giovedì 26 luglio 2018
Le lacrime di Kevin Spacey - seconda parte
Considerazioni di Claudia Salvatori
È
il 1960. Qualcosa sta cambiando nel mondo e nell'immaginario
collettivo: un nuovo modo di percepire il Male. Ora non arriva più
da lontananze tenebrose e infernali al di fuori di noi, ma da abissi
oscuri (ma forse non insondabili) all'interno
di noi. Cominciamo a sapere che ogni persona ha una parte buona e
una cattiva, e che spesso le due parti si mescolano
inestricabilmente.
I
mostri siamo noi: la psicanalisi
regna ovunque sulla terra, entra nel discorrere quotidiano dei
salotti, nelle pieghe più riposte della cultura e del
linguaggio. Fa il suo ingresso a vele spiegate nella fiction.
Tutto
è cominciato con Ed Gein, un assassino del Wisconsin attivo
negli anni Cinquanta. Sorvoliamo sulle sue imprese, ma diciamo che ha
ispirato Psycho di
Robert Bloch e una miriade di altri scrittori e cineasti fino ad
American horrror story.
Il
film del 2012 Hitchcock (12)
mostra il regista impegnato
nell'ideazione e nella realizzazione di Psycho.
Stanco di intrecci giallo-rosa spionistici, sente il bisogno di
cambiare, di dare una nuova svolta al suo lavoro, di rischiare. Si
appassiona al romanzo di Robert Bloch e al suo protagonista Norman
Bates, che alla Paramount definiscono (sic
nella traduzione in lingua italiana) un finocchio ammattito
che uccide la gente negli abiti di sua madre.
La
genialità di Hithcock consiste soprattutto nella sua scelta
del protagonista, che è quella che i tempi gli richiedono e
che lui sa cogliere nell'aria.
Perché,
per interpretare Norman Bates, l'assassino schizofrenico con due
personalità – una delle quali è la mamma dissepolta e
mummificata in cantina – sceglie un delicato e sensibile attore che
fino allora è stato sugli schermi il miglior figlio, il
miglior fratello, il migliore amico, il miglior ragazzo.
Ciascuno
di noi è stretto in una trappola. Mordiamo e graffiamo
soltanto l'aria, soltanto chi ci sta vicino. E non ci muoviamo di un
millimetro.
(Psycho)
Anthony
Perkins, nato nel 1932, talento musicale (che ha trasmesso a uno dei
suoi figli), poco prima di calarsi nella doppia personalità di
Norman Bates ha recitato al cinema e in commedie musicali a Broadway,
e inciso tre lp come cantante. Un suo singolo è stato
ventiquattresimo nella top 100 dei dischi più venduti.
Possiamo sentirlo, su Youtube, cantare Moonlight Swim:
con voce dolcissima.
Troppo
dolce.
Tanta
dolcezza deve celare qualcosa di molto cattivo, no? E se non c'era
nulla da celare, tanto meglio: la via è libera per scatenare
invenzioni e proiezioni.
Strana
carriera, quella di Anthony Perkins.
Iniziata
per trasmettere tenerezza e “normalità”, viene ribaltata
più volte, e lui è precipitato in un incubo, suo
(dall'interno di lui) e collettivo (dall'interno di noi proiettati su
di lui), costretto a rappresentare l'io diviso, la follia, la
duplicità, la “femminilità” e infine la sventura:
tutto quello che temiamo di ospitare in noi stessi, tutto quello che
potrebbe scappare
fuori da noi, tutto quello che preghiamo di non
essere.
La
sua interpretazione in Psycho (13)
è indimenticabile: misuratissima, ma attraversata da tutte le
scariche del suo corto circuito interno.
Anthony
non ride come Vincent: non può. Il suo Mamma,
sangue, sangue! lo agghiaccia e
ci agghiaccia. Anthony sorride, a labbra chiuse, come le antiche
statue delle divinità, ma la luce di pazzia nello sguardo ci
proietta in un mondo in cui dobbiamo temere la nostra ombra (o
piuttosto il nostro inconscio).
Quel
sorriso criminale, perduto, che non rinuncia alla sua soavità,
è uno dei cartelli indicatori sulla via del nuovo millennio.
Svegliatevi.
Questo è il mondo che avete voluto. È questo il mondo
in cui dovete vivere.
(Rebus
per un assassinio)
Da
Psycho in poi, come
sappiamo, Anthony è segnato da Norman Bates, come se lo
avessero spinto a un punto di non ritorno.
È
nuovamente un tenero amante in Le piace Brahms? (14),
ma presto diventa l'equivalente maschile della donna ragno: il
ragazzo sbagliato, “cattivo” o malato o troppo debole perché
la protagonista femminile possa appoggiarsi a lui.
Ritorna
al musical e fa altri film, ma è inseguito da quel Male, da
quella Morte che le platee di tutto il mondo hanno visto in
sovraimpressione sul suo viso.
Guardiamolo
in Dieci incredibili giorni (15),
tratto dal capolavoro degli Ellery Queen. Sono passati dieci anni da
Psycho, e la somatizzazione di Norman Bates è arrivata a
compimento. I tic, le smorfie del nevrotico spossessato si muovono
sotto la pelle, deformano la faccia sempre più scavata e
atterrita che gli conosceremo da ora in poi.
Anthony
tenta di difendersi, sicuramente: prendendo la parola. Scrive
insieme al compositore Stephen Sondheim la sceneggiatura di un
giallo, Un rebus per l'assassino
(16), con il quale vince un Edgar nel ʻ74. Smonta il meccanismo
dello show-biz e ne mostra il funzionamento: alcuni cineasti usano
una serie di crimini prima come gioco di società, e in seguito
come materiale per un film: chi sono i veri cattivi?
Il
suo umorismo vira sempre al nero: dirige Una fortuna da
morire (17), una black comedy in
cui un ragazzo, sentendosi fortunato perché invitato a cena
dalla ragazza dei suoi sogni, ignora di essere lui stesso la cena.
Si
può immaginare che Anthony si sia sentito dato in pasto a
Hollywood e al pubblico delle sale.
Vuole
prendere la fuga da Norman Bates, poi cambia idea e cerca giustamente
di assumermene il controllo, accettando di interpretare Psycho
II (18) e dirigendo Psycho
III (19).
L'assassino
malato di mente va protetto e rieducato, perciò nei sequel di
Psycho un Norman Bates
guarito cerca di riprendersi la propria vita, ma viene risospinto
nella follia dalle malefatte di altri. Ed è tragico che la sua
innocenza non valga a salvarlo e riportarlo fra i vivi.
(Intelligentemente, la serie Bates Motel,
un prequel di fantasia di Psycho,
mostra un Norman diciassettenne con la sua mamma ancora viva,
disturbati e fragili ma distrutti dalla marcia “normalità”
dell'ambiente).
Sembra
che la stessa sorte sia toccata all'attore in carne e ossa, che pur
lottando per tornare a ruoli “normali” non riesce più a
districare carne e ossa dall'identità dello psicopatico, dello
spostato, del borderline.
Un
film con un titolo italiano simile a quello del giallo da lui
scritto, Rebus per un assassinio,
(20) lo mostra ancora una volta come un criminale, al contempo banale
e surreale. È un piccolo funzionario megalomane e masochista
che vive in una topaia ma possiede un potere immenso smistando un
flusso di immagini, documenti e intercettazioni da tutto il mondo:
informazioni, buchi neri di informazioni, galassie di
informazioni. Manovra il
presidente degli Stati Uniti ma è a sua volta manovrato da
poteri forti invisibili e ineffabili.
In
questa interpretazione, interessante in quanto segnale dell'inizio
della civiltà contemporanea (o della fine della civiltà),
il suo volto è ulteriormente devastato, diventato di sasso.
Anche il corpo è come disarticolato, da insetto, da automa, da
essere disumanizzato e non più comprensibile.
Così
anche nella vita reale: c'è una frattura tangibile fra le sue
interviste giovanili e quelle tarde. Il sorriso è scomparso,
gli occhi sono accesi da una fissità vitrea. Una maschera di
dissoluzione, caos e decadenza.
Uccidimi!...
Rendi la mia vita degna di essere vissuta, dà un senso alla
mia morte. Io sono te. Uno di noi due deve morire perché
l'altro possa vivere.
(China
blue)
Così
dice Anthony alla prostituta ninfomane di China Blue (21),
dove interpreta un reverendo predicatore ossessionato dal sesso
(armato di un vibratore-pugnale), una nuova ed estrema versione di
Norman Bates, con un sogghigno pietrificato sul volto scavato, che
pare divorato dall'interno.
Nella
scena climax, dopo averci fatto crepare dal ridere suonando il piano
e cantando, morirà infilzato dal suo stesso vibratore.
Ovviamente indossando i vestiti di China Blue e pronunciando le sue
ultime parole con la voce di lei.
Da
Psycho in poi sono
usciti film con emuli di Norman Bates muniti di tre, cinque, otto
personalità; ora la schizofrenia è globale, la
centrifuga delle identità inarrestabile, e la psicanalisi la
fa da padrona nei programmi televisivi di cronaca nera.
Una
delle ultime apparizioni di Anthony è nel doppio ruolo del
Dottor Jekyll e Mister Hyde sull'orlo della follia (22),
il padre e la madre di tutti i personaggi duplici della fiction.
Jekyll è stato traumatizzato da bambino (poteva essere
altrimenti?) e Hyde ritrova il sorriso di Psycho
esaltato da un incisivo trucco punk. Double the terror,
double the fun, recita la
locandina del film, che mostra i due volti dell'attore nelle sue due
identità. Doppio il terrore, doppio il divertimento.
Ma
alla fine il cattivo, in quanto folle, posseduto da sua madre o da un
filtro o trauma che lo altera, è un non colpevole, e il ruolo
che gli rende più giustizia è quello di Joseph
K. ne Il processo (23)
di Orson Wells. La vittima di un vivere e un morire resi insensati
non da una condanna metafisica, ma dalla caduta libera nel vuoto.
Giustizia,
ma non glorificazione per Anthony Perkins, rimasto caso esplicativo
di un bignamino di psicologia uso famiglia.
In
aggiunta alle difficoltà e alle sofferenze della sua vita
privata, questo attore è stato meno amato di quanto avrebbe
meritato. Non ci amiamo più molto, né in noi stessi né
negli altri, e non c'è più gloria per nessuno.
Anthony
Perkins muore nel 1992 e un anno dopo se ne va anche Vincent Price.
Sta
per iniziare il terzo millennio, e abbiamo già cominciato a
chiederci il giorno e l'ora della fine del mondo.
Ma
c'è un'altra rivoluzione antropologica in corso. Negando il
Bene e il Male assoluti, il bianco e il nero, abbiamo esagerato col
grigiore e ora questo colore è onnipervasivo. La società
ha aperto tutte le gabbie alle peggiori pulsioni della natura umana,
e non sa gestire le belve che ne sono uscite. Occorre difendersi,
eleggendo questo grigio unico a norma ed espellendo i mostri.
Il
risultato è un mondo (e uno stile di vita) dominato da un
satanismo molle, ignaro, sempre più robotizzato e idiotizzato,
con un suicidio di adolescente a colazione, un femminicidio a pranzo
e uno stupro di gruppo a cena, e bullismo reale e virtuale a ogni ora
del giorno ogni giorno. Non è esattamente che siamo adoratori
di Satana, ma ci comportiamo come se lo fossimo, senza saperlo o
fingendo di non saperlo.
Siamo
divisi ora fra persone grigie “comuni” e persone “orribili”.
Il Male, dopo essere passato attraverso di noi, è tornato
fuori. Fuori, ma non
in un altrove mitico, fantastico, piacevolmente orribile. Fuori in
senso fisico. Nella strada di fronte, sullo stesso ballatoio, ma
fuori.
E
fuori in senso psichico, emotivo, caratteriale: non lo si comprende.
L'assassino è sì l'assassino della porta accanto, ma se
non è recuperabile e messo in riabilitazione diventa un
enigma, è quello che chi l'avrebbe mai detto.
In definitiva, l'escluso sociale, perché nessuno vuole esserlo
o esserne coinvolto.
E
in un certo modo, paradossalmente, il Bene e il Male tornano a essere
valori assoluti: lo si vede dagli tsunami di odio che si alzano
contro le persone “orribili” e dall'aria di linciaggio che tira
quando arrestano un presunto colpevole. Ma sono fanatismi assoluti di
una macchina impazzita e del tutto viscerale.
Ora,
per rappresentare tutto questo, occorre un nuovo tipo di attore.
Qualcuno che sia in grado di raccogliere l'eredità dei
precedenti villain
dello schermo ed essere l'assassino della porta accanto, il male
(ormai non ha più la lettera maiuscola) che in alcune
condizioni si rovescia nel bene (idem) e sa agire da santo, e anche da uomo comune. Impossibile? No. Quel qualcuno è già
lì.
martedì 24 luglio 2018
Le lacrime di Kevin Spacey - prima parte
Considerazioni di Claudia Salvatori
E
voi, quanti attori avete distrutto, come avete distrutto me?
(Oscar
insanguinato)
Uno
dei primi segnali inglobati nel corpo della fiction della distruzione
dell'attore potrebbe arrivare nel 1973 da Oscar
insanguinato (1).
Per
attore intendiamo qui l'interprete del deviante, del disuguale,
dell'assassino, del mostro, del pazzo, dell'alieno o alienato, di chi
diverge nella mente, nella sfera emotiva e negli ideali, di chi
disturba quelle certezze sociali che basta solo sfiorare e
leggermente destabilizzare per scatenare panico e furore
incontrollato.
È
questo l'artista su cui sta calando la scure di una feroce esecuzione
mediatica, al termine di un processo che è durato per tutto il
secolo scorso e in cui abbiamo assistito alla distruzione della
scrittura, della pittura, della musica e di ogni altra arte. Il
medium carismatico dei nostri terrori da esorcizzare, un aspetto di
quello che una volta era lo sciamano, il Grande Attore.
Sono
molti gli interpreti di mostri che meriterebbero attenzione, ma qui
ci occuperemo di tre di loro, due morti e un disperso. Tre attori
diversi fra loro per età, formazione, stile e contesto in cui
si sono mossi, ma che hanno in comune alcuni elementi chiave: immenso
talento, intelligenza, cultura, ironia, versatilità, una
profonda consapevolezza
di sé, del sé che manifestano su palcoscenici e
schermi, e della differenza fra le due cose. Oltre
all'impossibilità di essere collocabili in una forma
definitiva, di rendersi per amore o per forza prevedibili.
All'interesse per altre forme d'espressione, che siano il
collezionismo d'arte o la musica, la scrittura o la regia. Al fascino
che li rende amabili quanto più i loro personaggi sono odiosi.
E alla capacità, quando serve, di essere divertentissimi.
Non
potremo ripercorrere l'intera loro sterminata filmografia
(occorrerebbero tre volumi), ma tenteremo di ricostruire da indizi
sparsi, come se fossimo sulla scena di un crimine, i loro percorsi
esistenziali e professionali, il senso di quello che ci hanno detto e
donato.
Chi
recita la battuta tratta da Oscar insanguinato
è Vincent Price, nato nel 1911, che qui interpreta un
personaggio scritto (cucito) su di lui: è un grande attore
shakespeariano di teatro. Rovinato dai critici e recensori (oggi si
direbbe haters),
spinto al suicidio, sopravvive e si vendica dei nemici uccidendoli
uno dopo l'altro nelle modalità in cui vengono compiuti i più
efferati omicidi nelle tragedie di Shakespeare.
Ecco
dunque un esempio di come si realizza l'unione tra film horror e
cultura alta, fra intrattenimento popolare e patrimonio letterario
internazionale. Sulla stessa linea i film di Roger Corman
interpretati dallo stesso Vincent, pastiche
che adattano per lo schermo i racconti di Poe. E anche La
città dei mostri (2), in
cui Poe e Lovecraft sono mescolati e amalgamati, e Vincent si trova
alle prese con il Necronomicon.
Ma non dobbiamo dimenticare che questi film, oggi di culto, sono
b-movie al tempo in cui vengono realizzati, al punto che per
produttori, registi e attori (incluso lo stesso Vincent Price) sarà
necessario un “recupero” e una “rivalutazione”.
Dopo
un esordio giovanile in ruoli “normali” da marito, fidanzato o
amante, perfino seduttivo grazie alla presenza scenica e alla nobiltà
della figura, dopo ruoli da “buono” e dopo aver interpretato un
prete ne Le chiavi del paradiso (3),
a Vincent viene irrimediabilmente assegnata la maschera del perfido e
malvagio, ed è così che lo ricorderemo per sempre:
basta pensare alla sua mimica facciale nel ruolo del capocantiere
egizio (destinato a essere ammazzato da Mosè) ne I
dieci comandamenti (4),
o nel ruolo del sacerdote (sempre egizio) in Nefertite
regina del Nilo (5).
Viene
da domandarsi perché.
La
vita reale, come il cinema, è un gioco di ruolo, uno
sterminato e onnipervasivo casting in cui si recita, scegliendo
l'immagine e i comportamenti più favorevoli da presentare al
pubblico; ma perlopiù non ci si può sottrarre
all'essere scelti per
interpretare un determinato personaggio sociale. Vengono proiettate
su di noi la mente e l'identità segreta
degli altri, e lo sguardo degli altri è in grado di
condizionarci con paurosa potenza, talvolta rendendoci estranei a noi
stessi.
Questo
vale ancor più per la realizzazione di un film, in cui sono in
gioco grandi investimenti in denaro, fortissime ambizioni e
spesso inesplicabili, deliranti tensioni.
Un
attore proietta dallo schermo la proiezione che una collettività
ha effettuato su di lui/lei.
Non
è un gioco di parole. Tutta la fortuna o sfortuna critica di
un attore e perfino certe conseguenze sulla sua vita privata stanno
nel suo modo di gestire questa proiezione, da come la manipola
accettandola o smentendola, dibattendovisi dentro rabbiosamente o
adattandovisi con complicità, fuggendone o usandola per
provocare, soffrendola o rigettandocela in faccia con sfida.
Vincent
Price ha deciso di giocarci, riderne e far ridere.
Per
questo in una delle sue interviste può ben dichiarare che the
most terrifyng line I ever sayed in my life is BUH! (la
battuta più terrificante che ho mai pronunciato nella mia vita
è BUH!).
Tutti
devono poter dire ai loro amici quanto è divertente essere
spaventati a morte!
(La
maschera di cera)
Il
ruolo tipico di Vincent (con le varianti di tiranno, inquisitore,
stregone, morto vivente, colpito da maledizione) è quello di
un suicida, o suicidato, o assassinato, che risorge sfigurato nella
mente o nel corpo e si trasforma in serial killer.
Ne
La maschera di cera
(6), molti elementi prefigurano tragicamente la distruzione
dell'attore: i volti dei manichini di cera (di assassini e
assassinati) che si sciolgono, moltiplicazioni dello stesso volto di
Vincent, loro creatore, che segue la loro sorte e diventa materia
molle sotto l'azione del fuoco. Distrutto l'estroso e buono scultore
del macabro, resta soltanto un folle assassino che porta una maschera
da uomo “normale” (la maschera del suo vero volto di un tempo) e
riempie il nuovo museo di cadaveri ricoperti di cera.
Nel
fantasmagorico, musicale L'abominevole Dottor Phibes
(7), il volto di Vincent è un nudo teschio, e lo stesso
incidente che gli ha distrutto le sembianze gli ha tolto anche la
voce. È un grande organista e un mago della meccanica, e
dirige un'orchestra di automi musicisti. Il suo operato è
quello di un serial killer vendicatore che uccide con le piaghe
bibliche d'Egitto (ancora l'Egitto!) gli assassini della moglie.
Forse
è questo il film che fornisce l'indizio rivelatore
dell'utilizzo di Vincent Price nelle produzioni horror di nicchia:
nel finale, compiuta la sua missione, si seppellisce automummificato
insieme alla sua Regina in un sarcofago d'oro come un re egizio
solare, per vivere con lei nell'eternità. Sarà per
quella certa sua aria di antica regalità? Il re, nel mondo
moderno, va punito; gli si ridisegna sul volto una maschera da
buffone, da vizioso, da idiota o da cadavere.
Ma
lui gioca sempre: gli basta sollevare un sopracciglio e l'angolo
delle labbra per trovare l'esatto equilibrio fra orrore e
divertimento, fra calarsi nel suo ruolo e insieme prenderne la giusta
distanza. Bisogna ascoltare la sua risata “satanica” al termine
del lungo recitativo che fa da intro
a Thriller di Michael
Jackson per capire tutto. Si ride insieme a lui, irresistibilmente.
Ma
qual è il tipo di orrore, il tipo di Male che Vincent
trasmette attraverso la proiezione da orco operata su di lui? È,
appunto, un Male che viene dalla fiction del tardo Ottocento, dalle
fiabe etniche, dalle antiche saghe e dagli spaventi primitivi
dell'umanità. È un terrore from beyond,
per citare un titolo di Lovecraft: dall'oltre, dall'altrove,
dall'inconoscibile. L'orco nella foresta, il vampiro nel castello,
l'alchimista nel suo antro pieno di alambicchi e la creatura
innominabile che ne striscia fuori, l'artista che turba con il suo
virtuosismo diabolico.
Vincent
Price è la nostra infanzia e ci incute paura perché
siamo bambini. Riflette un tipo di società ancora ingenua e
coesa, ancora sufficientemente convinta della propria salute, pur se
in preda alle erosioni epocali.
Lo
ha ben capito Tim Burton, che gli ha dedicato il suo primo
cortometraggio, Vincent.
È lo stesso Burton il bambino che muore di paura perché
crede di essere
Vincent Price: ma naturalmente da quel tipo di morte si risorge ogni
volta che si esce dal cinema.
Tim
Burton lo vuole nel ruolo dell'Inventore in Edward mani di
forbice (8). Qui Vincent ritorna
al suo originario reame di fiaba e appare irreale, diafano,
ultraterreno: un Frankenstein dal sorriso sempre sghembo ma dagli
occhi pieni di luce, che dà vita a un essere puro, portatore
di bellezza e bontà, e muore prima di potergli dare mani
umane. Come Molière, recita in scena la propria morte poco
tempo prima di andarsene davvero, e sembra che stia per ascendere al
cielo.
Quasi
una glorificazione postuma anticipata.
Meno
glorioso, e più spento e stanco, come appiattito, appariva una
decina d'anni prima nel metalinguistico La casa delle ombre
lunghe (9), in cui recitava
insieme alle altre icone dell'horror: Christopher Lee, Peter Cushing,
John Carradine. Ormai Vincent, che aveva citato se stesso per tutta
la vita, era stato raggiunto dai postmoderni citazionisti. Il film,
pur restando una delizia per l'intelletto, è una serie di
ricalchi, incastri e scatole a sorpresa: sia Vincent che i suoi
colleghi si comportano come bambini offesi a cui hanno rubato e
guastato il giocattolo da loro costruito.
Del
resto, nell'ultimo ventennio della sua carriera, Vincent Price era
scivolato sempre più a fondo nella parodia, sia dei suoi
vecchi ruoli che di nuovi personaggi, come il villain
antagonista dell'agente segreto in Dr. Goldfoot e il nostro
agente 00¼, (10) girato
in America e introducing Franco and Ciccio,
e il suo seguito italiano Le spie vengono dal semifreddo
(11), sempre con Franco Franchi
e Ciccio Ingrassia.
Non
c'era più posto per il tipo di paura che Vincent incarnava,
per il mostro che viene da un altro mondo.
Siamo
chiusi del passato. Il destino ha negato alla nostra famiglia un
futuro.
(La
casa delle ombre lunghe)
venerdì 15 giugno 2018
Bloodbuster, 16 giugno: appuntamento con le vampire
Délice la Rouge è Rhona la vampira in una foto di A. C. Cappi |
Bloodbuster, in via Panfilo Castaldi 21 a Milano, è un negozio leggendario per gli appassionati di "cinema alla B alla z", come lo definiscono con orgoglio Daniele Magni e Manuel Cavenaghi, esperti di cinema ad ampio spettro, autori o editori loro stessi di numerosi saggi dedicati a generi, sottogeneri, autori e interpreti del cinema solitamente trascurato dalla critica più "alta", ma anche alla cultura popolare cui tutto ciò si ricollega.
Questo è il motivo per cui sabato 16 giugno 2018 alle 18.30 - complice come presentatore il romanziere e saggista Stefano Di Marino - è in programma un incontro con Andrea Carlo Cappi sul ciclo di romanzi Danse Macabre (editi da Excalibur), imperniato su figure di vampire sexy e pericolose. Si rievocano i tempi di certi fumetti italiani più o meno erotici degli anni Sessanta e Settanta, ma anche le suggestioni di film della stessa epoca, come quelli di Jess Franco o Jean Rollin, in una serie di romanzi che mescolano horror ed erotismo, ma anche thriller e spionaggio.
Il volume doppio contenente i primi due episodi della saga, Le vampire di Praga e Sangue freddo, è disponibile anche su IBS e Mondadori Store.
sabato 26 maggio 2018
Le voci del thriller di Luceri e Tentori
Recensione di Andrea Carlo Cappi
Uno scrittore identificato con il giallo e un altro associato al cinema dell'orrore sembrano a prima vista incompatibili, a chi non li conosce. Ma, a ben vedere Enrico Luceri e Antonio Tentori, autori de La voce del buio (Mondoscrittura, 164 pagine, 13 euro) hanno molto in comune.
Luceri è un apprezzato autore de Il Giallo Mondadori e ultimamente anche Damster Edizioni, di cui si è già parlato in queste pagine; chi ha letto con attenzione i suoi romanzi sa che, nel panorama del mystery italiano, si distingue per le sue atmosfere che richiamano la stagione degli sceneggiati tv anni Settanta, con enigmi che sfiorano l'impossibile ma hanno sempre una spiegazione razionale; e chi conosce la sua produzione sa chi si è occupato della storia del giallo italiano in tutte le sue tonalità.
Tentori è stato sceneggiatore per Lucio Fulci, Dario Argento e Sergio Stivaletti, tra gli altri, e basterebbe questo a qualificarlo; ma, oltre ai suoi numerosi racconti e al romanzo basato sulla sceneggiatura dell'argentiano Inferno, ha anche un notevole curriculum di saggista su molti generi del cinema italiano, senza disdegnare ruoli di attore come quello nel recente e sorprendente Catacomba, film a episodi diretto da Lorenzo Lepori e Roberto Albanese.
La loro collaborazione non poteva che dare ottimi frutti, specie per chi ha nostalgia di un filone soprattutto cinematografico ed essenzialmente italiano che ha tuttora molti appassionati, ma ormai nessun produttore nel nostro paese: quello che da noi si chiamò thrilling e che nel resto del mondo è noto invece come giallo, con un'accezione diversa da quella corrente in Italia di "detective story classica" e, per i suoi detrattori, di "letteratura di serie B". Non a caso chiunque scriva di un commissario che sia più o meno fotocopia di altri, se appena è possibile si autodefinisce "autore noir".
Ma ecco qui un giallo nel senso più tipicamente italiano nel termine, in cui anche un lettore comune può riconoscere i rimandi al cinema di Dario Argento (cui il romanzo è dedicato): la soggettiva dell'assassino che osserva le sue vittime dal buio, gli ambigui flashback che ricostruiscono l'evento scatenante della follia omicida... Non sono gli unici riferimenti a quella fortunata stagione del nostro cinema, ce ne sono anche di più sottili, piccoli indizi che strizzano l'occhio ai cultori del genere. Ma soprattutto si tratta di un romanzo scritto con ritmo incalzante, con una protagonista che sfugge agli stereotipi della profiler visti e rivisti in troppi prodotti americani della narrativa, del cinema e della televisione.
Perché, a ben vedere, molto prima che gli Stati Uniti scoprissero e spremessero all'infinito il filone dei thriller sulla figura del serial killer (o, come li chiamava erroneamente anni fa una nota casa editrice, i "serial thriller"), era stato il thrilling made in Italy a codificare - partendo da Robert Bloch e da Alfred Hitchcock per creare regole proprie - certe strutture narrative che poi sono state riprese negli USA per i filoni slasher e psychothriller (il termine corretto sarebbe quest'ultimo, lo sappiano gli editori italiani).
E allora il lettore si immerge negli incubi notturni dell'ispettore Anna Ranieri della Squadra Mobile di Roma, sintomo forse di elementi che le sfuggono a livello razionale ma che la mente ha registrato, e in un'indagine che la tocca da vicino. La sorella minore Giulia è in un sottile equilibrio tra la vita e la morte dopo un tentato suicidio, ma la poliziotta non è troppo convinta da quella che d'istinto ritiene sia la scena di un crimine. Forse è per sfuggire ai propri sensi di colpa che ritiene si tratti, invece, di un omicidio mancato.
Un sospetto che diviene certezza quando un maniaco omicida comincia a mietere vittime con sempre maggiore frequenza tra donne attraenti di varie età ed estrazione sociale. Sul luogo di ogni delitto - appartamenti privati, un giardino pubblico, una galleria d'arte, un teatro deserto - ricorre in modo fisico o simbolico il tema della rosa, come firma dell'assassino.
"Un indizio, un dettaglio, una crepa in un muro apparentemente solido e compatto, da allargare con le mani, ferendosi dita e polpastrelli fino a farli sanguinare. Finché quella fessura diventi un foro, sempre più largo, una crepa che provochi il crollo di un pezzo di intonaco e permetta di gettare uno sguardo oltre quel muro, che si rivela un sipario. Il palcoscenico montato dall'assassino per mettere in scena i propri delitti."
Anna Ranieri deve imparare ad ascoltare la voce del buio per riconoscere l'Ombra fra le tenebre e fermare una catena di morte che vede anche lei come prossimo, scomodo bersaglio da eliminare.
La voce del buio non è l'ennesimo romanzo clonato sulle storie di assassini seriali d'oltreoceano, bensì un thriller italiano che inchioda il lettore fino all'ultima pagina, cosa che non mi pare capiti più così spesso. E, d'accordo, due veterani del mestiere come Stefano Di Marino e il sottoscritto, chiamati a presentare il libro al mitico Bloodbuster di Milano, intuiscono in corso di lettura la rete di inganni e false piste tessuta dagli autori. Ma la scrittura per nulla banale, la suspense incessante e la logica ferrea della soluzione finale ci procurano di nuovo quel piacere che temevamo irripetibile del thrilling... altro vocabolo usato in modo approssimativo, dato che in inglese era solo un participio presente usato come aggettivo, non un sostantivo, anche se lo è divenuto honoris causa. Perché per qualcosa di così innovativo allora e vitale ancora oggi nelle pagine di Luceri e Tentori, mancava un nome e si doveva inventarlo.
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Iperwriters - Tiro al piccione su Superman
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