martedì 28 agosto 2018

Mission: Impossible - Dalle origini a Fallout - 1




Percorso di Andrea Carlo Cappi

Cominciamo da una riflessione musicale. Fatti i conti, nel 2018 sono ben cinquantadue anni che si sente risuonare quel tema, composto nel 1966 da Lalo Schifrin, nato a Buenos Aires nel 1932 ma cittadino americano del 1969, noto soprattutto per le sue innumerevoli colonne sonore per cinema e televisione. E, ancora di più, conosciuto per la sigla iniziale di Mission: Impossible, destinata fin da subito a una fama pari a quella del James Bond Theme di Monty Norman e del Pink Panther Theme di Henry Mancini, per restare nell’ambito di quello stesso decennio.
A dire il vero, in origine il brano dei titoli di testa dei telefilm avrebbe dovuto essere diverso. Ma Bruce Geller, creatore di Mission: Impossible, non era convinto e suggerì al compositore di rielaborare un altro dei temi scritti per l’episodio pilota. Nel 2010 lo spot pubblicitario di una nota marca di tè immaginò Schifrin che ne sorseggiava una tazza mentre scriveva una partitura... con musicisti e strumenti di un’orchestra immaginaria che comparivano e sparivano a seconda di correzioni e ripensamenti, fino a quando il brano si configurava come quello ormai famosissimo di Mission: Impossible.


Per tradizione gli episodi dei telefilm storici si aprivano con il tipico trillo sopra l'inquadratura di una mano che dà fuoco a una miccia; la fiammella scorreva orizzontalmente sopra un montaggio rapidissimo di scene del particolare episodio (il che comportava realizzare una sigla parzialmente diversa ogni settimana) prima di passare alla presentazione del cast e all'apparizione del titolo della serie sulle note finali.
Dal 1966 il title theme della serie (insieme a un altro brano, intitolato The Plot) ha accompagnato le sette stagioni di Mission: Impossible (fino al 1974), le due stagioni di una successiva ripresa (dal 1988 al 1990) e i sei film dal 1996 a oggi. E non solo: il gruppo rock King Crimson lo rielaborò in un passaggio di 21st Century Schizoid Man del 1969, mentre il regista spagnolo Alex De La Iglesia lo prese in prestito per una scena del suo film fantasatirico Azione mutante (1993). Ormai da una ventina d'anni lo ritroviamo anche nelle suonerie dei cellulari.

Musica a parte, la Mission: Impossible televisiva era piuttosto diversa da quella di oggi, pur avendo creato fin dal principio uno schema narrativo originale nell’ambito della spy story, all’epoca del massimo splendore del filone, ovvero gli anni Sessanta. L'impossibile del titolo consisteva, per una squadra di agenti statunitensi, nel concepire e attuare una strategia in cui – mediante infiltrazione tra gli avversari, espedienti tecnologici, disinformazione e apparenti doppi giochi – si creasse uno scenario tanto opportuno quanto falso, che traeva in inganno gli avversari. Che si trattasse di organizzazioni spionistiche o criminali, l'obiettivo era di condurle all'autodistruzione o di portare alla luce segreti di importanza vitale che non sarebbero mai stati rivelati in circostanze normali.
Dal primo episodio della serie cinematografica (1996), invece, l’impossibile è rappresentato principalmente dalla capacità dell’attuale protagonista Ethan Hunt (Tom Cruise) di sopravvivere a imprese acrobatiche e prove fisiche che ucciderebbero chiunque altro, nell’arco di due ore e più di azione pressoché ininterrotta. La chiave di tutto è divenuta la spettacolarità. In un certo senso, il film peggiore sul piano della sceneggiatura è anche quello più apprezzato sul piano estetico, vale a dire M.I.-2, diretto nel 2000 da John Woo, il grande regista di Hong Kong. La trama è ridotta all'osso e l'unico guizzo di originalità è, purtroppo, identico a uno dei colpi di scena del preesistente romanzo James Bond 007 – Obiettivo Decada (1998) di Raymond Benson; vuoi perché certe idee sono nell'aria (a volte capita che autori diversi scrivano qualcosa di molto simile, ignari l'uno del lavoro dell'altro) vuoi perché è stato copiato di sana pianta.
Ai vecchi tempi le sequenze d’azione erano molto più contenute, anche per la necessità di girare in tempi rapidi gli episodi settimanali, e la durata di ciascun episodio si limitava a quarantacinque minuti, con l’eccezione di un paio di storie divise in due puntate, in seguito rimontate sotto forma di film da novanta minuti: Mission Impossible versus The Mob (1968) e Il serpente d’oro (1989). Ma, curioso a dirsi, il contenuto di trama di un episodio tv era pari o superiore a quello di un attuale film da due ore e oltre.


Una curiosità: Mission: Impossible era inizialmente prodotta dalla Desilu, la casa indipendente di proprietà della coppia di attori Lucille Ball-Desi Arnaz (interpreti negli anni Cinquanta della sit-com I Love Lucy, di enorme successo negli USA), che nello stesso periodo lanciò un'altra serie di culto, Star Trek. Nel 1967 venne acquisita dalla Gulf+Western Company, proprietaria della Paramount Pictures, che la trasformò nella Paramount Television e continuò a realizzare entrambe le serie sotto il nuovo marchio.
Sia nella gestione Desilu, sia in quella Paramount, diversi interpreti di Star Trek apparvero in episodi di Mission: Impossible, a partire da George Takei (il signor Sulu dell'Enterprise), per poi proseguire con la prolungata partecipazione di Leonard Nimoy (il mitico signor Spock, qui nella parte di Mr. Paris) e chiudere infine con un'apparizione di William Shatner (il comandante Kirk). Oggi le due serie, in versione cinematografica, hanno di nuovo un interprete in comune: Simon Pegg, ingegner Scott in Star Trek e Benji Dunn in Mission: Impossible.
È anche da notare che nella M:I anni Sessanta lavorarono per la prima volta insieme Barbara Bain (nel ruolo di Cinnamon Carter) e Martin Landau (in quello di Rollin Hand), sposati nella vita e in seguito protagonisti della serie britannica Spazio: 1999. Ulteriore curisosità di stampo familiare: nella ripresa della serie tv del 1988 fa parte del cast Phil Morris, figlio (come personaggio e nella vita reale) di Greg Morris, uno dei protagonisti delle stagioni originali, che qui riprese la sua vecchia parte come guest star.


Al centro delle vicende delle serie tv è un immaginario servizio segreto del governo americano – indipendente tanto dalla CIA quanto dall’FBI e operante sia all’estero, sia sul territorio degli Stati Uniti – denominato Impossible Mission Force, in sigla IMF. In realtà nelle ultime stagioni degli anni Settanta molte operazioni si svolgono proprio in patria, ma solo per ridurre i costi di costumi e scenografie necessarie a ricreare paesi stranieri; mentre nella versione anni Ottanta le riprese sono effettuate in Australia, dove si girerà anche il secondo film con Tom Cruise.
Tornando al 1966, nella prima stagione a dirigere le operazioni è un agente di nome Dan Briggs (l’attore Steven Hill) mentre nella seconda l’incarico passa a Jim Phelps (Peter Graves), che si vedrà in tutti gli episodi fino al 1990 e si ripresenterà (interpretato però da Jon Voight) anche nel primo film, al termine del quale le consegne passeranno a Ethan Hunt.
Il format originale prevede una serie di veri e propri rituali, talvolta richiamati ancora oggi: il team leader della Impossible Mission Force si presenta in un luogo che si rivela essere una “buca delle lettere”, come si dice in gergo, spesso scambiando parole d’ordine con un contatto; quindi ha accesso a un nastro (ma in qualche caso a un disco in vinile e, negli anni Ottanta, un dischetto da computer) da cui riceve una serie di istruzioni per la missione... “se decide di accettarla”.


Con un tocco burocratico non estraneo allo stile dei servizi segreti, dopo il briefing la voce – appartenente all'attore Bob Johnson, mai apparso di persona nella serie ma presente in questo ruolo fino agli anni Ottanta – precisa che, qualora uno dei membri della squadra dovesse essere catturato o ucciso, il Segretario negherà qualsiasi responsabilità del governo: è il concetto di “negabilità plausibile” (spesso non poi così plausibile) che vedremo applicato dalla CIA nella realtà, specie ai tempi di Reagan, e che sarà rivelato dal giornalista Bob Woodward nel suo libro-inchiesta Veil. Nelle serie tv non si è mai saputo chi fosse il Segretario che dirigeva dall'alto l'IMF, mentre nei film ne vedremo parecchi: Anthony Hopkins, Laurence Fishburne (che però è chiamato “direttore”), Tom Wilkinson e, oggi, Alec Baldwin.
Un'altra pratica ripresa dallo spionaggio della realtà, pur con modalità più fantasiose nella serie tv, è quella che sempre Bob Woodward insieme a Charles Bernstein aveva portato alla luce in un precedente libro-inchiesta, il celebre Tutti gli uomini del presidente (da cui l'altrettanto celebre film). Nello slang della CIA la tecnica veniva chiamata ratfucking – “intraffottere”, nel doppiaggio italiano – e consisteva nell'uso attivo della disinformazione e dell'inganno allo scopo di confondere le acque tra gli avversari. Nel mondo reale, per esempio, il presidente Nixon e il gruppo di agenti CIA al suo servizio privato compromisero la candidatura del potenziale rivale Edward Muskie alle primarie del Partito Democratico in vista delle elezioni del 1972, diffondendo una falsa missiva scritta sull'autentica carta da lettera di questi.


Il ratfucking della serie tv è molto più sofisticato, anche sul piano tecnologico. Include la creazione di maschere in grado di replicare le fattezze di chiunque, curiosamente identiche a quelle in uso fin dal 1962 nelle avventure di Diabolik; forse è questo il motivo per cui nel film tratto da Mario Bava nel 1968 dal mitico fumetto italiano e distribuito nel mondo dalla Paramount – già allora titolare di Mission: Impossible – né Diabolik né Eva Kant fanno mai uso delle maschere, che sono invece una caratteristica irrinunciabile nelle loro avventure.
Situazione tipica: uno o più agenti dell'IMF si sostituiscono grazie alle maschere ad alcuni avversari, agendo o facendo dichiarazioni che creano scompiglio; così a volte sono le stesse spie straniere a uccidersi a vicenda, tratte in inganno dai travestimenti. Altra situazione ricorrente: per indurre un nemico a parlare, l'IMF lo sequestra e lo porta nella realtà distorta di un set allestito opportunamente, per indurlo a svelare segreti che non confesserebbe mai sotto interrogatorio.
Quest'ultima trovata può essere fatta risalire a un romanzo del 1959 di Philip K. Dick, Time Out of Joint (noto in Italia come L'uomo dei giochi a premio, Tempo fuori luogo e Tempo fuor di sesto). Non dev'essere un caso se il grande autore americano di fantascienza propose nel 1967 un ottimo trattamento per un episodio della serie che, purtroppo, venne rifiutato, forse perché, malgrado i nomi di luoghi e personaggi fossero fittizi, aveva chiari riferimenti alla politica di Cuba e alle figure di Fidel Castro e soprattutto di Che Guevara, ucciso proprio in quell'anno. Gli avversari dell'IMF tv non erano mai identificabili con un paese preciso e le missioni all'estero si svolgevano – anche qui un po' come i fumetti di Diabolik – in luoghi del tutto immaginari: in genere paesi dell'Est europeo dalla lingua ibrida, mentre al posto dell'URSS si nominava un'immaginaria EEPR (East European People's Republic).


Non va trascurato inoltre che il Time Out of Joint di Dick precede anche un appassionante film di spionaggio del 1964: Le ultime trentasei ore, diretto da George Seaton e liberamente ispirato a un racconto di Roald Dahl. Nella storia originale, un pilota alleato durante la Seconda guerra mondiale si risveglia in terapia dopo essere stato abbattuto e comincia a domandarsi se sia stato davvero recuperato dai suoi, oppure non si trovi invece prigioniero dei nazisti nella replica di una stanza di ospedale; non ci viene data risposta, mentre nel film il protagonista è un agente americano (James Garner) che ha perso conoscenza dopo un'aggressione a Lisbona; si risveglia in una clinica per veterani alla fine della guerra... o così sembra, perché ben presto si rende conto che la guerra è ancora in corso è l'ambiente che lo circonda è un'elaborata messinscena dei nazisti per indurlo a lasciarsi sfuggire i segreti di cui è a conoscenza, credendo che ormai tutto sia già avvenuto; a questo punto l'unica possibilità è la fuga. E, per chi è appassionato di serie televisive, è inevitabile l'associazione di idee non solo con Mission: Impossible ma anche con Il Prigioniero (1967-68). Lo stesso concetto, ancora più vicino all'idea originale di Philip K. Dick, ispira fortemente il film di Peter Weir The Truman Show (1998), che a sua volta richiama l'episodio A World of Difference (1960) della serie tv Ai confini della realtà.



domenica 29 luglio 2018

The Shallows (2016)




Recensione di Andrea Carlo Cappi

Un film il cui titolo nella distribuzione italiana, Paradise Beach – Dentro l’incubo, può creare equivoci, se si fa caso solo alla parte che precede ul trattino, laddove il titolo originale significa, più semplicemente, "le secche" (ma in italiano sarebbe stato frainteso). Uscito con un discreto successo nell’estate 2016, è un’ottima variazione sul filone degli squali, in cui il tema non è quello della caccia, bensì quello della pura sopravvivenza individuale.
Nancy Adams (Blake Lively), studentessa texana di medicina, compie una sorta di pellegrinaggio alla spiaggia messicana senza nome in cui venticinque anni prima sua madre scoprì di essere incinta. Il regista iberico Jaume Collet-Serra si serve di unespediente già da lui stesso impiegato nel bel thriller Non-Stop con Liam Neeson e Julianne Moore - sovrapporre alle immagini il display di un cellulare - per raccontare tra fotografie e videochiamate i retroscena della vacanza: la ragazza ha lasciato l’università, in crisi dopo la malattia e la morte della madre. L’aspetto umano della protagonista viene presentato con sobria concisione in brevi ma significative pennellate.
Sono in pochissimi a conoscere le spiaggia, paradiso per i surfisti locali che mantengono il segreto. Nancy prende la tavola. Ma, fatalmente, si avvicina troppo alla carcassa di una balena sotto la quale banchetta invisibile uno squalo gigantesco. Lei gli sfugge per miracolo, a prezzo di uno squarcio a una gamba che dovrà medicarsi da sola con mezzi di fortuna, dopo essersi rifugiata su uno scoglio di cui, con l’alta marea, resta emersa solo la sommità.
E adesso?
La spiaggia è vicina, ma non abbastanza da battere lo squalo sul tempo. Il telefono è nello zaino a riva, l’area è deserta, nessuno può intervenire. Ma Nancy non si arrende, anche se qualsiasi mossa faccia provoca un attacco immediato da parte dell’avversario. Deve giocare d’astuzia, calcolare i tempi e le distanze, e sfruttare il poco che ha a disposizione.
La forza del film, scritto in modo essenziale da John W. Richardson e Chris Roach (stesso duo di Non-Stop), ben diretto e ben interpretato, è proprio il confronto tra un’eroina solitaria, in scena ininterrottamente dal principio alla fine, e una forza della natura nettamente superiore a lei. C’è persino un tocco stile Il vecchio e il mare, cosa insolita per un thriller estivo a base di squali. Il che dimostra che, quando si ha talento, si può prendere un soggetto prevedibile e farne una bella storia.



Danse Macabre spot 19


sabato 28 luglio 2018

Danse Macabre spot 18


La vespa e la formica






Recensione di Andrea Carlo Cappi

Potrebbe essere il titolo di una favola di Esopo in chiave entomologica, ma mi riferisco invece a Ant-Man and the Wasp, serie a fumetti anni Sessanta della Marvel Comics dedicata alle imprese dei due supereroi eponimi – le cui vere identità erano all’epoca Hank Pym e Janet van Dyne – quando non apparivano insieme ad altri supereroi in The Avengers. E mi riferisco soprattutto al film che nell’estate 2018 vede invece come protagonisti i personaggi che, fumettisticamente, ne hanno assunto i ruoli nella generazione successiva, Scott Lang e Hope van Dyne, figlia dei primi due.
Innanzitutto vi rassicuro: non ho intenzione di abbandonarmi qui ad alcuno spoiler sulla produzione più recente e attuale dei Marvel Studios, anche se ne troverete qualcuno riguardante i film degli anni passati. Ma penso di poter affermare ciò che tutti gli appassionati già sanno: dopo Infinity War, il cosiddetto MCU – l’universo cinematografico che riunisce buona parte, ma non tutti, dei personaggi dei fumetti Marvel visti nell’ultimo decennio su grande e piccolo schermo – è in sospeso fino alla tarda primavera del 2019, nell’attesa della seconda parte del film dedicato ai Vendicatori e alle Guerre dell’Infinito. Il che non impedisce a sceneggiatori e registi di fare cronologicamente qualche passo indietro nel tempo.



Nel caso di Ant-Man and the Wasp, si parla solo di un balzo a qualche settimana prima di Infinity War, spiegando in che cosa fossero impegnati i personaggi di questa sotto-serie e perché nessuno di loro abbia più a che fare con l’una o l’altra fazione in cui i Vendicatori si erano divisi nel corso di Captain America – Civil War. Va ricordato che, grazie al sistema tecnologicamente avanzato contenuto nella sua tuta, Ant-Man è in grado di cambiare dimensioni, raggiungendo quelle di una formica (come lascia intendere il nome) per tornare poi a quelle normali; un intenso addestramento impartitogli dal suo mentore Hank Pym e dalla figlia di questi, Hope, ha fatto di lui un combattente formidabile nell’una e nell’altra taglia. Ma in Civil War lo abbiamo visto applicare la stessa tecnologia in senso inverso, trasformandosi – come già a suo tempo si era visto nei fumetti – in Giant Man durante lo scontro tra supereroi in Germania, dal lato dei ribelli.
Catturato dopo quell’episodio, in base ad accordi tra i governi tedesco e americano, e nel rispetto del Protocollo di Sokovia sulla limitazione delle attività superumane, Scott Lang (Paul Rudd) ha patteggiato due anni di arresti domiciliari, nel corso dei quali non può allontanarsi di un millimetro dai confini domestici prestabiliti, tantomeno impegnarsi in attività da supereroe. Né gli è consentito avere contatti con Hank Pym (Michael Douglas), inventore del processo di miniaturizzazione molecolare oltre che già supereroe nei panni di Ant-Man negli anni Ottanta, prima da solo, poi insieme a Janet/Wasp; o con la figlia di questi, Hope (Evangeline Lilly), che abbiamo lasciato alla fine di Ant-man mentre era sul punto di collaudare una versione modernizzata della tuta di Wasp.
La scena di apertura del film ci riporta indietro di trent’anni, quando Hank e Janet (Michelle Pfeiffer, ringiovanita in questa sequenza grazie a sofisticati effetti speciali) si congedarono dalla figlia prima di partire per una missione che si sarebbe rivelata fatale e di cui abbiamo già visto una sequenza nel precedente Ant-Man: per disinnescare un missile nucleare prima che raggiungesse il bersaglio, Janet dovette miniaturizzarsi a oltranza, riuscendo nell’intento ma perdendosi poi in un universo quantico da cui non avrebbe mai fatto ritorno. Tuttavia, nel corso della sua prima avventura, Scott non ha avuto scelta che usare a sua volta lo stesso espediente, riducendosi a misure subatomiche ma riemergendo grazie alle nuove tecnologie sviluppate nel frattempo da Hank. E se Janet fosse ancora viva, laggiù, da qualche parte, e le scoperte scientifiche del marito potessero ora permetterle di tornare?



Va precisato che, mescolando elementi presenti da mezzo secolo nei fumetti Marvel (a volte raffigurati con memorabili scenari psichedelici) e teorie scientifiche contemporanee, il Regno Quantico è un universo vero e proprio, uno dei tanti scoperti da Stephen Strange nella sua prima lezione di arti mistiche nel film Doctor Strange, in cui le leggi convenzionali dello spazio-tempo perdono di validità. Ma, stando a quanto si apprende in questa nuova pellicola, certi esperimenti nel campo della fisica quantistica possono avere conseguenze imprevedibili. Del resto Scott ancora non lo sa, ma la sua esperienza sub-atomica ha lasciato in lui più tracce di quanto possa immaginare.
Così, mentre lui passava due anni senza uscire di casa, giocando con la figlia e facendo da consulente all’agenzia di sicurezza privata in cui lavorano Luis (Michael Peña) e i suoi ex-compagni di galera – opportunamente denominata X-Con, che suona come ex-con, ovvero ex-detenuti – Hank e Hope si sono dati da fare, nonostante siano tuttora ricercati dall’FBI in quanto complici indiretti e involontari delle attività di Ant-Man come supereroe ribelle. Hanno perfezionato la tecnica di miniaturizzazione-sminiaturizzazione, applicandola ad autoveicoli e persino a un intero edificio, e progettato un portale per viaggiare nell’universo quantico. Hope (che nel frattempo si è fatta crescere i capelli, abbandonando il rigido caschetto del primo film, meno pratico per indossare l’elmetto) ha ormai ereditato il ruolo di Wasp, cosa che le torna utile quando deve trattare con loschi figuri per procurarsi i componenti che occorrono per completare il progetto.
Per consentire a Hank di giungere all’obiettivo finale – la ricerca di Janet – Scott e Hope devono ora riunire le forze per fronteggiare il subdolo mercante tecnologico Sonny Burch (Walton Goggins); scontrarsi con un misterioso rivale denominato Ghost (Hannah John-Kamen) che si interessa alla stessa tecnologia; discutere con un astioso collega del dottor Pym, Bill Foster (Laurence Fishburne); e sfuggire all’agente FBI Jimmy Woo (Randall Park). Mentre il film si addentra sempre di più nella sua dimensione fantastica, non mancano il cameo del creatore della Marvel, Stan Lee, e, dato che siamo a San Francisco, una variante inedita del classico inseguimento tra auto sulle strade collinari.
Il film, che rappresenta il ventesimo episodio della saga cominciata nel 2008 con Iron Man, è una piacevole mescolanza di poliziesco, azione, commedia (con le consuete gag del gruppo di ex-galeotti) e teorie (fanta)scientifiche portate a un’efficace rappresentazione visiva. È consigliabile avere visto ameno il precedente Ant-Man per apprezzare molti degli aspetti che qui vengono ormai dati per acquisiti. I doverosi collegamenti con la continuity dell’intera saga sono riservati invece alle sequenze inserite nei titoli di coda, che ancora molti spettatori si perdono nella frenesia di correre all’uscita come se la sala andasse a fuoco; e sì che sono una consuetudine da almeno quindici anni, in questo genere di film!



venerdì 27 luglio 2018

Danse Macabre spot 17


Le lacrime di Kevin Spacey - terza parte




Considerazioni di Claudia Salvatori



Si commette un peccato in ogni strada, in ogni casa, e noi lo tolleriamo, perché lo consideriamo comune... io invidio la tua vita comune.
(Seven)

Kevin Spacey comincia a risplendere sui nostri schermi a partire dal 1995 come il diavolo de I soliti sospetti (24), l'assassino seriale di Seven (25) e l'uomo comune di American Beauty (26). Ancora giovane ma a un'età in cui altri attori meno talentuosi hanno alle spalle un decennio di apparizioni a cadenza annuale, il che fa supporre una carriera tutta in salita, forse ostacolata, sia prima che (a giudicare dalla filmografia) dopo i riconoscimenti e i due Oscar vinti (non protagonista e protagonista).
L'intelligenza di The Usual Suspects sta nel proporre un diavolo minimale, con la d minuscola: il diavolo dell'ateismo è un boss del crimine organizzato, forse solo una leggenda metropolitana, dal suggestivo nome turco-tedesco di Kaiser Soze.
Un diavolo non metafisico ma da quadro astratto concettuale, che è diventato tale sopprimendo in sé tutto quanto è umano e comune, cioè facendo strage di tutta la sua famiglia prima che lo faccia la banda rivale: Per avere potere non occorre denaro, né essere in molti, ma fare quello che gli altri non vogliono fare. Ma si riunisce a tutto quanto è umano è comune presentandosi sotto la forma dell'essere più fragile, debole e stupido della gang e, da questa posizione, può manipolare tutto e tutti.
Un capobanda assolutamente spietato e il più comune degli uomini: cosa di più diabolico?
Kevin Spacey è nato nel ʻ59, e ha potuto ancora ascoltare una lontana eco di quei valori vertiginosamente caduti nella seconda metà del secolo.
Il suo assassino-predicatore-giustiziere di Seven, del tutto privo di identità avendo rinunciato all'umanità, alla speranza e in fondo alla vita, è il grido d'agonia della moralità naturale che precipita nell'inferno del materialismo meccanicistico, amorale e ignorante (è soprattutto l'ignoranza dell'uomo comune che lui invidia, la sua non conoscenza di Dante Alighieri, di Tommaso d'Aquino, il suo pronunciare Sade come Shade). È questo grido, ben compreso e meglio interpretato, a conferire a Kevin una terribile concretezza (più che bucare lo schermo, sembra uscirne per toccarci) e insieme l'abbaglio della più trasparente visione onirica.
Poco tempo dopo, ritroviamo Kevin Spacey in American Beauty nei panni di un tizio come tanti che si ribella alla sua routine, come se avesse letto un manuale del tipo Come goderti la vita e tenere a bada i rompicoglioni, nella sapida sceneggiatura di Alan Ball (ideatore di Six feet under).
In fondo, in che cosa consiste l'espressione artistica di un attore, ingabbiato fra le parole scritte da altri e la direzione di un regista? Nel modo in cui si impadronisce di parole e gesti? Con il corpo, la voce, le mani, gli occhi?
In un'intervista dell'anno scorso, rilasciata qui in Italia, Kevin Spacey dichiara di essere uno strumento atto a servire scrittori e registi. Stupefacente e spiazzante, perché non siamo più abituati all'umiltà dei grandi, e neppure a riconoscere il merito degli scrittori in una produzione cinematografica. E vediamo che i film da lui interpretati hanno spesso all'origine solidi copioni teatrali – Bugie, baci, bambole e bastardi (27) è di David Rabe, Americani (28) di David Mamet) – sceneggiature splendidamente scritte (sul set di Seven era presente Andrew Walker, autore del racconto da cui il film è tratto), sono ben diretti e hanno quasi sempre una ragione per essere realizzati.
È possibile che Kevin abbia influenzato, ispirato gli sceneggiatori, o sia intervenuto sulla scrittura?
Forse la stessa dissoluzione del mondo, e della macchina di produzione della fiction, ha creato una fluidità che gli ha permesso di gestire la proiezione operata su di lui più di quanto non abbiamo potuto, in contesti più rigidi, Vincent Price e Anthony Perkins. E in effetti, film dopo film, vediamo comparire elementi che rimandano in modo inquietante, a volte profetico, ai suoi dati biografici, reali o leggendari che siano.
Perché il piccolo diavolo contemporaneo è anche una vittima, a volte un agnello sacrificale, un suicida volontario (come del resto in Seven), e il ruolo che Kevin sceglie per sé e li riassume tutti, quando può scrivere, dirigere o produrre film, è quello di un condannato a morte.



Diciamo sempre che siamo umani quando dobbiamo giustificarci per aver fatto qualcosa di molto brutto. Non lo diciamo mai quando salviamo un bambino dalle fiamme.
(Il delitto Fitzgerald)

Lo dichiara un giovane assassino che ha ucciso per sollevarvi dalla vostra tristezza in Il delitto Fitzgerald (29), un film poco noto prodotto da Kevin Spacey. Più avanti, lo stesso assassino dice anche: A volte penso che il Male esista solo per far risaltare il Bene, poco prima di essere inevitabilmente ucciso per vendetta.
Diciamo pure che il bene (anche con la b minuscola) si vende poco e con estrema difficoltà.
Anche se è un bene minimale e consiste solo nel fare, per esempio, una buona azione a qualcuno pregandolo di “passare il favore” ad altre tre persone, e così via, per formare una specie di catena della bontà: Un sogno per domani (30). Il bambino di dieci anni che inventa questo sistemino per migliorare il mondo esegue un compito datogli dal suo insegnante, appunto Kevin.
Kevin che dice: Il mondo esterno esiste. Per quanto pensiate di non volerlo incontrare, vi arriverà dritto in faccia. Il suo volto è infatti sfregiato e ustionato in seguito a una violenza domestica subita da piccolo.
La bontà comunque è etichettata come “buonismo” e c'è quasi da vergognarsi a farne una fiction, oggi. Anche se Un sogno per domani non commette peccato di edulcorazione: il bambino geniale e ottimista, poco dopo aver detto che il mondo non è tutto una merda, viene accoltellato a morte da un branco di bulli.



The life of David Gale (31) vede Kevin Spacey in un doppio ruolo di condannato: ingiustamente calunniato e reso un morto civile, si fa giustiziare per riabilitarsi.
Questo film, una volta sicuramente apprezzato come opera “di impegno civile”, è stato fortemente criticato come “morboso” e “malato”. Alle soglie del 2000 non vogliamo più morire per un'idea, né tollerare che altri lo facciano, a parte quei casi (naufragio, incendio o altro) in cui siamo in pericolo di vita e reclamiamo degli “eroi” che ci salvino.
Ma Kevin continua a sacrificarsi, perfino nell'ultima sua interpretazione, Baby Driver (32), in cui da spietato capobanda si rovescia in romantico amante e si fa ammazzare in una sparatoria per coprire la fuga dell'amato.
E in un film da lui diretto, Insoliti criminali (33) premiato al nostro Noir in festival 1996, l'alligatore bianco che viene usato come esca sacrificale nelle guerre territoriali è sicuramente il personaggio in cui si identifica e che, fra gli altri, è il più intelligente.
Beyond the sea (34) è probabilmente la sua operazione più ambiziosa, un film scritto, diretto, prodotto, interpretato, cantato e ballato da lui: una mimesi totale in un cantante (Bobby Darin) condannato a morte, stavolta da una malattia degenerativa.
Povero e malato, con una difficile vita famigliare, dovrebbe vivere quindici anni ma canta fino a trentasei e raggiunge il successo con la sola forza di volontà, perché chi viene dal basso non può non salire. Racconta se stesso, e in diversi passaggi della sceneggiatura informa il pubblico che lo sta facendo: ha un tempo contato per dare quanto può prima di scomparire. Il film, amato da una parte della critica, è stato una catastrofe al botteghino.
Forse più fortuna ha avuto il lirico e commovente K-pax (35). Ecco un altro doppio ruolo: di alieno vivente in un mondo di armonia e giustizia e pazzo traumatizzato catatonico.
Kevin Spacey è nato il 26 luglio. Nel film l'evento insopportabile, quello che gli rende impossibile vivere e lo costringe alla fuga su un altro pianeta (o nella follia, tutto è mantenuto nell'ambiguità fino alla fine), avviene il 27 luglio.
È possibile che Kevin abbia suggerito quella data per rivelare, dissimulando, qualcosa di se stesso? Come se avesse voluto dire che considera il giorno della sua nascita una sciagura, e la sola uscita di sicurezza che non sia nell'autismo o nel suicidio è stato il suo lavoro di attore.



Quando ti fai fuori da solo prima che lo faccia qualcun altro puoi controllare come succede.
(House of cards, stagione 5)
Se non può essere buono, Kevin esaurisce alla fine tutte le sfaccettature del cattivo: poliziotto corrotto, rapinatore, mago della truffa, lobbista, produttore cinico, venditore psicopatico, Lex Luthor in Superman Returns (36).
Quasi sempre ammazzato, sempre punito, a parte in Un perfetto criminale, premio del pubblico al Noir in festival 2000 (37), in cui è una simpatica canaglia, un folletto shakespeariano birbante e un Robin Hood (con due mogli e innumerevoli figli) in una foresta di palazzacci di periferia.
Del resto è anomalo anche come cattivo: non lo si vede mai coinvolto in un'azione violenta (perfino in Seven i delitti e le scene d'azione sono fuori campo), non taglia mai nessuno in due con una motosega, al massimo assesta qualche pugno.
Ma oltre non può andare, non può ripetere un altro Seven.
Dopo i due Oscar, invece di un film da protagonista a cadenza almeno biennale, comincia una serie di alterne vicende, di fallimenti commerciali, di piccoli film che lo delimitano e lo spengono.
Si fa degli haters, piovono i sarcasmi per aver interpretato Nine livesUna vita da gatto (38) sdoppiandosi in un'identità da gatto (ma da quando è una cattiva azione fare un film per ragazzi?).
Ritorna al teatro da cui è venuto e dirige l'Old Vic di Londra, recitando oltre un centinaio di repliche di Riccardo III, come a voler chiudere il cerchio con Vincent Price (anche lui interprete storico di Riccardo).
Il Grande Attore è diventato decisamente ingombrante... troppo pesante, in quest'epoca di leggerezze.
Poi, soprendentemente, arriva il capolavoro, la serie tv House of cards (39), un successo incontrastato che lo porta alla visibilità planetaria. Una complessa macchina narrativa in cui riassume tutte le precedenti esperienze e il senso dell'attuale epoca in una precisa prospettiva storica, nei panni di un protagonista altrettanto complesso.
In House of cards Kevin è contemporaneamente e a tutti gli effetti un re antico con la sua regina-uguale e speculare a sé (non avevamo ancora visto un ruolo femminile esattamente alla pari con il ruolo maschile in una fiction), un assassino senza scrupoli e rimorsi (come Kaiser Soze, non ha figli, ma invece di ucciderli rifiuta di metterli al mondo), l'uomo più potente del mondo (il presidente degli States), e anche un uomo comune, che divide la sorte dei milioni, miliardi di persone comuni. Tutti mescolati insieme in un intrigo globale in cui non resta che far torto o patirlo, come scriveva il nostro (speriamo non dimenticato) Manzoni.
Francis Underwood, le cui iniziali sui gemelli, FU, sono la contrazione di Fuck you.
Come un re antico è solo. Lo è sempre stato, è in questo sta quello che hanno chiamato il suo “mistero”, l'espressione di quegli occhi tristi, sempre tristi anche quando si diverte e vuole far divertire al David Letterman show.
Ma è solo anche come lo è una persona comune.
Non può fare BUH! A nessuno, perché la gente ormai è smaliziata, non ingenua come ai tempi di Vincent.
Come spaventare, allora?
Bene, quello che può fare è rompere la quarta parete teatrale e parlare alla macchina da presa, a tutti e a nessuno, cioè a noi. Come un attore di teatro che si stacca dall'azione, avanza un po' sul proscenio e bisbiglia a parte per informare il pubblico di quello che succede veramente.
Episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, ci parla raggiungendo le nostre solitudini, svelandoci quello che siamo, come siamo diventati. Con i suoi occhi tristi, in cui la gentilezza traspare sempre più raramente, in cui le lacrime che spesso ha versato si sono congelate.
Parla come un re che confida i segreti del suo potere, come un criminale legittimato dalla guerra di tutti contro tutti; e come una persona comune, in un flusso inarrestabile di logorrea (il suo personaggio ne I soliti sospetti si chiamava Verbal), raccontando la sua vita come se fosse una serie televisiva.
Ma lui ribalta la serie televisiva e la racconta come se fosse (ed è) la vita, la vita di tutti noi, con la nostra patetica presunzione di essere re, i nostri piccoli atti criminali, la nostra invidia e la nostra ipocrisia, e la nostra rinuncia alla pietà.
Di chi sia stata l'idea di farlo commentare quello che sta facendo nella fiction, se sua o di uno degli ideatori e registi della serie, non sappiamo. Sappiamo che lui è consapevole, e la cosa in sé sarebbe già un valore da preservare.
Anche se è prevista a luglio l'uscita americana di Billionaire Boys Club, di James Cox, l'ultimo film in cui ha recitato tra il 2015 e il 2016, Kevin Spacey forse non potrà più lavorare.
Le coscienze pensanti, con la capacità e la volontà di comunicare, si stanno estinguendo come le tigri siberiane, per questo la sua scomparsa, come hanno osservato le poche persone di buon senso, sarebbe una perdita incalcolabile.
Senza di lui saremo ancora più soli, muti e sordi.
E gli specchi già da tempo non ci riflettono più.



I film citati nel testo:

(1) Theatre of Blood, regia di Douglas Hickox (1973)
(2) The Haunted Palace, regia di Roger Corman (1963)
(3) The Keys of the Kingdom, regia di John M. Stahl (1944)
(4) The Ten Commandments, regia di Cecil B. DeMille (1956)
(5) Nefertite, regina del Nilo, regia di Fernando Cerchio (1961)
(6) House of Wax, regia di André De Toth (1953)
(7) The Abominable Dr. Phibes, regia di Robert Fuest (1971)
(8) Edward Scissorhands, regia di Tim Burton (1990)
(9) House of the Long Shadows, regia di Pete Walker (1983)
(10) Dr. Goldfoot and the Bikini Machine, regia di Norman Taurog (1965)
(11) Le spie vengono dal semifreddo, regia di Mario Bava (1966)
(12) Hitchcock, regia di Sacha Gervasi (2012)
(13) Psycho, regia di Alfred Hitchcock (1960)
(14) Goodbye Again, regia di Anatole Litvak (1961)
(15) La décade prodigieuse, regia di Claude Chabrol (1971)
(16) The last of Sheila, regia di Herbert Ross (1973)
(17) Lucky Stiff, regia di Anthony Perkins (1988)
(18) Psycho II, regia di Richard Franklin (1983)
(19) Psycho III, regia di Anthony Perkins (1986)
(20) Winter Kills, regia di William Richert (1979)
(21) Crimes of Passion, regia di Ken Russell (1984)
(22) Edge of Sanity, regia di Gérard Kikoïne (1989)
(23) Le procès, regia di Orson Welles (1962)
(24) The Usual Suspects, regia di Bryan Singer (1995)
(25) Seven, regia di David Fincher (1995)
(26) American Beauty, regia di Sam Mendes (1999)
(27) Hurlyburly, regia di Anthony Drazan (1998)
(28) Glengarry Glen Ross, regia di James Foley (1992)
(29) The United State of Leland, regia di Matthew Ryan Hoge (2003)
(30) Pay It Forward, regia di Mimi Leder (2000)
(31)The Life of David Gale, regia di Alan Parker (2003)
(32) Baby Driver, regia di Edgar Wright (2017)
(33) Albino Alligator, regia di Kevin Spacey (1996)
(34) Beyond the Sea, regia di Kevin Spacey (2004)
(35) K-PAX, regia di Iain Softley (2001)
(36) Superman Returns, regia di Bryan Singer (2006)
(37) Ordinary Decent Criminal, regia di Thaddeus O'Sullivan (2000)
(38) Nine Lives, regia di Barry Sonnenfeld (2016)
(39) House of Cards - serie TV (2013-cinque stagioni)



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