister Film Il re dei mostri, un'edizione di ottima qualità con le tracce giapponese e italiana, anche qui con il doppiaggio d'epoca. Ulteriore curiosità: nel 2004, per i cinquant'anni della prima pellicola, ne è uscita su cd la colonna sonora originale di Akira Ifukube con alcuni brani inediti. Trovata, come Il re dei mostri, in una visita all'inimitabile Bloodbuster.



giovedì 7 marzo 2019

"Diabolik sono io": tra documentario e thriller


Annotazioni di Andrea Carlo Cappi


A quasi cinquantasette anni dalla nascita editoriale e a oltre mezzo secolo dalla pellicola che gli dedicò Mario Bava, Diabolik torna finalmente al cinema, ora e nel 2020. In attesa del film in lavorazione dei Manetti Bros, previsto per il prossimo anno, dall'undici al tredici marzo 2019 in duecentonovanta sale italiane si proietta Diabolik sono io. Scritto da Mario Gomboli (direttore dell'Astorina, la casa editrice di Diabolik) e da Giancarlo Soldi che ne è il regista, con le musiche di Teho Teardo, viene definito "docufilm", perché è qualcosa di diverso da un documentario convenzionale. E il titolo non è, s'intende, scelto a caso.
Ci sono due frasi essenziali nella vita di Diabolik, il personaggio dei fumetti di Angela e Luciana Giussani. La prima è "Diabolik, chi sei?", pronunciata dall'ispettore Ginko nell'albo che la porta come titolo e in cui il criminale rievoca ciò che sa delle proprie origini. L'altra è "Io sono Diabolik", che oltre a essere il titolo di una "autobiografia" del personaggio edita da Mondadori qualche anno fa, rappresenta un aspetto molto significativo: Diabolik, a differenza degli altri personaggi mascherati del fumetto (eroi e criminali che siano) non ha una vera identità da celare sotto la maschera. Non conosce il proprio nome, non sa chi siano i suoi genitori, né da dove venga. Diabolik ergo sum: la sua unica identità è quella che si è costruito da solo, con il nome che si è scelto; e la sua unica famiglia è costituita da Eva Kant.
Io invece so che, se cito i nomi di Diabolik, Eva Kant e Ginko, moltissimi in Italia - e anche altri in giro il mondo - sanno chi siano anche senza aver letto le loro avventure. Per riciclare una mia vecchia battuta, è il fenomeno del "fumetto passivo": Diabolik e i suoi comprimari sono parte della cultura popolare italiana, al punto da essere noti pure a chi non ha mai preso in mano un albo della serie.


Di documentari ben fatti su Diabolik ce ne sono già stati, ma ci sono ancora molte cose da scoprire. Una di queste l'ha ritrovata Giancarlo Soldi nelle teche RAI: una divertente intervista inedita alle sorelle Giussani che parlano del loro personaggio mentre bevono il tè, brani della quale punteggiano la parte non-fiction del film. Ci sono poi contributi realizzati appositamente, con Mario Gomboli e altri sceneggiatori storici di Diabolik quali Alfredo Castelli (creatore a sua volta di serie famose come Gli Aristocratici, L'Ombra e Martin Mystère) e Tito Faraci; e ancora si vedono il disegnatore Giuseppe Palumbo, il leggendario Milo Manara, due collaboratrici della redazione, esperti come il grande fumettologo Gianni Bono, il costumista Massimo Cantini Parrini, un paio di scrittori che hanno avuto a che fare con Diabolik (Carlo Lucarelli, che anni fa lavorò a un progetto di sceneggiatura cinematografica, e me, autore dei romanzi di Diabolik & Eva Kant). Ma la finzione si fa strada anche nella parte documentaristica, quando nei panni di un avvocato appare l'attrice Stefania Casini.
Perché questo film è anche una sorta di thriller basato su un vero mistero: che fine ha fatto Angelo Zarcone, il primo disegnatore di Diabolik, l'uomo che diede un volto al personaggio? Dopo avere consegnato le tavole del numero uno, scomparve per sempre senza lasciare traccia. E se riapparisse dopo tutto questo tempo, ipotizza Gomboli all'inizio del film, chi troverebbe? Se stesso o Diabolik?
Così la vicenda si dipana intorno al ritorno nella società di un uomo che soffre di amnesia e il cui volto assomiglia molto a quello di Diabolik (Luciano Scarpa). In mente lo smemorato ha proprio quel nome, Diabolik, e quegli occhi che spuntano da una maschera, immagine che si trova a disegnare ossessivamente. Seguendo gli indizi ricavati da Internet con l'aiuto di una ragazza che somiglia a Eva Kant (Claudia Stecher) il protagonista arriverà a una conclusione sorprendente.
Diabolik sono io si sviluppa su tre piani narrativi: quello delle interviste, quello della ricerca da parte dello smemorato e quello di un misterioso interrogatorio a cui il protagonista viene sottoposto. Ne risulta una storia dai contorni onirici in cui realtà e fantasia si confondono e persino i personaggi reali parlano di Diabolik come se esistesse veramente. Una formula molto originale per raccontare un mito che nei primi anni Sessanta, per citare la canzone Esci, Diabolik di Canciani & Covri, "cambia il fumetto e cambia l'Italia". 

Lunedì 11 marzo all'Arcadia di Melzo (Milano) Andrea Carlo Cappi alle 19.30 firmerà le copie dei suoi romanzi di Diabolik presso il Mondadori Bookstore e alle 20.30 sarà in sala a introdurre la proiezione.


Iperwriters - Superman non muore mai

Photo: Rinson Chory on Unsplash I perwriters - Editoriale di Claudia  Salvatori Letteratura italiacana - 58 - Superman non muore mai Venerdì...