Da una dozzina di anni c'è
qualcosa di nuovo nel mondo di Mission: Impossible, qualcosa
che ha permesso che il fenomeno non si limitasse a un successo
isolato del film del 1996 e al sequel del 2000. È nato un
rapporto di consequenzialità tra una storia e l'altra, di cui
ora vengono raccolti i frutti. Fallout (2018), ancora di più
di quanto avvenuto nei due film precedenti, riavvicina il concetto
della serie a quella vista in televisione, equilibrano meglio
l'elemento spionistico con la componente di azione, peraltro sempre
notevolmente spettacolare.
I telefilm originali erano nati
sull'onda del successo cinematografico di James Bond e si erano
conclusi nel periodo in cui, con lo scandalo Watergate, cominciarono
a venire alla luce i giochi sporchi reali dei servizi segreti
americani. La ripresa anni Ottanta, in minima parte influenzata dalla
moda dei film d'azione dell'era reaganiana, fu dovuta a circostanze
particolari: uno sciopero degli sceneggiatori americani, che indusse
i produttori al recupero di materiale preesistente, usato o non usato
che fosse, per girarlo a basso costo in Australia.
In realtà la Paramount
Pictures aveva in programma di realizzarne una versione
cinematografica, vista anche la ripresa di 007 con GoldenEye
(1995) dopo sei anni di interruzione e un rinato interesse verso lo
spy movie. Il rilancio di M.I. si rese possibile
tuttavia solo dopo l'entrata in gioco Tom Cruise, con la compagnia di
produzione da questi condivisa con Paula Wagner. Il che,
naturalmente, avrebbe comportato il suo controllo assoluto su
collaboratori e prodotto finito, a costo di discutere sullo script,
sulla colonna sonora e sulla regia, affidata a Brian De Palma. In
cambio, l'attore consegnò alla Paramount un film costato meno
del budget previsto, in cui aveva realizzato personalmente la maggior
parte degli stunt.
I puristi della serie non
apprezzarono né la gestione del personaggio classico di Jim
Phelps, né il fatto che l'azione spettacolare, come si è
detto, prevalesse sulle trame di “gioco
mentale”
(come acutamente le definì Martin Landau) che avevano
caratterizzato la serie tv. Ma, dopo M:I-2 – che ho già
citato come un film quasi interamente affidato al talento registico
di John Woo oltre che alle acrobazie di Tom Cruise, più che a
una vera costruzione narrativa – e sei anni di intervallo, ha
inizio la gestione di J. J. Abrams, già creatore di Alias e
Lost, l'uomo che in breve tempo si trova in mano anche i destini
di Star Trek e Star Wars, quindi tre gloriosi
franchising degli anni Sessanta-Settanta.
Nel 2006 esce M.I.-III,
diretto dallo stesso Abrams, che introduce per la prima volta nella
serie il concetto di continuity anziché episodi
isolati. Il film non è ancora perfetto come costruzione e
anche come dettagli: dubito, per esempio, che Maggie Q potrebbe mai
entrare in Vaticano con un vestito con tutti quegli spacchi, ma è
noto che gli sceneggiatori americani a certe cose non fanno troppo
caso. Tuttavia la storia si fa più personale, dal momento che
l'indistruttibile Ethan Hunt si sposa con Julia (Michelle Monaghan) e
acquisisce una grave vulnerabilità nell'affrontare il perfido
Owen Davian (Philip Seymour Hoffman). La moglie diventa la sua
kryptonite e, come vedremo negli episodi successivi, il matrimonio
andrà a rotoli.
Nel successivo Protocollo
Fantasma (2011) si configura una nuova squadra: oltre al fidato
tech-guy Luther Stickell (Ving Rhames, unica spalla presente
in tutti i film), appaiono Benji Dunn (Simon Pegg, tech-guy
più imbranato) e William Brandt (Jeremy Renner), oltre a Jane
Carter (una splendida Paula Patton, l'unica che purtroppo non si sia
più rivista). L'agente Hunt si trova di nuovo esautorato, ma
stavolta insieme a lui lo è l'intera IMF, accusata di un atto
di terrorismo a Mosca; laddove il vero responsabile è un
fisico nucleare deciso a scatenare una guerra nucleare “controllata”,
per riequilibrare il mondo. Scopriamo anche come sia finito il
matrimonio tra Ethan e Julia e abbiamo l'annuncio di chi sarà
il nemico successivo, un'organizzazione sovrannazionale chiamata il
Sindacato.
È
quella che troviamo in Rogue Nation, in cui apprendiamo che
l'agente MI6 britannico Solomon Lane (Sean Harris) ha preso un po'
troppo sul serio i suoi giochi di guerra – come a suo tempo i
cattivi de I tre giorni del Condor – e si dedica alla
destabilizzazione mondiale. Facciamo anche la conoscenza di Ilsa
Faust – un nome, un programma – anche lei agente dell'MI6
(interpretata dall'affascinante Rebecca Ferguson) nel pieno di doppi
e tripli giochi. Lavora per Lane? Lavora per l'MI6? Oppure ha altri
obiettivi? Alla fine Lane viene catturato, ma, come suggerisce
l'inconscio di Ethan all'inizio di Fallout, forse è
stato un errore lasciarlo in vita.
Il nuovo
film infatti ci rivela che il Sindacato non è morto, ma si è
evoluto in una nuova organizzazione chiamata gli Apostoli, gestita da
un fantomatico John Lark, che ha tra i propri obiettivi quello di
liberare Solomon Lane. Ed è di certo l'obiettivo meno
disastroso, dal momento che quando Ethan, insieme ai compagni Luther
e Benji, cerca di intercettare tre nuclei di plutonio nel corso di
una compravendita; ma li perde per proteggere i suoi compagni Luther
e Benji. Così il Sindacato potrà fabbricare altrettante
bombe nucleari da far detonare a piacimento (sì, come McGuffin
non è una novità). Oltretutto anche stavolta Ethan
viene sospettato di essere un traditore (pure questa non è
cosa nuova), per la precisione John Lark in persona.
A
funzionare nel film sono lo svolgimento della trama e il fatto che
tutto ciò che avviene è motivato da una logica basata
sui cinque film precedenti e dai nodi al pettine della continuity.
L'agente Hunt è sospettato proprio perché in passato
questo è già avvenuto più volte e la direttrice
della CIA (Angela Bassett) inserisce nella squadra IMF il proprio
agente August Walker (Henry Cavill, molto più duro rispetto al
suo Superman e al Napoleon Solo di Operazione UNCLE). La
missione è delicata: fallito il tentativo di catturare il vero
John Lark, Hunt si vede costretto a fare il doppio gioco,
infiltrandosi nel gruppo di mercenari che a Parigi si appresta a
liberare Solomon Lane. Ma non ci si può fidare di nessuno,
nemmeno dei presunti alleati: ognuno sembra avere una propria agenda,
che non coincide necessariamente con quella dell'IMF.
Come
dicevo, nodi al pettine. Dal secondo film, tra le caratteristiche
ricorrenti del protagonista viene inserita la sua passione per
scalate e acrobazie aeree, che non mancano in questo episodio. In
Protocollo Fantasma si era colta una strizzatina d'occhio al
primo film quando è riapparso il Contatto (Andrea Wisniewski)
che, come nel 1996 porgeva a Ethan un cappuccio prima di condurlo a
un incontro segreto; qui c'è un nuovo personaggio, la Vedova
Bianca (Vanessa Kirby), che scopriamo essere figlia
dell'intermediaria Max (Vanessa Redgrave) vista nel primo film e fare
più o meno lo stesso tipo di mestiere. In Rogue Nation
l'analista Brandt (assente in Fallout) è tornato a
lavorare a Washington DC fianco a fianco con il Segretario Alan
Hunley (Alec Baldwin) che ritroviamo in questo film. Così come
ritroviamo Ilsa Faust, sulla quale ancora gravano sospetti di doppio
gioco dall'episodio precedente; e Julia, l'ex-moglie di Hunt, che sta
cercando di rifarsi una vita e si ritrova invece coinvolta in prima
persona nell'operazione.
Dopo un
bell'intrigo gestito bene, si può accettare che la parte
finale del film consista nella classica corsa contro il tempo per fermare
l'apocalisse atomica nel Kashmir. Anche perché condita da un
efficace colpo di scena e incentrata su uno spettacolare duello tra
elicotteri, cui segue una scena d'azione in un crepaccio, del tipo
«tutto va storto nel modo peggiore peggior momento possibile».
Basti dire che, per una volta, persino l'inossidabile agente Hunt
avrà bisogno di cure ospedaliere.
Un altro buon lavoro di
Christopher McQuarrie, sceneggiatore e regista che, oltre a dirigere
il precedente episodio, ha collaborato più volte e in varie vesti con Tom
Cruise negli ultimi anni.