martedì 19 dicembre 2023

Spy Game incontra Enrico Luceri - 2

E. Luceri al Festival Torre Crawford 2022 (foto: A. Martinelli)


Su Borderfiction Zone proseguiamo l'intervista a Enrico Luceri,  il maestro del giallo da poco entrato nella collana in ebook di Delos Digital Spy Game – Storie della Guerra Fredda con il suo romanzo in due parti Caccia alla strega, (la prima parte il 12 dicembre 2023, la seconda parte il 16 gennaio 2024). Ricordiamo intanto alcuni dei suoi titoli più recenti, come Il giorno muore lentamente e Il tempo corre piano, pubblicati ne Il Giallo Mondadori e ora disponibili in ebook, e La stanza del silenzio, edito da Fratelli Frilli. Nel novembre 2023 è uscito inoltre, sempre da Delos, Il primo cerchio della paura, scritto a quattro mani con Emanuela Ionta.

Enrico Luceri, il silenzio delle ombre

SG: Cosa ti ha portato a scrivere gialli?

Si può dire che io abbia scritto sempre. Però non me ne accorgevo. Sono stato un osservatore attento del prossimo fino dalla mia infanzia, e durante la mia adolescenza e giovinezza. Mi sentivo attratto, interessato, dal comportamento degli adulti e dei miei coetanei. Ma non di tutti. Solo di coloro che volevano apparire forti, sicuri di sé, spavaldi, affascinanti.
Il mio carattere invece è stato sempre pieno di dubbi, scettico, diffidente, laconico e riservato. Credo che mi sentissi incuriosito da costoro proprio perché così diversi da me e in fondo, in maniera inconsapevole, registravo ogni loro comportamento perché mi sembrava estraneo, ostile, mi colpiva e feriva. Il comportamento di personalità sbrigative, efficienti, determinate che mi facevano sentire inadeguato, trascurato, ignorato, a volte perfino disprezzato. Che mi facevano soffrire.
Però sono riuscito sempre a nascondere la mia sofferenza, per evitare di dare soddisfazione al prossimo. Ad abbassare le tapparelle, a nascondere l’interno della casa. E, tuttavia, ricordavo. A distanza di decenni, ho capito che i miei occhi sono stati una macchina fotografica, le mie orecchie un registratore, la mia memoria un archivio che ha custodito situazioni dolorose.
Desiderio nascosto: spaventarli! Far crollare le loro certezze, i loro solidi e banali modi di vivere, la spavalderia di facciata. Intuivo in loro delle crepe, sottili e quasi invisibili, e ho trovato l’espediente per allargarle attraverso le mie storie, dove una minaccia ambigua è sufficiente a far vacillare e poi a frantumare personalità forti in apparenza e deboli nella sostanza.
Ancora oggi, quando incontro qualcuno che dimostra verso di me un comportamento sbrigativo, disinteressato, indifferente, provo le stesse sensazioni della mia infanzia e so che presto la mia immaginazione sarà ispirata da una sofferenza antica e nascerà un nuovo romanzo.



SG: Come amico di Stefano Di Marino, l'ideatore della collana Spy Game che ci ha lasciati nel 2021, vuoi darci un tuo ricordo?

Quando Stefano Di Marino scrisse un articolo in occasione della prematura scomparsa di Andrea G. Pinketts, qualche giorno prima di Natale del 2018, lo intitolò non a caso “Senza retorica”. Io vorrei a mia volta ricordare Stefano proprio così, senza quella retorica che lui stesso rifiutava.
Custodisco quindi con discrezione e riservatezza dentro la mia memoria quell’impasto di rimpianto, malinconia, sofferenza e rimorso, che sempre ci tormenta quando un amico si toglie la vita in circostanze tanto drammatiche e dolorose che dimostrano una sofferenza insopportabile.
Invece voglio ricordare Stefano attraverso il suo universo narrativo, quell’avventura allo stato pure che attraversa tanti generi letterari, dalla spy-story al giallo, dal thriller all’horror, al western (e potrei continuare) che lui ha raccontato per anni, con competenza, entusiasmo, impegno e fertilità d’immaginazione. C’era e c’è tuttora un motivo concreto per la costante affezione e fedeltà dei lettori alle sue storie: perché Stefano era uno di quegli autori veri che sapeva scavare un varco fra la realtà quotidiana che viviamo e quella virtuale che leggiamo. E sapeva benissimo come quest’ultima sia assai più gratificante della prima, perché in essa avviene solo quello che decidiamo noi. Nella vita, spesso, troppo spesso a volte, avviene quello che altri decidono per noi. Questo, credo, è il rapporto più bello che si stabilisce fra l’autore e i suoi lettori: lui frantuma la parete fra realtà e fantasia, i lettori attraversano quel varco e vivono ciò che sognano.
Parlo solo di Stefano come narratore, evitando di rammentare i nostri incontri, le chiacchierate, le telefonate, le partecipazioni alle manifestazioni, i messaggi, perché voglio portare la mia testimonianza senza invadenza e con quella discrezione e riservatezza che ci univa.
Solo tre ricordi desidero condividere: il suo incoraggiamento pubblico quando un mio romanzo vinse nel 2008 il Premio Tedeschi; la sua presenza, inaspettata e gradita, quando fui invitato per la prima volta a Milano, a Bordefiction, da Andrea Carlo Cappi nel 2012, e furono loro due a presentare un mio romanzo; la nostra ultima telefonata, una settimana prima di quel brutto giorno di agosto, e il messaggio che mi scrisse subito dopo, e ho conservato.
Una certezza mi consola, solo in parte naturalmente: Stefano è riuscito a rendere lavoro una passione, a vivere come desiderava, certamente confrontandosi con le difficoltà e gli ostacoli del mondo dell’editoria che potevano affliggere anche un autore popolare come lui. Pensare a lui, a Stefano Di Marino e al suo alter ego Stephen Gunn, mi fa tornare in mente una frase che pronunciò il regista John Huston durante la sua orazione funebre per Humphrey Bogart: “La sua esistenza non fu lunga se misurata in anni, ma fu ricca e profonda.”
Credo che il modo migliore per dimostrare quanto ci manca Stefano sia continuare la sua opera e scavare sempre nuovi varchi dove la realtà possa tramutarsi in fantasia.



SG: Ora che sei entrato ufficialmente nel Grande Gioco, pensi di scrivere ancora spy story?

Certamente, sono già la lavoro su un nuovo romanzo per la collana Spy Game di Delos. Vienna, autunno 1948: durante le riprese del film Il terzo uomo, lo scrittore inglese Graham Greene si trova coinvolto in un vero caso di spionaggio. Greene riceve la visita di un sedicente giornalista inglese di Life, Nigel (in realtà è un agente del MI6) che vuole intervistarlo riguardo il film. Greene lo accoglie nella sua stanza all’Hotel Sacher. Qui scopre la reale identità del suo ospite, che gli racconta una storia singolare.
Quando Rudolf Hess volò in Gran Bretagna nel 1941, l’esoterista Alastair Crowley offrì i suoi servigi al governo per aiutarlo a interrogare il gerarca nazista, ma poi non se ne fece nulla. Una storia singolare che accadde davvero. Ho immaginato così un angolo buio e chi o cosa nasconda. Nel novembre del 1948, Churchill e Crowley ebbero un colloquio indiretto su un argomento in apparenza balzano ma che potrebbe rivelarsi sorprendentemente utile. E lo statista inglese ha inoltrato una informazione riservata al MI6, che a sua volta ha inviato Nigel a Vienna.
Da qui inizia una vicenda dove servizi russi e inglesi, borghesi austriaci decaduti, scienziati tedeschi a conoscenza di segreti militari, femmes fatales e avventurieri d’ogni genere celano obiettivi diversi da quelli apparenti e sono pronti ad allearsi e tradirsi con la medesima disinvoltura.

SG: Non vediamo l'ora di leggerlo. Un'ultima curiosità: è vero che sei stato soprannominato Fu Manchu?

Sì, è stata un’intuizione dei miei amici Giulio Leoni e Massimo Pietroselli. Ambedue sostengono di immaginarmi nelle vesti del crudele e astuto genio del male creato da Sax Rohmer. Nelle vesti, nel vero senso del termine! Cioè mi vedono vestito con una tunica, le scarpette con la fibbia, l’indispensabile codino e gli occhi ridotti a due fessure, che stringo fra le dita di una mano il manico di tazza colma di una raffinata miscela di tè mentre con l’altra mano aziono un complicato e doloroso strumento di tortura che tormenta una mia vittima. Una vittima punita per una colpa gravissima. Per esempio, aver criticato un mio romanzo, o averne ignorato un altro.
Fu Manchu/Enrico apprezza con uguale piacere l’aroma del tè e i lamenti del malcapitato. Qui finisce la sarcastica intuizione dei miei amici, che mi conoscono bene e sanno che sopporto in silenzio le critiche ma fatico a dimenticarle. Ovviamente, spero sia inutile precisarlo, io non commetterei azioni criminose di questo genere. In momenti simili, semmai, sorseggerei solo un vino della mia collezione!




lunedì 18 dicembre 2023

Spy Game incontra Enrico Luceri - 1

Enrico Luceri a Giallo Latino 2011

Su Borderfiction Zone nuovo incontro con uno degli autori della collana in ebook di Delos Digital Spy Game – Storie della Guerra Fredda. Dopo Enzo Verrengia, Giovanni Ingrosso, Andrea Carlo Cappi e Valentina Di Rienzo, questa volta parliamo con Enrico Luceri, maestro riconosciuto del mystery italiano, già vincitore del Premio Alberto Tedeschi de Il Giallo Mondadori nel 2008, che si è lasciato tentare dalla narrativa di spionaggio. Appare infatti nella collana il suo romanzo in due parti Caccia alla strega, (la prima parte il 12 dicembre 2023, la seconda parte il 16 gennaio 2024).

Enrico Luceri, dietro i veli della Storia

SG: Parlaci del tuo romanzo Caccia alla strega, che ha inizio - potremmo dire - nel momento stesso in cui comincia la Guerra Fredda e che rievoca eventi precedenti che la lasciavano presagire.

L’idea originale della storia è la singolare situazione in cui non è possibile accertare la morte di qualcuno. E allora si possono fare molte ipotesi e congetture su cosa sia accaduto davvero. Queste sono state anche le circostanze dell’omicidio di Rosa Luxemburg, per una serie di coincidenze avvenute realmente, che sarebbero state difficili da immaginare anche per il più scaltro autore di spy story.
Una donna trascinata via da un albergo berlinese dove è stata sequestrata, nei giorni dell’insurrezione comunista (o meglio, spartachista) del gennaio 1919, colpita alla testa con il calcio di un fucile e caricata su un’auto che parte nella notte buia, rischiarata solo dalle fiamme degli incendi scoppiati durante gli scontri. Un uomo in divisa militare che balza sul predellino dell’auto, estrae la pistola dalla fondina, accosta la canna alla nuca della donna e spara. La macchina si arresta su un ponte, uomini afferrano il corpo della vittima e lo gettano in un canale artificiale, dopo averlo appesantito con delle pietre.
Fine della storia. O forse inizio.
La donna è la rivoluzionaria Rosa Luxemburg, gli uomini sono i miliziani dei Freikorps, soldati dell’esercito imperiale tedesco smobilitati dopo la sconfitta nella Grande Guerra e assoldati dal governo repubblicano per reprimere i moti insurrezionali a Berlino e in Baviera. Il cadavere della Luxemburg fu ritrovato, ma l’autopsia lasciò un dubbio sulla sua identificazione. Il corpo fu seppellito nel cimitero di Friedrichsfelde, a Berlino, ma nel 1936 i nazisti lo distrussero e dispersero i resti. Qui finiscono i fatti storici e iniziano quella della mia fantasia.
Ce n’era abbastanza per costruire una realtà parallela dove la donna gettata nel canale riusciva a sopravvivere e a sfuggire in seguito alla caccia di agenti segreti spinti da intenzioni diverse, ma un solo fine: catturarla e manipolarla per il loro interesse.


SG Come sei passato dal giallo allo spionaggio?

In maniera molto semplice e naturale: lasciando la mia fantasia libera di correre in un genere narrativo affascinante, che leggo con curiosità e passione dalla mia adolescenza. Ho avuto occasione di scrivere già un romanzo breve di genere spionistico per la serie Gli Archivi Segreti della Sezione M, creata e realizzata insieme ai miei soci., colleghi e soprattutto amici Giulio Leoni e Massimo Pietroselli: un intrigo ambientato a Roma alla fine del 1934, che affonda le sue radici in un episodio di criminalità avvenuto a Londra oltre vent’anni prima e potrebbe perfino mettere in pericolo il potere di Stalin.
Anche in quella circostanza, sono stato ispirato dalla consapevolezza che nella storia esistono degli angoli oscuri che potrebbero nascondere situazioni imprevedibili e sorprendenti. A me piace illuminare quelle zone buie e dare forma a ciò che vedo con gli occhi della fantasia. Un racconto realistico, dunque, e non reale, o perlomeno tale che non sia possibile dimostrarne la solidità e nello stesso tempo smentirne la verosimiglianza. Un gioco di specchi che riflettono immagini uguali e contrarie, un’illusione manipolata da un prestigiatore, figure che nella penombra sono solo fantasmi sfuggenti sulle pareti. Matrioske che custodiscono versioni sempre più piccole e diverse fra loro di un’unica bambola, che potrebbero essere la stessa donna a età diverse della vita.

SG: Com'è nato e si è sviluppato il tuo interesse verso la narrativa spionaggio?

Ho scoperto Segretissimo nel 1974, qualche anno dopo aver letto il mio primo Giallo Mondadori. E grazie ai romanzi di Gérard de Villiers, ho viaggiato con Malko Linge in tutto il mondo. Quello dell’immaginazione, della fantasia sfrenata, tuttavia così realistico da sembrare più vero della realtà.
Era iniziato il viaggio che mi ha fatto conoscere gli angoli bui delle città attraverso i personaggi dei romanzi e gli attori dei film.
Lo sguardo dolente di Alec Leamas/Richard Burton che si aggira per Berlino, divisa in due dal Muro, ne La spia che venne dal freddo di Le Carré.
Gli occhi glaciali e ironici dello Sciacallo/Edward Fox che esplorano Parigi alla ricerca del luogo più adatto per commettere l’omicidio politico del secolo, perlomeno secondo Frederick Forsyth ne Il giorno dello Sciacallo.
Mosca negli anni della Perestroika vista da “Barley” Blair/Sean Connery ne La Casa Russia, ancora di Le Carré.
Vienna nel primo dopoguerra, occupata dagli alleati (ormai ben poco), dove si aggira l’istrionico Harry Lime/Orson Welles ne Il terzo uomo di Graham Greene.
Da Istanbul e lungo i Balcani insieme a Charles Latimer/Peter Lorre per scoprire quale volto si nasconda dietro La maschera di Dimitrios di Eric Ambler.
E naturalmente l’inevitabile James Bond/Sean Connery nella straordinaria saga letteraria di Ian Fleming. Un autore a sua volta protagonista di una vita simile a un romanzo di spionaggio, dove ancora una volta realtà e fantasia si confondono ed è difficile distinguerle. Come in ogni vera spy-story.
In anni più recenti, la lettura dei romanzi di Andrea Carlo Cappi e di Stefano Di Marino è riuscita a farmi apprezzare una narrativa di genere moderna, dove l’azione, il ritmo, le emozioni profonde e la suspense diventano esse stesse personaggi di intrighi di rara efficacia.

SG: Qual è la tua visione della spy-story come autore?

Quella di raccontare ciò che Winston Churchill aveva definito “un indovinello, avvolto in un mistero all'interno di un enigma” (“a riddle wrapped in a mystery inside an enigma”), nel suo caso a proposito della politica estera dell’Unione Sovietica. Ovvero aprire le matrioske di cui parlavo prima e arrivare fino all’ultima, ammesso che sia tale o ne nasconda altre ancora.
Quando ho deciso quale angolo buio della storia reale cercare di illuminare, costruisco un meccanismo di precisione, che mi piace paragonare a un orologio a carica. La trama, i personaggi, le ambientazioni, gli obbiettivi, i colpi di scena sono ruote dentate, cilindri, bilanciere, lancette e quadrante, e ognuno di loro deve funzionare singolarmente e insieme agli altri, contribuendo al funzionamento dell’orologio. Il ritmo dei miei romanzi deve adattarsi alla vicenda che racconto, evitando accelerazioni e frenate e aumentando d’intensità con una certa regolarità.
La mia spy-story avviene in strade oscure, panorami nebbiosi, palazzi silenziosi, piazze metafisiche, dove ogni ombra svela un profilo che potrebbe ingannare la vista e rivelarsi ben diverso da ciò che appare. Una partita fra uomini e donne, o meglio organizzazioni e regimi o stati, dove la posta in palio potrebbe essere solo un’illusione, o ciò che Alfred Hitchcock definisce MacGuffin, cioè l’espediente narrativo che scatena l’azione e alla fine è semplicemente inesistente. Una danza dei sette veli, caduto l’ultimo dei quali ci si accorge che la danzatrice non c’è.
Storie di chi dovrebbe essere altrove, piuttosto che in un certo luogo, e invece è proprio lì, grazie a un angolo oscuro che può nascondere qualsiasi sorpresa.
E se all’improvviso accendiamo un riflettore e lo puntiamo proprio su quell’angolo immerso nelle tenebre possiamo immaginare anche di vedere Ian Fleming e Bertolt Brecht seduti su due sedie scalcinate dietro un tavolino traballante che bevono gin, fumano e cercano di ricostruire l’enigma di una donna anziana e malandata, inseguita dagli agenti segreti di nazioni ostili fra loro, ma tutte ben decise a catturarla. Impresa inutile, perché è impossibile arrestare uno spettro che s’aggira per l’Europa.

L'intervista continua a questo link

Gli incontri di Spy Game:



domenica 17 dicembre 2023

The Kill Room (2023)


Recensione di Andrea Carlo Cappi

Il mondo dell'arte e l'assassinio su commissione si incontrano in una storia brillante la cui definizione più corretta sarebbe black comedy, anche se qualcuno ha usato il termine "thriller". C'è anche chi ha notato che questo film della regista Nicol Paone, uscito negli USA (e qua e là in Europa) alla fine del settembre 2023, riunisce nel cast Uma Thurman e Samuel L. Jackson a trent'anni da Pulp Fiction. Ma la trama, un soggetto originale dello sceneggiatore Jonathan Jacobson, richiama semmai l'ironia noir di certe storie di Elmore Leonard, peraltro uno dei riferimenti letterari di Quentin Tarantino.
Patrice (Uma Thurman) è una gallerista newyorkese in crisi: i quadri della sua ultima scoperta Gracie (Maya Hawke) non si vendono e la sua dipendenza da anfetamine sta diventando troppo costosa. Lo viene a sapere il pasticcere-faccendiere Gordon (Samuel L. Jackson), che ha un problema a sua volta: ripulire con la sua attività il denaro sporco di una piccola ma efficiente anonima omicidi si sta facendo impegnativo e rischioso. Sicché Gordon si presenta a Patrice proponendole di aiutarlo nel riciclaggio, in cambio di una cospicua commissione. Pensando che si tratti di un "semplice" giro di droga, Patrice accetta, ma ha bisogno di quadri che giustifichino entrate e uscite. Perciò Gordon ha un'altra idea: farli dipingere da Reggie (Joe Manganiello), il minaccioso e tormentato killer di fiducia del gruppo.
Così i quadri di un nuovo misterioso pittore che si firma The Bagman (termine che indica un esattore della mala, ma allude anche ai sacchetti di plastica che Reggie usa per soffocare le sue vittime) sono in apparenza comprati e venduti per cifre sempre più alte. Se ne accorge l'ignara stagista della galleria, che innesca un passaparola destinato a echeggiare tra critici e appassionati. The Bagman diventa l'artista più richiesto sulla piazza: una coppia di collezionisti che sembra uscita da un film di Woody Allen sogna di acquisire una sua opera e la più severa critica d'arte di New York non vede l'ora di intervistarlo.
Senonché ogni artista rivela qualcosa di sé nel proprio lavoro e, quando nella galleria viene esposta una serie di installazioni a base di sacchetti di plastica, Patrice si rende conto che ogni opera corrisponde a un omicidio. Oltretutto, il successo di The Bagman innervosisce i suoi datori di lavoro, che temono pericolose ricadute dalla visibilità del proprio assassino. Quanto a Reggie, come vuole la tradizione, non chiederebbe di meglio che mollare tutto e sparire... ma dal suo mestiere c'è una sola via d'uscita: portare a termine un contratto ritenuto impossibile. Come? Sarà Patrice a risolvere il problema, trasformando l'assassinio in un'opera d'arte.
Un film divertente e da non sottovalutare, con interpreti azzeccati, brillanti e ben diretti, che non solo indaga sui meccanismi con cui viene fabbricato il successo di un artista, ma anche su cosa si nasconde dietro qualsiasi atto creativo.



venerdì 15 dicembre 2023

Iperwriters - E allora ve la do io

Photo: Athanasios Papazacharias on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori
Letteratura italiacana - 36 - E allora ve la do io

Venerdì, ore 13.
È una fortuna e una sfortuna che una rivista snob mi abbia respinta e disprezzata reputandomi buona solo a scrivere fumetti e gialli e sentenziando che "altro è la letteratura". Una provocazione a cui dovrò reagire. Aprirà una fase di intensa creatività e di errori di valutazione che sto ancora pagando.
Ora, io partivo da una formazione classica e umanistica, ma avevo scritto fumetti e gialli. Alla fine degli anni '80 i gialli sono ancora un ghetto, non ancora il Tutto, o almeno quel tutto in orbita al di fuori dei santuari dei grandi premi letterari. Persone più o meno malintenzionate mi chiedono: "Non vorresti scrivere un vero romanzo? Non vorresti fare letteratura?"
Certo che vorrei farne.
Adesso mi dicono che "Altro è la letteratura".
Non mi pareva di aver fatto proprio altro, piuttosto un avviamento a. Ho scritto cose piccole, d'accordo, ma sono ancora giovane e posso crescere.
E precisamente, cos'è questo altro? Quello che chiamano immobilità pensosa a me appare piuttosto come una stagnazione stilistica che pur nella sua pesantezza ha l'esilità di un peto. L'ho detto nei precedenti editoriali: la letteratura italiacana, dopo gli anni '50, mi è aliena. O sono io l'aliena, e comunque non so, non saprò mai scrivere in einaudese, fetrinellese, premiostreghese.
Ma dovevano farlo Robert Luis Stevenson, o Guy de Maupassant? Edgar Allan Poe sarà stato immobile e pensoso, qualche volta, quando non doveva affannarsi in giro per vendere i suoi racconti. Stava forse pensando di fare letteratura bassa con le sue trame gialle? I grandi del XIX secolo raccontavano la vita trasfigurandola in metafore, o parabole fantastiche per rivelare al mondo i segreti più neri. Erano scrittori biologici, che obbedivano alla loro natura senza gonfiare i muscoli davanti allo specchio nello sforzo narcisistico di comporrre capolavori. Non seguivano canoni perché erano loro a inventarli.
Le mie tendenze mi portavano verso quel tipo di fiction che, perdio, un tempo era quella che si faceva col sangue. Dovevo mettermi l'autostima sotto le scarpe? Cambiare? Diventare schizofrenica? Suicidarmi?
No. Ed ecco la mia reazione, dopo mesi a rimuginare: fottetevi.
Io farò quello che so fare, cercherò di farlo al meglio e di risplendere, risplendere quanto più possibile.
E vedrete che letteratura.

venerdì 1 dicembre 2023

Iperwriters - Altro è la letteratura

Photo: Chris Kandis on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori
Letteratura italiacana - 35 - Altro è la letteratura

Venerdì, ore 13.
Facciamo un passo indietro. Sto ancora barcollando nel doposbornia da Premio Tedeschi, fra concorsi per inediti e spedizioni di dattiloscritti a case editrici.
Sto puntando su un racconto sul genere de La donna senza testa, la storia di una sirena dal titolo La creatura sommersa. Altra metafora di una condizione umana al di sotto del sociale e senza voce. Con quel racconto ero stata finalista l'anno precedente, sempre al Premio Calvino. Mi avevano definita “nella nostra letteratura, uno spirito singolare”.
Vale la pena di proporlo. Non alle riviste di narrativa popolare e rosa, a cui ho già saltuariamente collaborato. Ma a quelle pochissime riviste di letteratura “alta”.
Mi viene rifiutato. Se si trattasse di un semplice rifiuto non me ne ricorderei più e non ricorderei nemmeno i nomi delle riviste, oggi defunte. Ma mi arrivano due lettere ben diverse dalle solite due righe "Non rientra nella nostra linea editoriale". Lettere gelide e perfide, sapientemente congegnate.
Nella prima, mi si dice che non sono all'altezza delle loro pubblicazioni. Nella seconda aggiungono che fumetti e gialli (avevo inviato purtroppo il mio curriculum), sono caratterizzati da un rapido ideare, mentre la letteratura è immobilità pensosa. Segue una spiegazione dei motivi per cui il mio testo non raggiunge quella densità e profondità che solo i lettori colti e raffinati sanno gustare. Mi raccomandano con benevola condiscenza di dedicarmi alle mie usuali attività, in cui sicuramente riuscirò molto bene. E concludono così: "Altro è la letteratura".
Bene. Credo di essere rimasta per molto tempo senza sentimenti, in uno stato di dolorosa desolazione. Non faccio letteratura? Non ho neppure le capacità per farne? Oh, my God.
Dunque appartengo alla paraletteratura. Sono una sottospecie di scrittore, che è anche e soprattutto una sottospecie umana. Così è stato decretato da una rivista che non è la storica e mitica Nuovi Argomenti, ma si pone come un Nuovo Argomento. In fondo, è la stessa opinione che hanno di me gli artisti locali.
Se rileggo la lettera oggi mi chiedo: perché, per un semplice rifiuto, tanta volontà di fare del male? Non me lo sono chiesto allora.
Quell'Altro è la letteratura mi segna profondamente e mi cambia la vita.

lunedì 27 novembre 2023

Brindisi in giallo con Albina Olivati


Presentazione di Andrea Carlo Cappi

Come editor di questo romanzo oltre che amico dell'autrice, sono chiaramente di parte. Ma non sarei suo editor se non fossi in primo luogo un suo lettore entusiasta.
Nell'ormai vasto panorama del giallo italiano Albina Olivati si è fatta conoscere da qualche anno con una voce propria e originale, e il suo nuovo romanzo Brindisi per un delitto (Oakmond Publishing, 187, pagine, 9.90€) ne è la conferma. Segno zodiacale Vergine, come Agatha Christie, questa volta la scrittrice ringiovanisce una formula classica della Regina del Giallo e la innesta in una situazione che richiama La finestra sul cortile.
Forse grazie al suo lavoro come cronista, Albina Olivati è un'attenta studiosa tanto della natura umana quanto delle dinamiche della provincia italiana. Sicché i suoi gialli sono popolati di personaggi tanto bizzarri quanto realistici, descritti con ironia a tratti affettuosa, a tratti pungente. Il risultato è un mystery - o forse oggi dovremmo dire cozy crime - di rara e piacevole leggerezza.
Congedati per ora i professori Ersilio Salvi e Clementina Olmi dei romanzi Termine corsa e Il bagno di Apollo (con una trasferta del primo a Milano per il romanzo breve Morte di un povero Casanova nell'antologia Menegang), la scrittrice ci porta a metà degli anni Ottanta e ci presenta Delphine Frustalupi, ex impiegata single trasferitarsi a Sondrio per essere più vicine alle sue amate piste da sci.
Una sera Delphine nota a una finestra di fronte un'ombra che pare accennare un brindisi. Quando il giorno dopo scopre che dall'altra parte della strada è stato commesso un omicidio e che l'arma usata dall'assassino è un cavatappi, si sente in dovere di indagare. La vittima è un giovanotto dalla pessima fama e la polizia sembra avere già trovato un probabile colpevole. Ma Delphine non è convinta e comincia a vagliare con il suo acume i vari pettegolezzi di una città "in cui si conoscono tutti", in cerca del bandolo della matassa.
Non voglio svelare altro per non guastare le sorprese e gli incontri che vi attendono (compreso quello con una lavatrice molto particolare). Ma posso dire che Brindisi per un delitto, uscito lo scorso 24 novembre su Amazon in cartaceo e ebook da Oakmond, come un calendario dell'Avvento si svolge nell'arco di un mese tra fine novembre e Natale, ed è un perfetto regalo di stagione per chi sappia apprezzare un giallo intelligente dai vivaci tocchi di umorismo.



martedì 21 novembre 2023

Jane e Vera: le signore dello spionaggio


Rievocazione di Andrea Carlo Cappi

Le due signore nelle fotografie sono Jane Sissmore Archer, a sinistra, e Vera Atkins, a destra: due figure straordinarie che hanno avuto ruoli fondamentali nei servizi segreti britannici degli anni Quaranta. Due maestre dell'intelligence che - forse in quanto donne, forse in quanto troppo competenti - non sempre sono state ascoltate come avrebbero meritato e sono state addirittura ostacolate nelle loro attività.
Sono loro le protagoniste della mia novelette "La trappola di Synok". nuovo episodio della serie "Dark Duet", uscito oggi come n. 34 della collana (esclusivamente in ebook) di Delos Digital "Spy Game - Storie della Guerra Fredda", nella quale scrivono esclusivamente autrici e autori italiani. Ci sono entrato come scrittore nel 2019, chiamato dal suo ideatore Stefano Di Marino, per ereditarne poi la direzione editoriale.
"La trappola di Synok" è una storia di fantasia, in cui tuttavia ho voluto come protagoniste Jane e Vera, quest'ultima già apparsa nel precedente episodio "Notte e nebbia". Per una volta lascio fuori scena i personaggi principali, che si muovono in Spagna nell'autunno del 1947, per spostare l'attenzione su cosa avviene a Londra quando viene scoperta una lista che dovrebbe contenere i nomi di infiltrati sovietici nei servizi segreti britannici.

Cominciamo da Vera Atkins, nata nel 1908 in Romania con il nome Vera May Rosenberg. Il cognome è quello del padre, il tedesco Max Rosenberg, anche se in futuro - forse perché tradisce meno le origine ebraiche, aspetto molto rischioso negli anni a venire - Vera adotterà quello della madre britannica, Hilda Atkins, che a sua volta era nata Zefra Hilda Etkins. Studia a Parigi e a Londra e nel 1937 emigra in Inghilterra con la madre, rimasta vedova. Viene reclutata come spia ancora prima della guerra da un'altra leggenda dell'intelligence, William Stephenson, che sta svolgendo indagini private per conto di Winston Churchill, all'epoca all'opposizione: l'obiettivo è scoprire le vere intenzioni di Hitler, che il governo britannico - a differenza di Churchill - ancora non vede come una minaccia incombente.
Nel 1940 Vera parte per una missione personale in Olanda: corrompere un agente dell'Abwehr (il servizio segreto militare tedesco) per ottenere un passaporto destinato al cugino Fritz Rosenberg in fuga dalla Romania, un episodio che terrà nascosto per tutta la sua vita. Allo scoppio della guerra rimane intrappolata nei Paesi Bassi e per tornare a Londra deve chiedere aiuto alla Resistenza belga. Intanto Churchill, ora primo ministro, costituisce lo Special Operations Executive, in sigla SOE, un'organizzazione segretissima della cui esistenza pochi sono informati. Il suo compito consiste in spionaggio e sabotaggio nei territori occupati dal Terzo Reich. Vera - nonostante non abbia ancora ottenuto la cittadinanza britannica - viene assunta come segretaria nella Sezione F, che si occupa della Francia occupata e della quale ben presto diviene la vicedirettrice de facto.
Vera deve preparare gli agenti destinati a operare di là dalla Manica. Tra questi ci sono trentasette donne. L'aspetto tragico della vicenda è che nel 1943 la rete francese del SOE viene compromessa e molti degli operativi sono catturati dai tedeschi, a volte nello stesso istante in cui arrivano in Francia. A molti di loro viene riservato un destino orribile. Nel dopoguerra Vera si occupa di indagare sulla sorte dei centodiciassette agenti della Sezione F caduti in missione, in particolare su quella di quattro donne uccise nel campo di concentramento alsaziano di Natzweiler-Struthof, vicenda che ho raccontato nella precedente novelette della mia serie, "Notte e nebbia".
Il SOE è stato sciolto nel 1946 e Vera si sposta presso l'MI6, il servizio di spionaggio britannico, ma deve lasciarne gli uffici nel 1947. A dispetto dei suoi meriti, non le viene conferita alcuna onorificenza nel Regno Unito, mentre riceve dalla Francia la Croce di Guerra nel 1948. Lavora per l'UNESCO e, nel frattempo, fa da consulente per le biografie di alcune sue agenti: i film Odette (di Herbert Wilcox, 1950) su Odette Sansom - miracolosamente sopravvissuta alla missione - e Scuola di spie (Carve Her Name With Pride, di Lewis Gilbert, 1958) su Violette Szabo, fucilata nel lager di Ravensbruck; e il libro Madelaine di Jean Overton Fuller (1952), su Noor Inayat Khan, uccisa dai nazisti a Dachau. Vera morirà nel 2000, tredici anni dopo avere ricevuto la Legione d'Onore francese e tre dopo essere stata finalmente insignita del titolo di Commander of the British Empire. La sua attività nel SOE è raccontata nel film A Call To Spy (id., di Lydia Dean Pilcher, 2019) dove viene interpretata dall'attrice Stana Katic (al centro nella locandina qui sotto).


Diverso è il percorso di Jane Sissmore. Nasce nel Bengala britannico nel 1898, ma la famiglia rientra in patria quando è ancora una bambina. Frequenta le scuole in Inghilterra e a diciotto anni viene assunta come dattilografa dall'MI5, il controspionaggio, ma continua gli studi sino a diventare avvocato nel 1924. Nel frattempo fa carriera all'interno dell'organizzazione, unica donna ad avere un ruolo di funzionario. In questa veste all'inizio del 1940 incontra Walter Krivitskij, agente sovietico passato agli americani nel 1937 e ora venuto a parlare con i britannici. Jane si rivela abilissima nell'arte dell'interrogatorio e raccoglie i primi indizi sul caso che in futuro sarà ricordato come quello dei "Cinque di Cambridge": gli infiltrati dello spionaggio russo nei servizi segreti di Londra e nel Foreign Office. Ma lo stesso anno, avendo criticato in modo esplicito la scarsa competenza del nuovo direttore ad interim dell'MI5, viene licenziata. Nel frattempo sposa l'ex aviatore John Archer e diviene nota anche come Jane Archer.
Non resta a lungo senza lavoro, perché viene reclutata subito dall'MI6, dove opera nella Sezione V, che indaga su organizzazioni sospette in Irlanda. Nel 1944 passa alla Sezione IX, che si occupa invece dell'URSS: anche se in quel momento Stalin è un alleato contro Hitler, il previdente servizio segreto britannico comincia già a valutare quali saranno le mosse dei sovietici dopo la guerra. Ma anche qui Jane viene ostacolata e non per caso: a dirigere la sezione che si occupa delle spie russe è Harold Philby, proprio colui che solo molti anni dopo sarà identificato come la principale talpa sovietica nell'intelligence di Londra.
Costretta a lasciare l'MI6, nel 1946 Jane torna all'MI5, dove nel frattempo è cambiata la direzione. Philby sa che lei è l'unica che sarebbe capace di scoprirlo e dall'MI6 riesce a impedirle di seguire qualsiasi pista la possa portare a lui. Nondimeno, lei continuerà a seguire le tracce dei Cinque di Cambridge, contribuendo malgrado tutto alla loro identificazione. Nel 1963 Philby, nel frattempo distaccato a Beirut, sarà costretto alla fuga (come si vedrà anche nel n.37 di "Spy Game" di Franco Luparia, intitolato "Un gentiluomo alla deriva", in uscita nel febbraio 2024). Jane lavora per l'MI5 fino agli anni Sessanta e muore nel 1982, ricordata come una delle menti più brillanti dello spionaggio di Sua Maestà. A lei spetta il merito di essere stata la prima a sospettare di Philby.


Non svelo nulla se dico che ne "La trappola di Synok" (ove Synok era il vero nome in codice di Philby) si sa fin dal principio che la presunta lista degli infiltrati è in realtà un falso elaborato a scopo di depistaggio, per accusare funzionari innocenti e distogliere l'attenzione dalle vere spie sovietiche: chi ha letto gli episodi precedenti sa anche chi l'ha elaborata e come è stata fatta arrivare a Londra.
Nella mia finzione, Jane Sissmore Archer non si lascia ingannare, ma deve riuscire a convincere i vertici di MI5 ed MI6 che si tratta solo di un gioco di specchi. Quindi immagino che chieda aiuto a Vera Atkins, da poco allontanata a sua volta dall'MI6, nel tentativo di portare alla luce la verità prima che abbia inizio la caccia alle persone sbagliate.
Nella maggior parte delle mie storie di spionaggio ci sono donne nel ruolo di protagoniste, ma in questo caso l'identificazione tra autore e personaggi è stata più facile del solito. Quante volte nella vita capita di vederci chiaro e cercare di mettere gli altri sull'avviso, senza riuscire a essere ascoltati...

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