venerdì 27 luglio 2018
Le lacrime di Kevin Spacey - terza parte
Considerazioni di Claudia Salvatori
Si
commette un peccato in ogni strada, in ogni casa, e noi lo
tolleriamo, perché lo consideriamo comune... io invidio la tua
vita comune.
(Seven)
Kevin
Spacey comincia a risplendere sui nostri schermi a partire dal 1995
come il diavolo de I soliti sospetti (24),
l'assassino seriale di Seven
(25) e l'uomo comune di American Beauty
(26). Ancora giovane ma a un'età in cui altri attori meno
talentuosi hanno alle spalle un decennio di apparizioni a cadenza
annuale, il che fa supporre una carriera tutta in salita, forse
ostacolata, sia prima che (a giudicare dalla filmografia) dopo i
riconoscimenti e i due Oscar vinti (non protagonista e protagonista).
L'intelligenza
di The Usual Suspects
sta nel proporre un diavolo minimale, con la d minuscola: il diavolo
dell'ateismo è un boss del crimine organizzato, forse solo una
leggenda metropolitana, dal suggestivo nome turco-tedesco di Kaiser
Soze.
Un
diavolo non metafisico
ma da quadro astratto concettuale, che è diventato tale
sopprimendo in sé tutto quanto è umano e comune, cioè
facendo strage di tutta la sua famiglia prima che lo faccia la banda
rivale: Per avere potere non occorre
denaro, né essere in molti, ma fare quello che gli
altri non vogliono fare. Ma si
riunisce a tutto quanto è umano è comune presentandosi
sotto la forma dell'essere più fragile, debole e stupido della
gang e, da questa posizione, può manipolare tutto e tutti.
Un
capobanda assolutamente spietato e il più comune degli uomini:
cosa di più diabolico?
Kevin
Spacey è nato nel ʻ59, e ha potuto ancora ascoltare una
lontana eco di quei valori vertiginosamente caduti nella seconda metà
del secolo.
Il
suo assassino-predicatore-giustiziere di Seven, del tutto
privo di identità avendo
rinunciato all'umanità, alla speranza e in fondo alla vita, è
il grido d'agonia della moralità naturale che precipita
nell'inferno del materialismo meccanicistico, amorale e ignorante (è
soprattutto l'ignoranza dell'uomo comune che lui invidia, la sua non
conoscenza di Dante Alighieri, di Tommaso d'Aquino, il suo
pronunciare Sade come
Shade). È
questo grido, ben compreso e meglio interpretato, a conferire a Kevin
una terribile concretezza (più
che bucare lo schermo, sembra uscirne per toccarci) e
insieme l'abbaglio della più trasparente visione onirica.
Poco
tempo dopo, ritroviamo Kevin Spacey in American Beauty
nei panni di un tizio come tanti che si ribella alla sua routine,
come se avesse letto un manuale del tipo Come goderti la
vita e tenere a bada i rompicoglioni,
nella sapida sceneggiatura di Alan Ball (ideatore di Six
feet under).
In
fondo, in che cosa consiste l'espressione artistica di un attore,
ingabbiato fra le parole scritte da altri e la direzione di un
regista? Nel modo in cui si impadronisce di parole e gesti? Con il
corpo, la voce, le mani, gli occhi?
In
un'intervista dell'anno scorso, rilasciata qui in Italia, Kevin
Spacey dichiara di essere uno strumento atto a servire scrittori e
registi. Stupefacente e spiazzante, perché non siamo più
abituati all'umiltà dei grandi, e neppure a riconoscere il
merito degli scrittori in una produzione cinematografica. E vediamo
che i film da lui interpretati hanno spesso all'origine solidi
copioni teatrali – Bugie, baci, bambole e bastardi
(27) è di David Rabe, Americani
(28) di David Mamet) – sceneggiature splendidamente scritte (sul
set di Seven era
presente Andrew Walker, autore del racconto da cui il film è
tratto), sono ben diretti e hanno quasi sempre una ragione per essere
realizzati.
È
possibile che Kevin abbia influenzato, ispirato gli sceneggiatori, o
sia intervenuto sulla scrittura?
Forse
la stessa dissoluzione del mondo, e della macchina di produzione
della fiction, ha creato una fluidità che gli ha permesso di
gestire la proiezione operata su di lui
più di quanto non abbiamo potuto, in contesti più
rigidi, Vincent Price e Anthony Perkins. E in effetti, film dopo
film, vediamo comparire elementi che rimandano in modo inquietante, a
volte profetico, ai suoi dati biografici, reali o leggendari che
siano.
Perché
il piccolo diavolo contemporaneo è anche una vittima, a volte
un agnello sacrificale, un suicida volontario (come del resto in
Seven), e il ruolo che
Kevin sceglie per sé e li riassume tutti, quando può
scrivere, dirigere o produrre film, è quello di un condannato
a morte.
Diciamo
sempre che siamo umani quando dobbiamo giustificarci per aver fatto
qualcosa di molto brutto. Non lo diciamo mai quando salviamo un
bambino dalle fiamme.
(Il
delitto Fitzgerald)
Lo
dichiara un giovane assassino che ha ucciso per sollevarvi
dalla vostra tristezza in
Il delitto Fitzgerald (29), un
film poco noto prodotto da Kevin Spacey. Più avanti, lo stesso
assassino dice anche: A volte penso che il Male esista solo
per far risaltare il Bene, poco
prima di essere inevitabilmente ucciso per vendetta.
Diciamo
pure che il bene (anche con la b minuscola) si vende poco e con
estrema difficoltà.
Anche
se è un bene minimale e consiste solo nel fare, per esempio,
una buona azione a qualcuno pregandolo di “passare il favore” ad
altre tre persone, e così via, per formare una specie di
catena della bontà: Un sogno per domani
(30). Il bambino di dieci anni che inventa questo sistemino per
migliorare il mondo esegue un compito datogli dal suo insegnante,
appunto Kevin.
Kevin
che dice: Il mondo esterno esiste. Per quanto pensiate di
non volerlo incontrare, vi arriverà dritto in faccia.
Il suo volto è infatti sfregiato e ustionato in seguito a una
violenza domestica subita da piccolo.
La
bontà comunque è etichettata come “buonismo” e c'è
quasi da vergognarsi a farne una fiction, oggi. Anche se Un
sogno per domani non commette
peccato di edulcorazione: il bambino geniale e ottimista, poco dopo
aver detto che il mondo non è tutto una merda,
viene accoltellato a morte da un branco di bulli.
The
life of David Gale (31)
vede Kevin Spacey in un doppio
ruolo di condannato: ingiustamente calunniato e reso un morto civile,
si fa giustiziare per riabilitarsi.
Questo
film, una volta sicuramente apprezzato come opera “di impegno
civile”, è stato fortemente criticato come “morboso” e
“malato”. Alle soglie del 2000 non vogliamo più morire per
un'idea, né tollerare che altri lo facciano, a parte quei casi
(naufragio, incendio o altro) in cui siamo in pericolo di vita e
reclamiamo degli “eroi” che ci salvino.
Ma
Kevin continua a sacrificarsi, perfino nell'ultima sua
interpretazione, Baby Driver (32),
in cui da spietato capobanda si rovescia in romantico amante e si fa
ammazzare in una sparatoria per coprire la fuga dell'amato.
E
in un film da lui diretto, Insoliti criminali
(33) premiato al
nostro Noir in festival 1996, l'alligatore bianco che viene usato
come esca sacrificale nelle guerre territoriali è sicuramente
il personaggio in cui si identifica e che, fra gli altri, è il
più intelligente.
Beyond
the sea (34) è
probabilmente la sua operazione più ambiziosa, un film
scritto, diretto, prodotto, interpretato, cantato e ballato da lui:
una mimesi totale in un cantante (Bobby Darin) condannato a morte,
stavolta da una malattia degenerativa.
Povero
e malato, con una difficile vita famigliare, dovrebbe vivere quindici
anni ma canta fino a trentasei e raggiunge il successo con la sola
forza di volontà, perché chi viene dal basso
non può non salire.
Racconta se stesso, e in diversi passaggi della sceneggiatura informa
il pubblico che lo sta facendo: ha un tempo contato per dare quanto
può prima di scomparire. Il film, amato da una parte della
critica, è stato una catastrofe al botteghino.
Forse
più fortuna ha avuto il lirico e commovente K-pax
(35). Ecco
un altro doppio ruolo:
di alieno vivente in un mondo di armonia e giustizia e pazzo
traumatizzato catatonico.
Kevin
Spacey è nato il 26 luglio. Nel film l'evento insopportabile,
quello che gli rende impossibile vivere e lo costringe alla fuga su
un altro pianeta (o nella follia, tutto è mantenuto
nell'ambiguità fino alla fine), avviene il 27 luglio.
È
possibile che Kevin abbia suggerito quella data per rivelare,
dissimulando, qualcosa di se stesso? Come se avesse voluto dire che
considera il giorno della sua nascita una sciagura, e la sola uscita
di sicurezza che non sia nell'autismo o nel suicidio è stato
il suo lavoro di attore.
Quando
ti fai fuori da solo prima che lo faccia qualcun altro puoi
controllare come succede.
(House
of cards, stagione 5)
Se
non può essere buono, Kevin esaurisce alla fine tutte le
sfaccettature del cattivo: poliziotto corrotto, rapinatore, mago
della truffa, lobbista, produttore cinico, venditore psicopatico, Lex
Luthor in Superman Returns (36).
Quasi
sempre ammazzato, sempre punito, a parte in Un perfetto
criminale, premio del pubblico
al Noir in festival 2000 (37), in cui è una simpatica
canaglia, un folletto shakespeariano birbante e un Robin Hood (con
due mogli e innumerevoli figli) in una foresta di palazzacci di
periferia.
Del
resto è anomalo anche come cattivo: non lo si vede mai
coinvolto in un'azione violenta (perfino in Seven
i delitti e le scene d'azione sono fuori campo), non taglia mai
nessuno in due con una motosega, al massimo assesta qualche pugno.
Ma
oltre non può andare, non può ripetere un altro Seven.
Dopo
i due Oscar, invece di un film da protagonista a cadenza almeno
biennale, comincia una serie di alterne vicende, di fallimenti
commerciali, di piccoli film che lo delimitano e lo spengono.
Si
fa degli haters, piovono i sarcasmi per aver interpretato Nine
lives – Una vita da
gatto (38) sdoppiandosi in
un'identità da gatto (ma da quando è una cattiva azione
fare un film per ragazzi?).
Ritorna
al teatro da cui è venuto e dirige l'Old Vic di Londra,
recitando oltre un centinaio di repliche di Riccardo III, come a
voler chiudere il cerchio con Vincent Price (anche lui interprete
storico di Riccardo).
Il
Grande Attore è diventato decisamente ingombrante... troppo
pesante, in quest'epoca di leggerezze.
Poi,
soprendentemente, arriva il capolavoro, la serie tv House
of cards (39), un successo
incontrastato che lo porta alla visibilità planetaria. Una
complessa macchina narrativa in cui riassume tutte le precedenti
esperienze e il senso dell'attuale epoca in una precisa prospettiva
storica, nei panni di un protagonista altrettanto complesso.
In
House of cards Kevin è
contemporaneamente e a tutti gli effetti un re antico con la sua
regina-uguale e speculare a sé (non avevamo ancora visto un
ruolo femminile esattamente alla pari
con il ruolo maschile in una fiction), un assassino senza scrupoli e
rimorsi (come Kaiser Soze, non ha figli, ma invece di ucciderli
rifiuta di metterli al mondo), l'uomo più potente del mondo
(il presidente degli States), e anche un uomo comune, che divide la
sorte dei milioni, miliardi di persone comuni. Tutti mescolati
insieme in un intrigo globale in cui non resta che far
torto o patirlo, come scriveva
il nostro (speriamo non dimenticato) Manzoni.
Francis
Underwood, le cui iniziali sui gemelli, FU, sono la contrazione di
Fuck you.
Come
un re antico è solo. Lo è sempre stato, è in
questo sta quello che hanno chiamato il suo “mistero”,
l'espressione di quegli occhi tristi, sempre tristi anche quando si
diverte e vuole far divertire al David Letterman show.
Ma
è solo anche come lo è una persona comune.
Non
può fare BUH! A nessuno, perché la gente ormai è
smaliziata, non ingenua come ai tempi di Vincent.
Come
spaventare, allora?
Bene,
quello che può fare è rompere la quarta parete teatrale
e parlare alla macchina da presa, a tutti e a nessuno, cioè a
noi. Come un attore di teatro che si stacca dall'azione, avanza un
po' sul proscenio e bisbiglia a parte
per informare il pubblico di quello che succede veramente.
Episodio
dopo episodio, stagione dopo stagione, ci parla raggiungendo le
nostre solitudini, svelandoci quello che siamo, come siamo diventati.
Con i suoi occhi tristi, in cui la gentilezza traspare sempre più
raramente, in cui le lacrime che spesso ha versato si sono congelate.
Parla
come un re che confida i segreti del suo potere, come un criminale
legittimato dalla guerra di tutti contro tutti; e come una persona
comune, in un flusso inarrestabile di logorrea (il suo personaggio ne
I soliti sospetti si
chiamava Verbal),
raccontando la sua vita come se fosse una serie televisiva.
Ma
lui ribalta la serie televisiva e la racconta come se fosse (ed è)
la vita, la vita di tutti noi, con la nostra patetica presunzione di
essere re, i nostri piccoli atti criminali, la nostra invidia e la
nostra ipocrisia, e la nostra rinuncia alla pietà.
Di
chi sia stata l'idea di farlo commentare quello che sta
facendo nella fiction, se sua o
di uno degli ideatori e registi della serie, non sappiamo. Sappiamo
che lui è consapevole, e la cosa in sé sarebbe già
un valore da preservare.
Anche
se è prevista a luglio l'uscita americana di Billionaire
Boys Club,
di James
Cox, l'ultimo film in cui ha recitato tra il 2015 e il 2016, Kevin
Spacey forse non potrà più lavorare.
Le
coscienze pensanti, con la capacità e la volontà di
comunicare, si stanno estinguendo come le tigri siberiane, per questo
la sua scomparsa, come hanno osservato le poche persone di buon
senso, sarebbe una perdita incalcolabile.
Senza
di lui saremo ancora più soli, muti e sordi.
E
gli specchi già da tempo non ci riflettono più.
I film citati nel testo:
(1)
Theatre of Blood,
regia di Douglas Hickox (1973)
(2)
The Haunted Palace,
regia di Roger Corman (1963)
(3)
The Keys of the Kingdom,
regia di John M. Stahl (1944)
(4)
The Ten Commandments,
regia di Cecil B. DeMille (1956)
(5)
Nefertite, regina del Nilo,
regia di Fernando Cerchio (1961)
(6)
House of Wax, regia di
André De Toth (1953)
(7)
The Abominable Dr. Phibes,
regia di Robert Fuest (1971)
(8)
Edward Scissorhands,
regia di Tim Burton (1990)
(9)
House of the Long Shadows,
regia di Pete Walker (1983)
(10)
Dr. Goldfoot and the Bikini Machine,
regia di Norman Taurog (1965)
(11)
Le spie vengono dal semifreddo,
regia di Mario Bava (1966)
(12)
Hitchcock, regia di
Sacha Gervasi (2012)
(13)
Psycho, regia di
Alfred Hitchcock (1960)
(14)
Goodbye Again, regia
di Anatole Litvak (1961)
(15)
La décade prodigieuse,
regia di Claude Chabrol (1971)
(16)
The last of Sheila,
regia di Herbert Ross (1973)
(17)
Lucky Stiff, regia di Anthony
Perkins (1988)
(18)
Psycho II, regia di
Richard Franklin (1983)
(19)
Psycho III, regia di
Anthony Perkins (1986)
(20)
Winter Kills, regia di
William Richert (1979)
(21)
Crimes of Passion,
regia di Ken Russell (1984)
(22)
Edge of Sanity, regia
di Gérard Kikoïne (1989)
(23)
Le procès,
regia di Orson Welles (1962)
(24)
The Usual Suspects,
regia di Bryan Singer (1995)
(25)
Seven, regia di David
Fincher (1995)
(26)
American Beauty,
regia di Sam Mendes (1999)
(27)
Hurlyburly, regia di
Anthony Drazan (1998)
(28)
Glengarry Glen Ross,
regia di James Foley (1992)
(29)
The United State of Leland,
regia di Matthew Ryan Hoge (2003)
(30)
Pay It Forward, regia
di Mimi Leder (2000)
(31)The
Life of David Gale, regia di
Alan Parker (2003)
(32)
Baby Driver, regia di
Edgar Wright (2017)
(33)
Albino Alligator,
regia di Kevin Spacey (1996)
(34)
Beyond the Sea, regia
di Kevin Spacey (2004)
(35)
K-PAX, regia di Iain
Softley (2001)
(36)
Superman Returns,
regia di Bryan Singer (2006)
(37)
Ordinary Decent Criminal,
regia di Thaddeus O'Sullivan (2000)
(38)
Nine Lives, regia di
Barry Sonnenfeld (2016)
(39)
House of Cards -
serie TV (2013-cinque stagioni)
giovedì 26 luglio 2018
Le lacrime di Kevin Spacey - seconda parte
Considerazioni di Claudia Salvatori
È
il 1960. Qualcosa sta cambiando nel mondo e nell'immaginario
collettivo: un nuovo modo di percepire il Male. Ora non arriva più
da lontananze tenebrose e infernali al di fuori di noi, ma da abissi
oscuri (ma forse non insondabili) all'interno
di noi. Cominciamo a sapere che ogni persona ha una parte buona e
una cattiva, e che spesso le due parti si mescolano
inestricabilmente.
I
mostri siamo noi: la psicanalisi
regna ovunque sulla terra, entra nel discorrere quotidiano dei
salotti, nelle pieghe più riposte della cultura e del
linguaggio. Fa il suo ingresso a vele spiegate nella fiction.
Tutto
è cominciato con Ed Gein, un assassino del Wisconsin attivo
negli anni Cinquanta. Sorvoliamo sulle sue imprese, ma diciamo che ha
ispirato Psycho di
Robert Bloch e una miriade di altri scrittori e cineasti fino ad
American horrror story.
Il
film del 2012 Hitchcock (12)
mostra il regista impegnato
nell'ideazione e nella realizzazione di Psycho.
Stanco di intrecci giallo-rosa spionistici, sente il bisogno di
cambiare, di dare una nuova svolta al suo lavoro, di rischiare. Si
appassiona al romanzo di Robert Bloch e al suo protagonista Norman
Bates, che alla Paramount definiscono (sic
nella traduzione in lingua italiana) un finocchio ammattito
che uccide la gente negli abiti di sua madre.
La
genialità di Hithcock consiste soprattutto nella sua scelta
del protagonista, che è quella che i tempi gli richiedono e
che lui sa cogliere nell'aria.
Perché,
per interpretare Norman Bates, l'assassino schizofrenico con due
personalità – una delle quali è la mamma dissepolta e
mummificata in cantina – sceglie un delicato e sensibile attore che
fino allora è stato sugli schermi il miglior figlio, il
miglior fratello, il migliore amico, il miglior ragazzo.
Ciascuno
di noi è stretto in una trappola. Mordiamo e graffiamo
soltanto l'aria, soltanto chi ci sta vicino. E non ci muoviamo di un
millimetro.
(Psycho)
Anthony
Perkins, nato nel 1932, talento musicale (che ha trasmesso a uno dei
suoi figli), poco prima di calarsi nella doppia personalità di
Norman Bates ha recitato al cinema e in commedie musicali a Broadway,
e inciso tre lp come cantante. Un suo singolo è stato
ventiquattresimo nella top 100 dei dischi più venduti.
Possiamo sentirlo, su Youtube, cantare Moonlight Swim:
con voce dolcissima.
Troppo
dolce.
Tanta
dolcezza deve celare qualcosa di molto cattivo, no? E se non c'era
nulla da celare, tanto meglio: la via è libera per scatenare
invenzioni e proiezioni.
Strana
carriera, quella di Anthony Perkins.
Iniziata
per trasmettere tenerezza e “normalità”, viene ribaltata
più volte, e lui è precipitato in un incubo, suo
(dall'interno di lui) e collettivo (dall'interno di noi proiettati su
di lui), costretto a rappresentare l'io diviso, la follia, la
duplicità, la “femminilità” e infine la sventura:
tutto quello che temiamo di ospitare in noi stessi, tutto quello che
potrebbe scappare
fuori da noi, tutto quello che preghiamo di non
essere.
La
sua interpretazione in Psycho (13)
è indimenticabile: misuratissima, ma attraversata da tutte le
scariche del suo corto circuito interno.
Anthony
non ride come Vincent: non può. Il suo Mamma,
sangue, sangue! lo agghiaccia e
ci agghiaccia. Anthony sorride, a labbra chiuse, come le antiche
statue delle divinità, ma la luce di pazzia nello sguardo ci
proietta in un mondo in cui dobbiamo temere la nostra ombra (o
piuttosto il nostro inconscio).
Quel
sorriso criminale, perduto, che non rinuncia alla sua soavità,
è uno dei cartelli indicatori sulla via del nuovo millennio.
Svegliatevi.
Questo è il mondo che avete voluto. È questo il mondo
in cui dovete vivere.
(Rebus
per un assassinio)
Da
Psycho in poi, come
sappiamo, Anthony è segnato da Norman Bates, come se lo
avessero spinto a un punto di non ritorno.
È
nuovamente un tenero amante in Le piace Brahms? (14),
ma presto diventa l'equivalente maschile della donna ragno: il
ragazzo sbagliato, “cattivo” o malato o troppo debole perché
la protagonista femminile possa appoggiarsi a lui.
Ritorna
al musical e fa altri film, ma è inseguito da quel Male, da
quella Morte che le platee di tutto il mondo hanno visto in
sovraimpressione sul suo viso.
Guardiamolo
in Dieci incredibili giorni (15),
tratto dal capolavoro degli Ellery Queen. Sono passati dieci anni da
Psycho, e la somatizzazione di Norman Bates è arrivata a
compimento. I tic, le smorfie del nevrotico spossessato si muovono
sotto la pelle, deformano la faccia sempre più scavata e
atterrita che gli conosceremo da ora in poi.
Anthony
tenta di difendersi, sicuramente: prendendo la parola. Scrive
insieme al compositore Stephen Sondheim la sceneggiatura di un
giallo, Un rebus per l'assassino
(16), con il quale vince un Edgar nel ʻ74. Smonta il meccanismo
dello show-biz e ne mostra il funzionamento: alcuni cineasti usano
una serie di crimini prima come gioco di società, e in seguito
come materiale per un film: chi sono i veri cattivi?
Il
suo umorismo vira sempre al nero: dirige Una fortuna da
morire (17), una black comedy in
cui un ragazzo, sentendosi fortunato perché invitato a cena
dalla ragazza dei suoi sogni, ignora di essere lui stesso la cena.
Si
può immaginare che Anthony si sia sentito dato in pasto a
Hollywood e al pubblico delle sale.
Vuole
prendere la fuga da Norman Bates, poi cambia idea e cerca giustamente
di assumermene il controllo, accettando di interpretare Psycho
II (18) e dirigendo Psycho
III (19).
L'assassino
malato di mente va protetto e rieducato, perciò nei sequel di
Psycho un Norman Bates
guarito cerca di riprendersi la propria vita, ma viene risospinto
nella follia dalle malefatte di altri. Ed è tragico che la sua
innocenza non valga a salvarlo e riportarlo fra i vivi.
(Intelligentemente, la serie Bates Motel,
un prequel di fantasia di Psycho,
mostra un Norman diciassettenne con la sua mamma ancora viva,
disturbati e fragili ma distrutti dalla marcia “normalità”
dell'ambiente).
Sembra
che la stessa sorte sia toccata all'attore in carne e ossa, che pur
lottando per tornare a ruoli “normali” non riesce più a
districare carne e ossa dall'identità dello psicopatico, dello
spostato, del borderline.
Un
film con un titolo italiano simile a quello del giallo da lui
scritto, Rebus per un assassinio,
(20) lo mostra ancora una volta come un criminale, al contempo banale
e surreale. È un piccolo funzionario megalomane e masochista
che vive in una topaia ma possiede un potere immenso smistando un
flusso di immagini, documenti e intercettazioni da tutto il mondo:
informazioni, buchi neri di informazioni, galassie di
informazioni. Manovra il
presidente degli Stati Uniti ma è a sua volta manovrato da
poteri forti invisibili e ineffabili.
In
questa interpretazione, interessante in quanto segnale dell'inizio
della civiltà contemporanea (o della fine della civiltà),
il suo volto è ulteriormente devastato, diventato di sasso.
Anche il corpo è come disarticolato, da insetto, da automa, da
essere disumanizzato e non più comprensibile.
Così
anche nella vita reale: c'è una frattura tangibile fra le sue
interviste giovanili e quelle tarde. Il sorriso è scomparso,
gli occhi sono accesi da una fissità vitrea. Una maschera di
dissoluzione, caos e decadenza.
Uccidimi!...
Rendi la mia vita degna di essere vissuta, dà un senso alla
mia morte. Io sono te. Uno di noi due deve morire perché
l'altro possa vivere.
(China
blue)
Così
dice Anthony alla prostituta ninfomane di China Blue (21),
dove interpreta un reverendo predicatore ossessionato dal sesso
(armato di un vibratore-pugnale), una nuova ed estrema versione di
Norman Bates, con un sogghigno pietrificato sul volto scavato, che
pare divorato dall'interno.
Nella
scena climax, dopo averci fatto crepare dal ridere suonando il piano
e cantando, morirà infilzato dal suo stesso vibratore.
Ovviamente indossando i vestiti di China Blue e pronunciando le sue
ultime parole con la voce di lei.
Da
Psycho in poi sono
usciti film con emuli di Norman Bates muniti di tre, cinque, otto
personalità; ora la schizofrenia è globale, la
centrifuga delle identità inarrestabile, e la psicanalisi la
fa da padrona nei programmi televisivi di cronaca nera.
Una
delle ultime apparizioni di Anthony è nel doppio ruolo del
Dottor Jekyll e Mister Hyde sull'orlo della follia (22),
il padre e la madre di tutti i personaggi duplici della fiction.
Jekyll è stato traumatizzato da bambino (poteva essere
altrimenti?) e Hyde ritrova il sorriso di Psycho
esaltato da un incisivo trucco punk. Double the terror,
double the fun, recita la
locandina del film, che mostra i due volti dell'attore nelle sue due
identità. Doppio il terrore, doppio il divertimento.
Ma
alla fine il cattivo, in quanto folle, posseduto da sua madre o da un
filtro o trauma che lo altera, è un non colpevole, e il ruolo
che gli rende più giustizia è quello di Joseph
K. ne Il processo (23)
di Orson Wells. La vittima di un vivere e un morire resi insensati
non da una condanna metafisica, ma dalla caduta libera nel vuoto.
Giustizia,
ma non glorificazione per Anthony Perkins, rimasto caso esplicativo
di un bignamino di psicologia uso famiglia.
In
aggiunta alle difficoltà e alle sofferenze della sua vita
privata, questo attore è stato meno amato di quanto avrebbe
meritato. Non ci amiamo più molto, né in noi stessi né
negli altri, e non c'è più gloria per nessuno.
Anthony
Perkins muore nel 1992 e un anno dopo se ne va anche Vincent Price.
Sta
per iniziare il terzo millennio, e abbiamo già cominciato a
chiederci il giorno e l'ora della fine del mondo.
Ma
c'è un'altra rivoluzione antropologica in corso. Negando il
Bene e il Male assoluti, il bianco e il nero, abbiamo esagerato col
grigiore e ora questo colore è onnipervasivo. La società
ha aperto tutte le gabbie alle peggiori pulsioni della natura umana,
e non sa gestire le belve che ne sono uscite. Occorre difendersi,
eleggendo questo grigio unico a norma ed espellendo i mostri.
Il
risultato è un mondo (e uno stile di vita) dominato da un
satanismo molle, ignaro, sempre più robotizzato e idiotizzato,
con un suicidio di adolescente a colazione, un femminicidio a pranzo
e uno stupro di gruppo a cena, e bullismo reale e virtuale a ogni ora
del giorno ogni giorno. Non è esattamente che siamo adoratori
di Satana, ma ci comportiamo come se lo fossimo, senza saperlo o
fingendo di non saperlo.
Siamo
divisi ora fra persone grigie “comuni” e persone “orribili”.
Il Male, dopo essere passato attraverso di noi, è tornato
fuori. Fuori, ma non
in un altrove mitico, fantastico, piacevolmente orribile. Fuori in
senso fisico. Nella strada di fronte, sullo stesso ballatoio, ma
fuori.
E
fuori in senso psichico, emotivo, caratteriale: non lo si comprende.
L'assassino è sì l'assassino della porta accanto, ma se
non è recuperabile e messo in riabilitazione diventa un
enigma, è quello che chi l'avrebbe mai detto.
In definitiva, l'escluso sociale, perché nessuno vuole esserlo
o esserne coinvolto.
E
in un certo modo, paradossalmente, il Bene e il Male tornano a essere
valori assoluti: lo si vede dagli tsunami di odio che si alzano
contro le persone “orribili” e dall'aria di linciaggio che tira
quando arrestano un presunto colpevole. Ma sono fanatismi assoluti di
una macchina impazzita e del tutto viscerale.
Ora,
per rappresentare tutto questo, occorre un nuovo tipo di attore.
Qualcuno che sia in grado di raccogliere l'eredità dei
precedenti villain
dello schermo ed essere l'assassino della porta accanto, il male
(ormai non ha più la lettera maiuscola) che in alcune
condizioni si rovescia nel bene (idem) e sa agire da santo, e anche da uomo comune. Impossibile? No. Quel qualcuno è già
lì.
martedì 24 luglio 2018
Le lacrime di Kevin Spacey - prima parte
Considerazioni di Claudia Salvatori
E
voi, quanti attori avete distrutto, come avete distrutto me?
(Oscar
insanguinato)
Uno
dei primi segnali inglobati nel corpo della fiction della distruzione
dell'attore potrebbe arrivare nel 1973 da Oscar
insanguinato (1).
Per
attore intendiamo qui l'interprete del deviante, del disuguale,
dell'assassino, del mostro, del pazzo, dell'alieno o alienato, di chi
diverge nella mente, nella sfera emotiva e negli ideali, di chi
disturba quelle certezze sociali che basta solo sfiorare e
leggermente destabilizzare per scatenare panico e furore
incontrollato.
È
questo l'artista su cui sta calando la scure di una feroce esecuzione
mediatica, al termine di un processo che è durato per tutto il
secolo scorso e in cui abbiamo assistito alla distruzione della
scrittura, della pittura, della musica e di ogni altra arte. Il
medium carismatico dei nostri terrori da esorcizzare, un aspetto di
quello che una volta era lo sciamano, il Grande Attore.
Sono
molti gli interpreti di mostri che meriterebbero attenzione, ma qui
ci occuperemo di tre di loro, due morti e un disperso. Tre attori
diversi fra loro per età, formazione, stile e contesto in cui
si sono mossi, ma che hanno in comune alcuni elementi chiave: immenso
talento, intelligenza, cultura, ironia, versatilità, una
profonda consapevolezza
di sé, del sé che manifestano su palcoscenici e
schermi, e della differenza fra le due cose. Oltre
all'impossibilità di essere collocabili in una forma
definitiva, di rendersi per amore o per forza prevedibili.
All'interesse per altre forme d'espressione, che siano il
collezionismo d'arte o la musica, la scrittura o la regia. Al fascino
che li rende amabili quanto più i loro personaggi sono odiosi.
E alla capacità, quando serve, di essere divertentissimi.
Non
potremo ripercorrere l'intera loro sterminata filmografia
(occorrerebbero tre volumi), ma tenteremo di ricostruire da indizi
sparsi, come se fossimo sulla scena di un crimine, i loro percorsi
esistenziali e professionali, il senso di quello che ci hanno detto e
donato.
Chi
recita la battuta tratta da Oscar insanguinato
è Vincent Price, nato nel 1911, che qui interpreta un
personaggio scritto (cucito) su di lui: è un grande attore
shakespeariano di teatro. Rovinato dai critici e recensori (oggi si
direbbe haters),
spinto al suicidio, sopravvive e si vendica dei nemici uccidendoli
uno dopo l'altro nelle modalità in cui vengono compiuti i più
efferati omicidi nelle tragedie di Shakespeare.
Ecco
dunque un esempio di come si realizza l'unione tra film horror e
cultura alta, fra intrattenimento popolare e patrimonio letterario
internazionale. Sulla stessa linea i film di Roger Corman
interpretati dallo stesso Vincent, pastiche
che adattano per lo schermo i racconti di Poe. E anche La
città dei mostri (2), in
cui Poe e Lovecraft sono mescolati e amalgamati, e Vincent si trova
alle prese con il Necronomicon.
Ma non dobbiamo dimenticare che questi film, oggi di culto, sono
b-movie al tempo in cui vengono realizzati, al punto che per
produttori, registi e attori (incluso lo stesso Vincent Price) sarà
necessario un “recupero” e una “rivalutazione”.
Dopo
un esordio giovanile in ruoli “normali” da marito, fidanzato o
amante, perfino seduttivo grazie alla presenza scenica e alla nobiltà
della figura, dopo ruoli da “buono” e dopo aver interpretato un
prete ne Le chiavi del paradiso (3),
a Vincent viene irrimediabilmente assegnata la maschera del perfido e
malvagio, ed è così che lo ricorderemo per sempre:
basta pensare alla sua mimica facciale nel ruolo del capocantiere
egizio (destinato a essere ammazzato da Mosè) ne I
dieci comandamenti (4),
o nel ruolo del sacerdote (sempre egizio) in Nefertite
regina del Nilo (5).
Viene
da domandarsi perché.
La
vita reale, come il cinema, è un gioco di ruolo, uno
sterminato e onnipervasivo casting in cui si recita, scegliendo
l'immagine e i comportamenti più favorevoli da presentare al
pubblico; ma perlopiù non ci si può sottrarre
all'essere scelti per
interpretare un determinato personaggio sociale. Vengono proiettate
su di noi la mente e l'identità segreta
degli altri, e lo sguardo degli altri è in grado di
condizionarci con paurosa potenza, talvolta rendendoci estranei a noi
stessi.
Questo
vale ancor più per la realizzazione di un film, in cui sono in
gioco grandi investimenti in denaro, fortissime ambizioni e
spesso inesplicabili, deliranti tensioni.
Un
attore proietta dallo schermo la proiezione che una collettività
ha effettuato su di lui/lei.
Non
è un gioco di parole. Tutta la fortuna o sfortuna critica di
un attore e perfino certe conseguenze sulla sua vita privata stanno
nel suo modo di gestire questa proiezione, da come la manipola
accettandola o smentendola, dibattendovisi dentro rabbiosamente o
adattandovisi con complicità, fuggendone o usandola per
provocare, soffrendola o rigettandocela in faccia con sfida.
Vincent
Price ha deciso di giocarci, riderne e far ridere.
Per
questo in una delle sue interviste può ben dichiarare che the
most terrifyng line I ever sayed in my life is BUH! (la
battuta più terrificante che ho mai pronunciato nella mia vita
è BUH!).
Tutti
devono poter dire ai loro amici quanto è divertente essere
spaventati a morte!
(La
maschera di cera)
Il
ruolo tipico di Vincent (con le varianti di tiranno, inquisitore,
stregone, morto vivente, colpito da maledizione) è quello di
un suicida, o suicidato, o assassinato, che risorge sfigurato nella
mente o nel corpo e si trasforma in serial killer.
Ne
La maschera di cera
(6), molti elementi prefigurano tragicamente la distruzione
dell'attore: i volti dei manichini di cera (di assassini e
assassinati) che si sciolgono, moltiplicazioni dello stesso volto di
Vincent, loro creatore, che segue la loro sorte e diventa materia
molle sotto l'azione del fuoco. Distrutto l'estroso e buono scultore
del macabro, resta soltanto un folle assassino che porta una maschera
da uomo “normale” (la maschera del suo vero volto di un tempo) e
riempie il nuovo museo di cadaveri ricoperti di cera.
Nel
fantasmagorico, musicale L'abominevole Dottor Phibes
(7), il volto di Vincent è un nudo teschio, e lo stesso
incidente che gli ha distrutto le sembianze gli ha tolto anche la
voce. È un grande organista e un mago della meccanica, e
dirige un'orchestra di automi musicisti. Il suo operato è
quello di un serial killer vendicatore che uccide con le piaghe
bibliche d'Egitto (ancora l'Egitto!) gli assassini della moglie.
Forse
è questo il film che fornisce l'indizio rivelatore
dell'utilizzo di Vincent Price nelle produzioni horror di nicchia:
nel finale, compiuta la sua missione, si seppellisce automummificato
insieme alla sua Regina in un sarcofago d'oro come un re egizio
solare, per vivere con lei nell'eternità. Sarà per
quella certa sua aria di antica regalità? Il re, nel mondo
moderno, va punito; gli si ridisegna sul volto una maschera da
buffone, da vizioso, da idiota o da cadavere.
Ma
lui gioca sempre: gli basta sollevare un sopracciglio e l'angolo
delle labbra per trovare l'esatto equilibrio fra orrore e
divertimento, fra calarsi nel suo ruolo e insieme prenderne la giusta
distanza. Bisogna ascoltare la sua risata “satanica” al termine
del lungo recitativo che fa da intro
a Thriller di Michael
Jackson per capire tutto. Si ride insieme a lui, irresistibilmente.
Ma
qual è il tipo di orrore, il tipo di Male che Vincent
trasmette attraverso la proiezione da orco operata su di lui? È,
appunto, un Male che viene dalla fiction del tardo Ottocento, dalle
fiabe etniche, dalle antiche saghe e dagli spaventi primitivi
dell'umanità. È un terrore from beyond,
per citare un titolo di Lovecraft: dall'oltre, dall'altrove,
dall'inconoscibile. L'orco nella foresta, il vampiro nel castello,
l'alchimista nel suo antro pieno di alambicchi e la creatura
innominabile che ne striscia fuori, l'artista che turba con il suo
virtuosismo diabolico.
Vincent
Price è la nostra infanzia e ci incute paura perché
siamo bambini. Riflette un tipo di società ancora ingenua e
coesa, ancora sufficientemente convinta della propria salute, pur se
in preda alle erosioni epocali.
Lo
ha ben capito Tim Burton, che gli ha dedicato il suo primo
cortometraggio, Vincent.
È lo stesso Burton il bambino che muore di paura perché
crede di essere
Vincent Price: ma naturalmente da quel tipo di morte si risorge ogni
volta che si esce dal cinema.
Tim
Burton lo vuole nel ruolo dell'Inventore in Edward mani di
forbice (8). Qui Vincent ritorna
al suo originario reame di fiaba e appare irreale, diafano,
ultraterreno: un Frankenstein dal sorriso sempre sghembo ma dagli
occhi pieni di luce, che dà vita a un essere puro, portatore
di bellezza e bontà, e muore prima di potergli dare mani
umane. Come Molière, recita in scena la propria morte poco
tempo prima di andarsene davvero, e sembra che stia per ascendere al
cielo.
Quasi
una glorificazione postuma anticipata.
Meno
glorioso, e più spento e stanco, come appiattito, appariva una
decina d'anni prima nel metalinguistico La casa delle ombre
lunghe (9), in cui recitava
insieme alle altre icone dell'horror: Christopher Lee, Peter Cushing,
John Carradine. Ormai Vincent, che aveva citato se stesso per tutta
la vita, era stato raggiunto dai postmoderni citazionisti. Il film,
pur restando una delizia per l'intelletto, è una serie di
ricalchi, incastri e scatole a sorpresa: sia Vincent che i suoi
colleghi si comportano come bambini offesi a cui hanno rubato e
guastato il giocattolo da loro costruito.
Del
resto, nell'ultimo ventennio della sua carriera, Vincent Price era
scivolato sempre più a fondo nella parodia, sia dei suoi
vecchi ruoli che di nuovi personaggi, come il villain
antagonista dell'agente segreto in Dr. Goldfoot e il nostro
agente 00¼, (10) girato
in America e introducing Franco and Ciccio,
e il suo seguito italiano Le spie vengono dal semifreddo
(11), sempre con Franco Franchi
e Ciccio Ingrassia.
Non
c'era più posto per il tipo di paura che Vincent incarnava,
per il mostro che viene da un altro mondo.
Siamo
chiusi del passato. Il destino ha negato alla nostra famiglia un
futuro.
(La
casa delle ombre lunghe)
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