sabato 28 luglio 2018
La vespa e la formica
Recensione di Andrea Carlo Cappi
Potrebbe
essere il titolo di una favola di Esopo in chiave entomologica, ma mi
riferisco invece a Ant-Man and the Wasp, serie a fumetti anni Sessanta della Marvel Comics dedicata alle imprese
dei due supereroi eponimi – le cui vere identità erano
all’epoca Hank Pym e Janet van Dyne – quando non apparivano insieme ad altri supereroi in The Avengers. E
mi riferisco soprattutto al film che nell’estate 2018 vede invece
come protagonisti i personaggi che, fumettisticamente, ne hanno
assunto i ruoli nella generazione successiva, Scott Lang e Hope van
Dyne, figlia dei primi due.
Innanzitutto
vi rassicuro: non ho intenzione di abbandonarmi qui ad alcuno spoiler
sulla produzione più recente e attuale dei Marvel Studios,
anche se ne troverete qualcuno riguardante i film degli anni passati.
Ma penso di poter affermare ciò che tutti gli appassionati già
sanno: dopo Infinity War,
il cosiddetto MCU – l’universo cinematografico che riunisce buona parte, ma non tutti, dei personaggi dei fumetti Marvel visti nell’ultimo decennio su grande e piccolo schermo – è in sospeso fino alla tarda primavera
del 2019, nell’attesa della seconda parte del film dedicato ai
Vendicatori e alle Guerre dell’Infinito. Il che non impedisce a
sceneggiatori e registi di fare cronologicamente qualche passo
indietro nel tempo.
Nel
caso di Ant-Man and the Wasp,
si parla solo di un balzo a qualche settimana prima di
Infinity War,
spiegando in che cosa fossero impegnati i personaggi di questa
sotto-serie e perché nessuno di loro abbia più a che
fare con l’una o l’altra fazione in cui i Vendicatori si erano
divisi nel corso di Captain America – Civil War.
Va ricordato che, grazie al sistema tecnologicamente avanzato
contenuto nella sua tuta, Ant-Man è in grado di cambiare
dimensioni, raggiungendo quelle di una formica (come lascia intendere
il nome) per tornare poi a quelle normali; un intenso addestramento
impartitogli dal suo mentore Hank Pym e dalla figlia di questi,
Hope, ha fatto di lui un combattente formidabile nell’una e
nell’altra taglia. Ma in Civil War
lo abbiamo visto applicare la stessa tecnologia in senso inverso,
trasformandosi – come già a suo tempo si era visto nei
fumetti – in Giant Man durante lo scontro tra supereroi in
Germania, dal lato dei ribelli.
Catturato
dopo quell’episodio, in base ad accordi tra i governi tedesco e
americano, e nel rispetto del Protocollo di Sokovia sulla limitazione
delle attività superumane, Scott Lang (Paul Rudd) ha
patteggiato due anni di arresti domiciliari, nel corso dei quali non
può allontanarsi di un millimetro dai confini domestici
prestabiliti, tantomeno impegnarsi in attività da supereroe.
Né gli è consentito avere contatti con Hank Pym
(Michael Douglas), inventore del processo di miniaturizzazione
molecolare oltre che già supereroe nei panni di Ant-Man negli
anni Ottanta, prima da solo, poi insieme a Janet/Wasp; o con la
figlia di questi, Hope (Evangeline Lilly), che abbiamo lasciato alla
fine di Ant-man mentre
era sul punto di collaudare una versione modernizzata della tuta di
Wasp.
La
scena di apertura del film ci riporta indietro di trent’anni,
quando Hank e Janet (Michelle Pfeiffer, ringiovanita in questa
sequenza grazie a sofisticati effetti speciali) si congedarono dalla
figlia prima di partire per una missione che si sarebbe rivelata
fatale e di cui abbiamo già visto una sequenza nel precedente
Ant-Man: per
disinnescare un missile nucleare prima che raggiungesse il bersaglio,
Janet dovette miniaturizzarsi a oltranza, riuscendo nell’intento ma
perdendosi poi in un universo quantico da cui non avrebbe mai fatto
ritorno. Tuttavia, nel corso della sua prima avventura, Scott non ha
avuto scelta che usare a sua volta lo stesso espediente, riducendosi
a misure subatomiche ma riemergendo grazie alle nuove tecnologie
sviluppate nel frattempo da Hank. E se Janet fosse ancora viva,
laggiù, da qualche parte, e le scoperte scientifiche del
marito potessero ora permetterle di tornare?
Va
precisato che, mescolando elementi presenti da mezzo secolo nei
fumetti Marvel (a volte raffigurati con memorabili scenari
psichedelici) e teorie scientifiche contemporanee, il Regno Quantico
è un universo vero e proprio, uno dei tanti scoperti da
Stephen Strange nella sua prima lezione di arti mistiche nel film
Doctor Strange, in cui
le leggi convenzionali dello spazio-tempo perdono di validità.
Ma, stando a quanto si apprende in questa nuova pellicola, certi
esperimenti nel campo della fisica quantistica possono avere
conseguenze imprevedibili. Del resto Scott ancora non lo sa, ma la
sua esperienza sub-atomica ha lasciato in lui più tracce di
quanto possa immaginare.
Così,
mentre lui passava due anni senza uscire di casa, giocando con la
figlia e facendo da consulente all’agenzia di sicurezza privata in
cui lavorano Luis (Michael Peña) e i suoi ex-compagni di
galera – opportunamente denominata X-Con, che suona come ex-con,
ovvero ex-detenuti – Hank e Hope si sono dati da fare, nonostante
siano tuttora ricercati dall’FBI in quanto complici indiretti e
involontari delle attività di Ant-Man come supereroe ribelle.
Hanno perfezionato la tecnica di
miniaturizzazione-sminiaturizzazione, applicandola ad autoveicoli e
persino a un intero edificio, e progettato un portale per viaggiare
nell’universo quantico. Hope (che nel frattempo si è fatta
crescere i capelli, abbandonando il rigido caschetto del primo film,
meno pratico per indossare l’elmetto) ha ormai ereditato il ruolo
di Wasp, cosa che le torna utile quando deve trattare con loschi
figuri per procurarsi i componenti che occorrono per completare il
progetto.
Per consentire a Hank di giungere
all’obiettivo finale – la ricerca di Janet – Scott e Hope
devono ora riunire le forze per fronteggiare il subdolo mercante
tecnologico Sonny Burch (Walton Goggins); scontrarsi con un
misterioso rivale denominato Ghost (Hannah John-Kamen) che si
interessa alla stessa tecnologia; discutere con un astioso collega
del dottor Pym, Bill Foster (Laurence Fishburne); e sfuggire
all’agente FBI Jimmy Woo (Randall Park). Mentre il film si addentra
sempre di più nella sua dimensione fantastica, non mancano il
cameo del creatore della Marvel, Stan Lee, e, dato che siamo a San
Francisco, una variante inedita del classico inseguimento tra auto
sulle strade collinari.
Il
film, che rappresenta il ventesimo episodio della saga cominciata nel
2008 con Iron Man, è
una piacevole mescolanza di poliziesco, azione, commedia (con le
consuete gag del gruppo di ex-galeotti) e teorie (fanta)scientifiche
portate a un’efficace rappresentazione visiva. È
consigliabile avere visto ameno il precedente Ant-Man
per apprezzare molti degli aspetti che qui vengono ormai dati per
acquisiti. I doverosi collegamenti con la continuity dell’intera
saga sono riservati invece alle sequenze inserite nei titoli di coda,
che ancora molti spettatori si perdono nella frenesia di correre
all’uscita come se la sala andasse a fuoco; e sì che sono
una consuetudine da almeno quindici anni, in questo genere di film!
venerdì 27 luglio 2018
Le lacrime di Kevin Spacey - terza parte
Considerazioni di Claudia Salvatori
Si
commette un peccato in ogni strada, in ogni casa, e noi lo
tolleriamo, perché lo consideriamo comune... io invidio la tua
vita comune.
(Seven)
Kevin
Spacey comincia a risplendere sui nostri schermi a partire dal 1995
come il diavolo de I soliti sospetti (24),
l'assassino seriale di Seven
(25) e l'uomo comune di American Beauty
(26). Ancora giovane ma a un'età in cui altri attori meno
talentuosi hanno alle spalle un decennio di apparizioni a cadenza
annuale, il che fa supporre una carriera tutta in salita, forse
ostacolata, sia prima che (a giudicare dalla filmografia) dopo i
riconoscimenti e i due Oscar vinti (non protagonista e protagonista).
L'intelligenza
di The Usual Suspects
sta nel proporre un diavolo minimale, con la d minuscola: il diavolo
dell'ateismo è un boss del crimine organizzato, forse solo una
leggenda metropolitana, dal suggestivo nome turco-tedesco di Kaiser
Soze.
Un
diavolo non metafisico
ma da quadro astratto concettuale, che è diventato tale
sopprimendo in sé tutto quanto è umano e comune, cioè
facendo strage di tutta la sua famiglia prima che lo faccia la banda
rivale: Per avere potere non occorre
denaro, né essere in molti, ma fare quello che gli
altri non vogliono fare. Ma si
riunisce a tutto quanto è umano è comune presentandosi
sotto la forma dell'essere più fragile, debole e stupido della
gang e, da questa posizione, può manipolare tutto e tutti.
Un
capobanda assolutamente spietato e il più comune degli uomini:
cosa di più diabolico?
Kevin
Spacey è nato nel ʻ59, e ha potuto ancora ascoltare una
lontana eco di quei valori vertiginosamente caduti nella seconda metà
del secolo.
Il
suo assassino-predicatore-giustiziere di Seven, del tutto
privo di identità avendo
rinunciato all'umanità, alla speranza e in fondo alla vita, è
il grido d'agonia della moralità naturale che precipita
nell'inferno del materialismo meccanicistico, amorale e ignorante (è
soprattutto l'ignoranza dell'uomo comune che lui invidia, la sua non
conoscenza di Dante Alighieri, di Tommaso d'Aquino, il suo
pronunciare Sade come
Shade). È
questo grido, ben compreso e meglio interpretato, a conferire a Kevin
una terribile concretezza (più
che bucare lo schermo, sembra uscirne per toccarci) e
insieme l'abbaglio della più trasparente visione onirica.
Poco
tempo dopo, ritroviamo Kevin Spacey in American Beauty
nei panni di un tizio come tanti che si ribella alla sua routine,
come se avesse letto un manuale del tipo Come goderti la
vita e tenere a bada i rompicoglioni,
nella sapida sceneggiatura di Alan Ball (ideatore di Six
feet under).
In
fondo, in che cosa consiste l'espressione artistica di un attore,
ingabbiato fra le parole scritte da altri e la direzione di un
regista? Nel modo in cui si impadronisce di parole e gesti? Con il
corpo, la voce, le mani, gli occhi?
In
un'intervista dell'anno scorso, rilasciata qui in Italia, Kevin
Spacey dichiara di essere uno strumento atto a servire scrittori e
registi. Stupefacente e spiazzante, perché non siamo più
abituati all'umiltà dei grandi, e neppure a riconoscere il
merito degli scrittori in una produzione cinematografica. E vediamo
che i film da lui interpretati hanno spesso all'origine solidi
copioni teatrali – Bugie, baci, bambole e bastardi
(27) è di David Rabe, Americani
(28) di David Mamet) – sceneggiature splendidamente scritte (sul
set di Seven era
presente Andrew Walker, autore del racconto da cui il film è
tratto), sono ben diretti e hanno quasi sempre una ragione per essere
realizzati.
È
possibile che Kevin abbia influenzato, ispirato gli sceneggiatori, o
sia intervenuto sulla scrittura?
Forse
la stessa dissoluzione del mondo, e della macchina di produzione
della fiction, ha creato una fluidità che gli ha permesso di
gestire la proiezione operata su di lui
più di quanto non abbiamo potuto, in contesti più
rigidi, Vincent Price e Anthony Perkins. E in effetti, film dopo
film, vediamo comparire elementi che rimandano in modo inquietante, a
volte profetico, ai suoi dati biografici, reali o leggendari che
siano.
Perché
il piccolo diavolo contemporaneo è anche una vittima, a volte
un agnello sacrificale, un suicida volontario (come del resto in
Seven), e il ruolo che
Kevin sceglie per sé e li riassume tutti, quando può
scrivere, dirigere o produrre film, è quello di un condannato
a morte.
Diciamo
sempre che siamo umani quando dobbiamo giustificarci per aver fatto
qualcosa di molto brutto. Non lo diciamo mai quando salviamo un
bambino dalle fiamme.
(Il
delitto Fitzgerald)
Lo
dichiara un giovane assassino che ha ucciso per sollevarvi
dalla vostra tristezza in
Il delitto Fitzgerald (29), un
film poco noto prodotto da Kevin Spacey. Più avanti, lo stesso
assassino dice anche: A volte penso che il Male esista solo
per far risaltare il Bene, poco
prima di essere inevitabilmente ucciso per vendetta.
Diciamo
pure che il bene (anche con la b minuscola) si vende poco e con
estrema difficoltà.
Anche
se è un bene minimale e consiste solo nel fare, per esempio,
una buona azione a qualcuno pregandolo di “passare il favore” ad
altre tre persone, e così via, per formare una specie di
catena della bontà: Un sogno per domani
(30). Il bambino di dieci anni che inventa questo sistemino per
migliorare il mondo esegue un compito datogli dal suo insegnante,
appunto Kevin.
Kevin
che dice: Il mondo esterno esiste. Per quanto pensiate di
non volerlo incontrare, vi arriverà dritto in faccia.
Il suo volto è infatti sfregiato e ustionato in seguito a una
violenza domestica subita da piccolo.
La
bontà comunque è etichettata come “buonismo” e c'è
quasi da vergognarsi a farne una fiction, oggi. Anche se Un
sogno per domani non commette
peccato di edulcorazione: il bambino geniale e ottimista, poco dopo
aver detto che il mondo non è tutto una merda,
viene accoltellato a morte da un branco di bulli.
The
life of David Gale (31)
vede Kevin Spacey in un doppio
ruolo di condannato: ingiustamente calunniato e reso un morto civile,
si fa giustiziare per riabilitarsi.
Questo
film, una volta sicuramente apprezzato come opera “di impegno
civile”, è stato fortemente criticato come “morboso” e
“malato”. Alle soglie del 2000 non vogliamo più morire per
un'idea, né tollerare che altri lo facciano, a parte quei casi
(naufragio, incendio o altro) in cui siamo in pericolo di vita e
reclamiamo degli “eroi” che ci salvino.
Ma
Kevin continua a sacrificarsi, perfino nell'ultima sua
interpretazione, Baby Driver (32),
in cui da spietato capobanda si rovescia in romantico amante e si fa
ammazzare in una sparatoria per coprire la fuga dell'amato.
E
in un film da lui diretto, Insoliti criminali
(33) premiato al
nostro Noir in festival 1996, l'alligatore bianco che viene usato
come esca sacrificale nelle guerre territoriali è sicuramente
il personaggio in cui si identifica e che, fra gli altri, è il
più intelligente.
Beyond
the sea (34) è
probabilmente la sua operazione più ambiziosa, un film
scritto, diretto, prodotto, interpretato, cantato e ballato da lui:
una mimesi totale in un cantante (Bobby Darin) condannato a morte,
stavolta da una malattia degenerativa.
Povero
e malato, con una difficile vita famigliare, dovrebbe vivere quindici
anni ma canta fino a trentasei e raggiunge il successo con la sola
forza di volontà, perché chi viene dal basso
non può non salire.
Racconta se stesso, e in diversi passaggi della sceneggiatura informa
il pubblico che lo sta facendo: ha un tempo contato per dare quanto
può prima di scomparire. Il film, amato da una parte della
critica, è stato una catastrofe al botteghino.
Forse
più fortuna ha avuto il lirico e commovente K-pax
(35). Ecco
un altro doppio ruolo:
di alieno vivente in un mondo di armonia e giustizia e pazzo
traumatizzato catatonico.
Kevin
Spacey è nato il 26 luglio. Nel film l'evento insopportabile,
quello che gli rende impossibile vivere e lo costringe alla fuga su
un altro pianeta (o nella follia, tutto è mantenuto
nell'ambiguità fino alla fine), avviene il 27 luglio.
È
possibile che Kevin abbia suggerito quella data per rivelare,
dissimulando, qualcosa di se stesso? Come se avesse voluto dire che
considera il giorno della sua nascita una sciagura, e la sola uscita
di sicurezza che non sia nell'autismo o nel suicidio è stato
il suo lavoro di attore.
Quando
ti fai fuori da solo prima che lo faccia qualcun altro puoi
controllare come succede.
(House
of cards, stagione 5)
Se
non può essere buono, Kevin esaurisce alla fine tutte le
sfaccettature del cattivo: poliziotto corrotto, rapinatore, mago
della truffa, lobbista, produttore cinico, venditore psicopatico, Lex
Luthor in Superman Returns (36).
Quasi
sempre ammazzato, sempre punito, a parte in Un perfetto
criminale, premio del pubblico
al Noir in festival 2000 (37), in cui è una simpatica
canaglia, un folletto shakespeariano birbante e un Robin Hood (con
due mogli e innumerevoli figli) in una foresta di palazzacci di
periferia.
Del
resto è anomalo anche come cattivo: non lo si vede mai
coinvolto in un'azione violenta (perfino in Seven
i delitti e le scene d'azione sono fuori campo), non taglia mai
nessuno in due con una motosega, al massimo assesta qualche pugno.
Ma
oltre non può andare, non può ripetere un altro Seven.
Dopo
i due Oscar, invece di un film da protagonista a cadenza almeno
biennale, comincia una serie di alterne vicende, di fallimenti
commerciali, di piccoli film che lo delimitano e lo spengono.
Si
fa degli haters, piovono i sarcasmi per aver interpretato Nine
lives – Una vita da
gatto (38) sdoppiandosi in
un'identità da gatto (ma da quando è una cattiva azione
fare un film per ragazzi?).
Ritorna
al teatro da cui è venuto e dirige l'Old Vic di Londra,
recitando oltre un centinaio di repliche di Riccardo III, come a
voler chiudere il cerchio con Vincent Price (anche lui interprete
storico di Riccardo).
Il
Grande Attore è diventato decisamente ingombrante... troppo
pesante, in quest'epoca di leggerezze.
Poi,
soprendentemente, arriva il capolavoro, la serie tv House
of cards (39), un successo
incontrastato che lo porta alla visibilità planetaria. Una
complessa macchina narrativa in cui riassume tutte le precedenti
esperienze e il senso dell'attuale epoca in una precisa prospettiva
storica, nei panni di un protagonista altrettanto complesso.
In
House of cards Kevin è
contemporaneamente e a tutti gli effetti un re antico con la sua
regina-uguale e speculare a sé (non avevamo ancora visto un
ruolo femminile esattamente alla pari
con il ruolo maschile in una fiction), un assassino senza scrupoli e
rimorsi (come Kaiser Soze, non ha figli, ma invece di ucciderli
rifiuta di metterli al mondo), l'uomo più potente del mondo
(il presidente degli States), e anche un uomo comune, che divide la
sorte dei milioni, miliardi di persone comuni. Tutti mescolati
insieme in un intrigo globale in cui non resta che far
torto o patirlo, come scriveva
il nostro (speriamo non dimenticato) Manzoni.
Francis
Underwood, le cui iniziali sui gemelli, FU, sono la contrazione di
Fuck you.
Come
un re antico è solo. Lo è sempre stato, è in
questo sta quello che hanno chiamato il suo “mistero”,
l'espressione di quegli occhi tristi, sempre tristi anche quando si
diverte e vuole far divertire al David Letterman show.
Ma
è solo anche come lo è una persona comune.
Non
può fare BUH! A nessuno, perché la gente ormai è
smaliziata, non ingenua come ai tempi di Vincent.
Come
spaventare, allora?
Bene,
quello che può fare è rompere la quarta parete teatrale
e parlare alla macchina da presa, a tutti e a nessuno, cioè a
noi. Come un attore di teatro che si stacca dall'azione, avanza un
po' sul proscenio e bisbiglia a parte
per informare il pubblico di quello che succede veramente.
Episodio
dopo episodio, stagione dopo stagione, ci parla raggiungendo le
nostre solitudini, svelandoci quello che siamo, come siamo diventati.
Con i suoi occhi tristi, in cui la gentilezza traspare sempre più
raramente, in cui le lacrime che spesso ha versato si sono congelate.
Parla
come un re che confida i segreti del suo potere, come un criminale
legittimato dalla guerra di tutti contro tutti; e come una persona
comune, in un flusso inarrestabile di logorrea (il suo personaggio ne
I soliti sospetti si
chiamava Verbal),
raccontando la sua vita come se fosse una serie televisiva.
Ma
lui ribalta la serie televisiva e la racconta come se fosse (ed è)
la vita, la vita di tutti noi, con la nostra patetica presunzione di
essere re, i nostri piccoli atti criminali, la nostra invidia e la
nostra ipocrisia, e la nostra rinuncia alla pietà.
Di
chi sia stata l'idea di farlo commentare quello che sta
facendo nella fiction, se sua o
di uno degli ideatori e registi della serie, non sappiamo. Sappiamo
che lui è consapevole, e la cosa in sé sarebbe già
un valore da preservare.
Anche
se è prevista a luglio l'uscita americana di Billionaire
Boys Club,
di James
Cox, l'ultimo film in cui ha recitato tra il 2015 e il 2016, Kevin
Spacey forse non potrà più lavorare.
Le
coscienze pensanti, con la capacità e la volontà di
comunicare, si stanno estinguendo come le tigri siberiane, per questo
la sua scomparsa, come hanno osservato le poche persone di buon
senso, sarebbe una perdita incalcolabile.
Senza
di lui saremo ancora più soli, muti e sordi.
E
gli specchi già da tempo non ci riflettono più.
I film citati nel testo:
(1)
Theatre of Blood,
regia di Douglas Hickox (1973)
(2)
The Haunted Palace,
regia di Roger Corman (1963)
(3)
The Keys of the Kingdom,
regia di John M. Stahl (1944)
(4)
The Ten Commandments,
regia di Cecil B. DeMille (1956)
(5)
Nefertite, regina del Nilo,
regia di Fernando Cerchio (1961)
(6)
House of Wax, regia di
André De Toth (1953)
(7)
The Abominable Dr. Phibes,
regia di Robert Fuest (1971)
(8)
Edward Scissorhands,
regia di Tim Burton (1990)
(9)
House of the Long Shadows,
regia di Pete Walker (1983)
(10)
Dr. Goldfoot and the Bikini Machine,
regia di Norman Taurog (1965)
(11)
Le spie vengono dal semifreddo,
regia di Mario Bava (1966)
(12)
Hitchcock, regia di
Sacha Gervasi (2012)
(13)
Psycho, regia di
Alfred Hitchcock (1960)
(14)
Goodbye Again, regia
di Anatole Litvak (1961)
(15)
La décade prodigieuse,
regia di Claude Chabrol (1971)
(16)
The last of Sheila,
regia di Herbert Ross (1973)
(17)
Lucky Stiff, regia di Anthony
Perkins (1988)
(18)
Psycho II, regia di
Richard Franklin (1983)
(19)
Psycho III, regia di
Anthony Perkins (1986)
(20)
Winter Kills, regia di
William Richert (1979)
(21)
Crimes of Passion,
regia di Ken Russell (1984)
(22)
Edge of Sanity, regia
di Gérard Kikoïne (1989)
(23)
Le procès,
regia di Orson Welles (1962)
(24)
The Usual Suspects,
regia di Bryan Singer (1995)
(25)
Seven, regia di David
Fincher (1995)
(26)
American Beauty,
regia di Sam Mendes (1999)
(27)
Hurlyburly, regia di
Anthony Drazan (1998)
(28)
Glengarry Glen Ross,
regia di James Foley (1992)
(29)
The United State of Leland,
regia di Matthew Ryan Hoge (2003)
(30)
Pay It Forward, regia
di Mimi Leder (2000)
(31)The
Life of David Gale, regia di
Alan Parker (2003)
(32)
Baby Driver, regia di
Edgar Wright (2017)
(33)
Albino Alligator,
regia di Kevin Spacey (1996)
(34)
Beyond the Sea, regia
di Kevin Spacey (2004)
(35)
K-PAX, regia di Iain
Softley (2001)
(36)
Superman Returns,
regia di Bryan Singer (2006)
(37)
Ordinary Decent Criminal,
regia di Thaddeus O'Sullivan (2000)
(38)
Nine Lives, regia di
Barry Sonnenfeld (2016)
(39)
House of Cards -
serie TV (2013-cinque stagioni)
giovedì 26 luglio 2018
Le lacrime di Kevin Spacey - seconda parte
Considerazioni di Claudia Salvatori
È
il 1960. Qualcosa sta cambiando nel mondo e nell'immaginario
collettivo: un nuovo modo di percepire il Male. Ora non arriva più
da lontananze tenebrose e infernali al di fuori di noi, ma da abissi
oscuri (ma forse non insondabili) all'interno
di noi. Cominciamo a sapere che ogni persona ha una parte buona e
una cattiva, e che spesso le due parti si mescolano
inestricabilmente.
I
mostri siamo noi: la psicanalisi
regna ovunque sulla terra, entra nel discorrere quotidiano dei
salotti, nelle pieghe più riposte della cultura e del
linguaggio. Fa il suo ingresso a vele spiegate nella fiction.
Tutto
è cominciato con Ed Gein, un assassino del Wisconsin attivo
negli anni Cinquanta. Sorvoliamo sulle sue imprese, ma diciamo che ha
ispirato Psycho di
Robert Bloch e una miriade di altri scrittori e cineasti fino ad
American horrror story.
Il
film del 2012 Hitchcock (12)
mostra il regista impegnato
nell'ideazione e nella realizzazione di Psycho.
Stanco di intrecci giallo-rosa spionistici, sente il bisogno di
cambiare, di dare una nuova svolta al suo lavoro, di rischiare. Si
appassiona al romanzo di Robert Bloch e al suo protagonista Norman
Bates, che alla Paramount definiscono (sic
nella traduzione in lingua italiana) un finocchio ammattito
che uccide la gente negli abiti di sua madre.
La
genialità di Hithcock consiste soprattutto nella sua scelta
del protagonista, che è quella che i tempi gli richiedono e
che lui sa cogliere nell'aria.
Perché,
per interpretare Norman Bates, l'assassino schizofrenico con due
personalità – una delle quali è la mamma dissepolta e
mummificata in cantina – sceglie un delicato e sensibile attore che
fino allora è stato sugli schermi il miglior figlio, il
miglior fratello, il migliore amico, il miglior ragazzo.
Ciascuno
di noi è stretto in una trappola. Mordiamo e graffiamo
soltanto l'aria, soltanto chi ci sta vicino. E non ci muoviamo di un
millimetro.
(Psycho)
Anthony
Perkins, nato nel 1932, talento musicale (che ha trasmesso a uno dei
suoi figli), poco prima di calarsi nella doppia personalità di
Norman Bates ha recitato al cinema e in commedie musicali a Broadway,
e inciso tre lp come cantante. Un suo singolo è stato
ventiquattresimo nella top 100 dei dischi più venduti.
Possiamo sentirlo, su Youtube, cantare Moonlight Swim:
con voce dolcissima.
Troppo
dolce.
Tanta
dolcezza deve celare qualcosa di molto cattivo, no? E se non c'era
nulla da celare, tanto meglio: la via è libera per scatenare
invenzioni e proiezioni.
Strana
carriera, quella di Anthony Perkins.
Iniziata
per trasmettere tenerezza e “normalità”, viene ribaltata
più volte, e lui è precipitato in un incubo, suo
(dall'interno di lui) e collettivo (dall'interno di noi proiettati su
di lui), costretto a rappresentare l'io diviso, la follia, la
duplicità, la “femminilità” e infine la sventura:
tutto quello che temiamo di ospitare in noi stessi, tutto quello che
potrebbe scappare
fuori da noi, tutto quello che preghiamo di non
essere.
La
sua interpretazione in Psycho (13)
è indimenticabile: misuratissima, ma attraversata da tutte le
scariche del suo corto circuito interno.
Anthony
non ride come Vincent: non può. Il suo Mamma,
sangue, sangue! lo agghiaccia e
ci agghiaccia. Anthony sorride, a labbra chiuse, come le antiche
statue delle divinità, ma la luce di pazzia nello sguardo ci
proietta in un mondo in cui dobbiamo temere la nostra ombra (o
piuttosto il nostro inconscio).
Quel
sorriso criminale, perduto, che non rinuncia alla sua soavità,
è uno dei cartelli indicatori sulla via del nuovo millennio.
Svegliatevi.
Questo è il mondo che avete voluto. È questo il mondo
in cui dovete vivere.
(Rebus
per un assassinio)
Da
Psycho in poi, come
sappiamo, Anthony è segnato da Norman Bates, come se lo
avessero spinto a un punto di non ritorno.
È
nuovamente un tenero amante in Le piace Brahms? (14),
ma presto diventa l'equivalente maschile della donna ragno: il
ragazzo sbagliato, “cattivo” o malato o troppo debole perché
la protagonista femminile possa appoggiarsi a lui.
Ritorna
al musical e fa altri film, ma è inseguito da quel Male, da
quella Morte che le platee di tutto il mondo hanno visto in
sovraimpressione sul suo viso.
Guardiamolo
in Dieci incredibili giorni (15),
tratto dal capolavoro degli Ellery Queen. Sono passati dieci anni da
Psycho, e la somatizzazione di Norman Bates è arrivata a
compimento. I tic, le smorfie del nevrotico spossessato si muovono
sotto la pelle, deformano la faccia sempre più scavata e
atterrita che gli conosceremo da ora in poi.
Anthony
tenta di difendersi, sicuramente: prendendo la parola. Scrive
insieme al compositore Stephen Sondheim la sceneggiatura di un
giallo, Un rebus per l'assassino
(16), con il quale vince un Edgar nel ʻ74. Smonta il meccanismo
dello show-biz e ne mostra il funzionamento: alcuni cineasti usano
una serie di crimini prima come gioco di società, e in seguito
come materiale per un film: chi sono i veri cattivi?
Il
suo umorismo vira sempre al nero: dirige Una fortuna da
morire (17), una black comedy in
cui un ragazzo, sentendosi fortunato perché invitato a cena
dalla ragazza dei suoi sogni, ignora di essere lui stesso la cena.
Si
può immaginare che Anthony si sia sentito dato in pasto a
Hollywood e al pubblico delle sale.
Vuole
prendere la fuga da Norman Bates, poi cambia idea e cerca giustamente
di assumermene il controllo, accettando di interpretare Psycho
II (18) e dirigendo Psycho
III (19).
L'assassino
malato di mente va protetto e rieducato, perciò nei sequel di
Psycho un Norman Bates
guarito cerca di riprendersi la propria vita, ma viene risospinto
nella follia dalle malefatte di altri. Ed è tragico che la sua
innocenza non valga a salvarlo e riportarlo fra i vivi.
(Intelligentemente, la serie Bates Motel,
un prequel di fantasia di Psycho,
mostra un Norman diciassettenne con la sua mamma ancora viva,
disturbati e fragili ma distrutti dalla marcia “normalità”
dell'ambiente).
Sembra
che la stessa sorte sia toccata all'attore in carne e ossa, che pur
lottando per tornare a ruoli “normali” non riesce più a
districare carne e ossa dall'identità dello psicopatico, dello
spostato, del borderline.
Un
film con un titolo italiano simile a quello del giallo da lui
scritto, Rebus per un assassinio,
(20) lo mostra ancora una volta come un criminale, al contempo banale
e surreale. È un piccolo funzionario megalomane e masochista
che vive in una topaia ma possiede un potere immenso smistando un
flusso di immagini, documenti e intercettazioni da tutto il mondo:
informazioni, buchi neri di informazioni, galassie di
informazioni. Manovra il
presidente degli Stati Uniti ma è a sua volta manovrato da
poteri forti invisibili e ineffabili.
In
questa interpretazione, interessante in quanto segnale dell'inizio
della civiltà contemporanea (o della fine della civiltà),
il suo volto è ulteriormente devastato, diventato di sasso.
Anche il corpo è come disarticolato, da insetto, da automa, da
essere disumanizzato e non più comprensibile.
Così
anche nella vita reale: c'è una frattura tangibile fra le sue
interviste giovanili e quelle tarde. Il sorriso è scomparso,
gli occhi sono accesi da una fissità vitrea. Una maschera di
dissoluzione, caos e decadenza.
Uccidimi!...
Rendi la mia vita degna di essere vissuta, dà un senso alla
mia morte. Io sono te. Uno di noi due deve morire perché
l'altro possa vivere.
(China
blue)
Così
dice Anthony alla prostituta ninfomane di China Blue (21),
dove interpreta un reverendo predicatore ossessionato dal sesso
(armato di un vibratore-pugnale), una nuova ed estrema versione di
Norman Bates, con un sogghigno pietrificato sul volto scavato, che
pare divorato dall'interno.
Nella
scena climax, dopo averci fatto crepare dal ridere suonando il piano
e cantando, morirà infilzato dal suo stesso vibratore.
Ovviamente indossando i vestiti di China Blue e pronunciando le sue
ultime parole con la voce di lei.
Da
Psycho in poi sono
usciti film con emuli di Norman Bates muniti di tre, cinque, otto
personalità; ora la schizofrenia è globale, la
centrifuga delle identità inarrestabile, e la psicanalisi la
fa da padrona nei programmi televisivi di cronaca nera.
Una
delle ultime apparizioni di Anthony è nel doppio ruolo del
Dottor Jekyll e Mister Hyde sull'orlo della follia (22),
il padre e la madre di tutti i personaggi duplici della fiction.
Jekyll è stato traumatizzato da bambino (poteva essere
altrimenti?) e Hyde ritrova il sorriso di Psycho
esaltato da un incisivo trucco punk. Double the terror,
double the fun, recita la
locandina del film, che mostra i due volti dell'attore nelle sue due
identità. Doppio il terrore, doppio il divertimento.
Ma
alla fine il cattivo, in quanto folle, posseduto da sua madre o da un
filtro o trauma che lo altera, è un non colpevole, e il ruolo
che gli rende più giustizia è quello di Joseph
K. ne Il processo (23)
di Orson Wells. La vittima di un vivere e un morire resi insensati
non da una condanna metafisica, ma dalla caduta libera nel vuoto.
Giustizia,
ma non glorificazione per Anthony Perkins, rimasto caso esplicativo
di un bignamino di psicologia uso famiglia.
In
aggiunta alle difficoltà e alle sofferenze della sua vita
privata, questo attore è stato meno amato di quanto avrebbe
meritato. Non ci amiamo più molto, né in noi stessi né
negli altri, e non c'è più gloria per nessuno.
Anthony
Perkins muore nel 1992 e un anno dopo se ne va anche Vincent Price.
Sta
per iniziare il terzo millennio, e abbiamo già cominciato a
chiederci il giorno e l'ora della fine del mondo.
Ma
c'è un'altra rivoluzione antropologica in corso. Negando il
Bene e il Male assoluti, il bianco e il nero, abbiamo esagerato col
grigiore e ora questo colore è onnipervasivo. La società
ha aperto tutte le gabbie alle peggiori pulsioni della natura umana,
e non sa gestire le belve che ne sono uscite. Occorre difendersi,
eleggendo questo grigio unico a norma ed espellendo i mostri.
Il
risultato è un mondo (e uno stile di vita) dominato da un
satanismo molle, ignaro, sempre più robotizzato e idiotizzato,
con un suicidio di adolescente a colazione, un femminicidio a pranzo
e uno stupro di gruppo a cena, e bullismo reale e virtuale a ogni ora
del giorno ogni giorno. Non è esattamente che siamo adoratori
di Satana, ma ci comportiamo come se lo fossimo, senza saperlo o
fingendo di non saperlo.
Siamo
divisi ora fra persone grigie “comuni” e persone “orribili”.
Il Male, dopo essere passato attraverso di noi, è tornato
fuori. Fuori, ma non
in un altrove mitico, fantastico, piacevolmente orribile. Fuori in
senso fisico. Nella strada di fronte, sullo stesso ballatoio, ma
fuori.
E
fuori in senso psichico, emotivo, caratteriale: non lo si comprende.
L'assassino è sì l'assassino della porta accanto, ma se
non è recuperabile e messo in riabilitazione diventa un
enigma, è quello che chi l'avrebbe mai detto.
In definitiva, l'escluso sociale, perché nessuno vuole esserlo
o esserne coinvolto.
E
in un certo modo, paradossalmente, il Bene e il Male tornano a essere
valori assoluti: lo si vede dagli tsunami di odio che si alzano
contro le persone “orribili” e dall'aria di linciaggio che tira
quando arrestano un presunto colpevole. Ma sono fanatismi assoluti di
una macchina impazzita e del tutto viscerale.
Ora,
per rappresentare tutto questo, occorre un nuovo tipo di attore.
Qualcuno che sia in grado di raccogliere l'eredità dei
precedenti villain
dello schermo ed essere l'assassino della porta accanto, il male
(ormai non ha più la lettera maiuscola) che in alcune
condizioni si rovescia nel bene (idem) e sa agire da santo, e anche da uomo comune. Impossibile? No. Quel qualcuno è già
lì.
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