Recensioni incrociate di Andrea Carlo Cappi
Ho la sensazione che, almeno in Italia, anche a seguito dell'uscita a distanza di poche settimane l'uno dall'altro, si stia creando una sorta di rivalità tra i due film americani più attesi di questa stagione. Sto parlando di C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino e Joker di Todd Phillips. Le due pellicole hanno senz'altro qualcosa in comune: il fatto di essere ambientate nel passato, rispettivamente la prima cinquant'anni fa (1969, quando il regista aveva sei anni); la seconda poco meno di quarant'anni fa (stando all'inquadratura di un cinema che proietta due film del 1981, quando il regista aveva undici anni). Entrambe traboccano di citazioni e allusioni, più o meno colte dagli spettatori. Tarantino prende a riferimento il mondo del cinema e un tragico fatto di cronaca di quell'epoca per realizzare... un film indubbiamente di Tarantino, quindi adorato o detestato come suo solito; Phillips parte invece da un personaggio dei fumetti per creare un film del tutto diverso dagli abituali cinecomics, vincendo persino il Leone d'Oro a Venezia.
Ebbene: a quale attore protagonista assegnerei un Oscar? Inevitabilmente a Joaquin Phoenix, a malincuore sottraendolo a Di Caprio (ma tanto lui ci è abituato). Quale film voterei come migliore? Senza esitazione, quello di Tarantino. Ora, sempre che vi interessi, vi spiego perché, con le mie recensioni incrociate.
C'era una volta a... Hollywood è una visione nostalgica ma non troppo dell'impietosa macchina dell'intrattenimento made in USA di quegli anni. Del resto Raymond Chandler, che con gli studios aveva un rapporto conflittuale, scrisse che ci si lamenta della qualità dei film hollywoodiani, ma se si sapesse come vengono fatti ci si stupirebbe che ogni tanto ne esca uno buono.
Uno dei tre protagonisti di Tarantino, Rick Dalton (Leonardo di Caprio) è un attore sempre bisognoso di conferme, già sul viale del tramonto senza essere mai diventato una star, vicino di casa della coppia del momento, Polanski & Tate. La carriera di Dalton assomiglia molto a quella di Steve McQueen, ma non abbastanza: come Steve ha interpretato una serie western in tv nel ruolo di un cacciatore di taglie e avrebbe potuto essere al posto suo il protagonista de La grande fuga, ma non ha avuto fortuna. Ora gli vengono offerti solo ruoli occasionali da cattivo in tv, passando da una serie di telefilm all'altra; come sottolinea l'agente interpretato da Al Pacino, ormai l'unica possibilità che gli resta è andare in Italia a fare spaghetti western (ed eurospy). Ancor meno trionfale è il destino dell'altro protagonista maschile, Cliff Booth (Brad Pitt), l'insostituibile controfigura del primo, di cui è anche migliore amico, autista e confidente. L'esistenza dell'uno dipende da quella dell'altro.
La protagonista femminile è Sharon Tate, ricordata dalla Storia come vittima per caso del massacro di Cielo Drive e nota nelle cronache rosa più come moglie di Roman Polanski che come attrice di per sé: la poliedrica Margot Robbie le dà alla perfezione viso, corpo e piedi sporchi (non dimentichiamo le predilezioni feticiste del regista) mentre stenta a farsi riconoscere quando entra in un cinema che proietta il suo (vero) nuovo film, Missione compiuta, stop. Bacioni, Matt Helm, quarto episodio della serie spy-comedy con Dean Martin. Vediamo Sharon-Margot guardare sullo schermo la vera Sharon, quasi a rassicurare se stessa che è davvero un'attrice di belle speranze. Esattamente come il personaggio di Di Caprio si guarda con l'amico in tv in un episodio di The FBI, per convincersi di essere ancora qualcuno.
In sostanza, a Hollywood (un po' come nell'editoria italiana, solo con meno soldi in gioco) vale la regola della Regina Rossa di Lewis Carroll: devi correre a più non posso per restare dove sei, se vuoi anche andare da qualche parte, devi correre almeno il doppio.
Non mancano altri personaggi veri reinterpretati, come l'irrequieto Steve McQueen; un Bruce Lee, all'epoca co-star della serie tv The Green Hornet, che si dà arie per mascherare le proprie frustrazioni; l'attore-regista Sam Wanamaker che si concede alla televisione con velleità autoriali; Roman Polanski in versione mod; il parrucchiere Jay Sebring, in attesa che Sharon molli Polanski, se mai avverrà; Charles Manson con la sua inquietante comunità hippie (nella quale ha ampio risalto Maya Hawke nel ruolo di Linda Casabian) e il vecchio Spahn, proprietario dell'ex-set cinematografico che li ospita.
Se la faccia dell'interprete di Spahn, Bruce Dern, così come quelle di Kurt Russell o di Michael Madsen, è già automaticamente un'autocitazione, Tarantino non lesina i riferimenti alla tv di quegli anni (Mannix, The FBI, L'uomo dell'UNCLE e molte altre serie, persino Batman, mescolata a una criptocitazione musicale di James Bond), ma anche al cinema di genere italiano: questa forse è la parte più criptica per chi non sia un lettore di Nocturno o un frequentatore di Bloodbuster. Si racconta di registi italiani (veri) che dirigono l'attore americano e il suo stuntman di fiducia (immaginari). Senza contare che tutto questo e il titolo strizzano l'occhio ai film di Sergio Leone, sopra una colonna sonora come al solito ricchissima che spazia dai successi dell'epoca alle sigle tv. Finzione che si mescola alla realtà e la riplasma.
Ma la chiave di tutto è la sceneggiatura, che dà agli attori principali, soprattutto a Di Caprio, ampio spazio di recitazione e fa a pezzi il mito pseudosatanico di Charles Manson. Certo, c'è qualche lungaggine, come la crisi dell'attore sul set del pilot di una nuova serie western (che si immagina diretto da Wanamaker) in cui gli tocca il ruolo di cattivo, contrapposto a un insulso attore emergente. Questo peraltro è il vero momento da candidatura all'Oscar per Di Caprio. Gli spettatori di Tarantino sono abituati a qualche lentezza e stanno al gioco. Ma l'essenza del film è che per tutto il tempo non si sa mai che cosa aspettarsi e le sorprese non mancano.
Per contro, l'esaltatissimo Joker si basa, oltre che su un'altra perfetta messa in scena d'epoca, un'impeccabile fotografia e una trovata geniale di scrittura: il diario su cui il protagonista, clown su commissione e aspirante cabarettista, annota battute tragiche e memorabili, quali I hope my death makes more cents than my life. Ma soprattutto si regge sulle spalle smagrite e gli intensi primi piani di un titanico Joquin Phoenix. Se il film raggiunge vette di grandezza, il merito è essenzialmente suo. Perché, mi spiace dirlo, la sceneggiatura è quanto di più prevedibile possa capitare in un film.
L'idea di raccontare per il nemico storico di Batman un'origin story diversa da quella che abbiamo visto nel film di Tim Burton con il Joker di Jack Nicholson (liberamente basata su albi datati 1951) proviene a grandi linee da una rilettura di Alan Moore nella graphic novel The Killing Joke (1988) in cui si apprende che, prima di finire durante un'azione criminale nell'impianto chimico che segnerà per sempre il suo aspetto, Joker era un comico fallito. Questo film cancella la parte dell'incidente ed esalta invece la tragicità del personaggio.
Al povero protagonista sono capitate e capitano più sventure che a un personaggio di Dostojevskij che venisse portato sullo schermo da Ingmar Bergman negli anni Settanta: la madre malata da accudire, che gli nasconde segreti imbarazzanti; un trauma nell'infanzia che gli ha lasciato problemi psichiatrici, in particolare una risata incontrollabile nei momenti di forte tensione; il taglio dei servizi psichiatrici pubblici, che non gli garantisce più i sette farmaci da cui dipende il suo instabile equilibrio; la perdita del posto di lavoro come clown conseguente alla sua instabilità mentale; i difficili rapporti con le donne; le botte ricevute da delinquentelli da strada nell'esercizio delle sue finzioni e quelle ricevute in metrò da un branco di yuppie molestatori di ragazze. Un clown che avrebbe portato alla depressione persino Fellini.
Il tutto in una Gotham City decadente, minata da tensioni generalizzate e scoppi di violenza gratuita, da uno sciopero della nettezza urbana e da politici inaffidabili. Tra costoro si fa largo l'imprenditore di successo Thomas Wayne, aspirante sindaco e sedicente salvatore della città malgrado i commenti sprezzanti nelle interviste televisive (qualsiasi somiglianza con Donald Trump non dev'essere puramente casuale).
Insomma, il povero Arthur Fleck – soprannominato Joker (nel senso spregiativo di buffone) dalla strafottente star televisiva Murray Franklin interpretata da un sempre eccezionale Robert De Niro – ha così tante sfortune da essere più un caso umano rifiutato da una società crudele imperniata sul successo a tutti i costi, che un criminale creativo e imprevidibile.
Nulla contro la revisione del personaggio. Nondimeno, quando ci dovesse capitare di rivedere Batman che prende a pugni Joker, a fare la figura dello stronzo sarebbe proprio il Cavaliere Oscuro. Che oltretutto qui vediamo ancora in veste di ragazzino ricco, con intorno un padre stronzo, una madre altezzosa e un maggiordomo antipatico, ben diverso da Michael Caine o Jeremy Irons.
Oltretutto le prime vittime di Joker sono stronzi pure loro, oggetto più che altro di un eccesso di legittima difesa. E il gesto assume un imprevisto valore politico, trasformando la sua faccia da clown in un simbolo per tutti quelli che Thomas Wayne definisce i “pagliacci”, nel senso di “falliti”, di Gotham. Fino a scatenare senza volerlo una vera e propria rivolta urbana. Joker dunque come eroe rivoluzionario al pari dell'epico V di Alan Moore in V for Vendetta? Non stiamo esagerando, compagni? Ringraziate il cielo che il senatore McCarthy è sottoterra da un bel po'.
Non c'è da stupirsi che il film ottenga un certo gradimento sul piano intellettuale. Nessun elemento lo avvicina all'attuale cinema dei supereroi DC o Marvel, detestabili per definizione in quanto prodotti di puro intrattenimento ed effetti speciali. E che, dice Scorsese a proposito di quelli Marvel, non sarebbero cinema. La denuncia sociale, così evidente da farti dire “D'accordo, ho capito, ma la trama vi siete ricordati di scriverla?”, è tirata in lungo come altrove sono stati protratti all'eccesso gli sganassoni volanti tra Superman e i suoi avversari. Ma la storia, in sostanza, riserva ben poche sorprese, almeno per chi è del mestiere: avviene puntualmente tutto ciò che ci si aspetta che avvenga, solo con più lentezza del necessario.
Quindi che cosa rende imperdibile questo film, contrariamente a quanto ho detto finora? La capacità dell'attore protagonista, in scena senza interruzione, di rendere appieno la tragicità del personaggio. Con i suoi numeri di danza stralunata, con le sue illusioni, i momenti grandiosi e le spaventose cadute. That's life, è la canzone ricorrente, that's what the people say/ Riding high in april, shot down in may/ but I'm sure they're gonna change their tune/ 'cause I'm back on top, back on top in june! Ma soprattutto risalta la tragica risata patologica di Joker, oggetto di veri e propri monologhi giocati su sghignazzo irrefrenabile, pausa, rantolo sommesso, sofferenza allo stato puro che gli si legge negli occhi. Un'interpretazione memorabile, da Actor's Studio, misurata nella sua esagerazione; ben diversa da quella delirante di Jared Leto in Suicide Squad, meno comico-grottesca di quella di Jack Nicholson (per non parlare di Cesar Romero nei bizzarri telefilm camp anni Sessanta citati da Tarantino), superiore persino alla faccia sporca del Joker di Heath Ledger in The Dark Knight.
Con il film di Tarantino, come dicevo, rimane tuttavia qualcosa in comune: le lungaggini e soprattutto il citazionismo militante. Rivediamo una scena che ci ricorda un flashback di Batman vs Superman. La sala cinematografica che in altre versioni proiettava il classico The Mask of Zorro (ispirazione per la doppia identità di Batman/Bruce Wayne) qui propone invece Zorro mezzo e mezzo (Zorro the Gay Blade, una parodia di Peter Medak con George Hamilton) in doppio spettacolo con Blow Out di Brian De Palma. Citazione di citazioni.
In tv passa un vecchio film di Fred Astaire, Voglio danzare con te, con un coro nero (su una canzone di Gershwin) che oggi potrebbe sembrare razzista mentre all'epoca insegnava ai bianchi un certo tipo di musica. In un cinema di lusso si proietta per un pubblico di ricchi Tempi moderni, di cui Arthur Fleck vede di straforo la scena dei pattini, in cui Charles Chaplin univa in modo brillante comicità e suspense. E ci sono persino evidenti rimandi a due film con De Niro di Martin Scorsese, inizialmente co-produttore di Joker, poi uscito dal progetto. Si riconoscono Taxi Driver (il monologo Are you talking to me?) e Re per una notte (il rapporto tra lo stand-up comedian di successo, con tanto di suo programma tv, e l'aspirante cabarettista fallito). Inoltre, se ci fate caso, la sequenza finale richiama il surrealismo dei cartoni animati della Warner, casa di produzione di Joker.
Dobbiamo dire quindi che Joker batte Hollywood almeno sul piano del messaggio? Be', fate caso a un aspetto importante e trascurato del film di Tarantino: tutti, ma proprio tutti, sono incollati agli schermi tv. Persino i ragazzi presuntamente ribelli della Manson Family sono tossicodipendenti (anche) da telefilm confezionati in serie dall'industria hollywoodiana. Oppio dei popoli. Come mi ha fatto notare la mia fidanzata – che apprezza tanto i film impegnati quanto i cinecomics e, dopo che le ho fatto scoprire Fast and Furious, è diventata fan di Dwayne Johnson – non è forse quanto avviene tuttora, non solo con Netflix ma anche con telefonini e computer? Non siamo tutti appiccicati a un fottuto schermo, dando più importanza a quello che avviene là dentro, invece che fuori? Non è forse, ehm, anche quello che voi e io stiamo facendo in questo momento?
Per quanto mi riguarda, aspetto il prossimo febbraio di rivedere la follia catartica di Margot Robbie nel ruolo di Harley Quinn in Birds of Prey.