mercoledì 20 febbraio 2019

Gli anni della birra letteraria


Ricordi e promemoria di Andrea Carlo Cappi


Presentare libri in modo non convenzionale in un bar o ristorante-bar, fare intrattenimento culturale, parlare di letteratura e non solo senza annoiare il pubblico - anzi, divertendolo - di fronte a un bicchiere. La birra letteraria che prende il posto del caffè letterario. Non è una novità: a Milano è una tradizione che dura da ventisette anni.
Era il 1992 quando Andrea G. Pinketts ideò il Seminario per Giallo e Bar, mentre il giallo italiano cominciava a trovare posto nell'editoria e si scatenava lo scandalo di Tangentopoli. Divenni un assiduo frequentatore degli incontri settimanali nel 1993 e dal 1995 fui io ad affiancare Pinketts nella conduzione, quasi ogni giovedì per oltre vent'anni. Nel 2011 inaugurai all'Admiral Hotel gli appuntamenti paralleli di Borderfiction Eventi, che hanno visto spesso la partecipazione di Pinketts e ora continuano con "Borderfiction Clubino" al Cafè Clubino di via Cosseria 1 e con "Ribs & Books" al Ribs and Beer di via Pitteri 110.
Giovedì 21 febbraio, per esempio, al Ribs di Milano Lambrate è di scena una casa editrice indipendente, Edizioni Clown Bianco, che si presenta con due autori di tutto rispetto: Paolo Brera e Riccardo Landini, dei cui nuovi libri trovate le recensioni sulle pagine di Borderfiction Zone.
Come amo ricordare, è un'attività culturale in cui non è mai stato speso un centesimo di denaro pubblico, a ingresso libero (anche se i locali si finanziano con le consumazioni, che peraltro hanno prezzi più che accessibili), necessaria ora più che mai. Pinketts non è più tra noi, ma spero di poter continuare la sua tradizione con gli altri colleghi e amici che ci hanno affiancato nel tempo... e raggiungere quantomeno il traguardo dei trent'anni. Anche se gli appuntamenti non hanno più frequenza settimanale, il Seminario per Giallo e Bar continua. Ci vediamo giovedì.

Pinketts & Cappi, 2011; foto: Stefano Trovati/SGP


Cacciatore di...

Tecla e Cappi: rituale "Carvalho" alla Libreria del Giallo negli anni '90  


Racconto di Marcello Cimino

Negli anni Novanta a Milano la Libreria del Giallo in piazza San Nazaro in Brolo, fondata da Gian Franco Orsi de "Il Gialllo Mondadori", poi gestita e rilevata da Tecla Dozio, era un punto di riferimento per autori, cultori e lettori di narrativa di genere in Italia. Tanto quella sede quanto quella successiva in via Peschiera furono un vero e proprio salotto letterario che ospitò scrittori italiani e stranieri, e in cui nacquero diversi libri a partire dall'antologia della Scuola dei Duri, "Crimine Milano Giallo-Nera". Per diversi anni ci lavorai anch'io, prima di essere assorbito completamente dal lavoro nell'editoria.
In piazza San Nazaro erano di casa Renato Olivieri, Andrea G. Pinketts, Carlo Lucarelli; passarono di lì Evan Hunter e Manuel Vázquez Montalbán; tra i frequentatori più assidui figurava Marcello Cimino - apparso all'epoca anche in un mio racconto della serie "Cacciatore di Libri" - che oltre a essere un esperto di narrativa gialla si è dilettato più volte e con successo nella scrittura di genere.
Intorno al 1995 alcuni di noi scrissero racconti ambientati alla Libreria del Giallo e imperniati sui personaggi che la frequentavano. Marcello ne produsse uno in chiave sarcastica e vetrioleggiante che, riemerso in questi giorni dalle nebbie del giallo italiano, riporta alla memoria tanti amici, molti dei quali ormai assenti. (A. C. Cappi)



Piccola guida ai luoghi e ai personaggi principali:

La Sherlockiana, meglio nota come Libreria del Giallo, situata in piazza San Nazaro in Brolo, in un fondo di proprietà della Curia, adiacente alla omonima chiesa

Tecla Dozio proprietaria e animatrice della suddetta, nonché musa di molti giovani talenti
Andrea Carlo Cappi scrittore, traduttore, saggista, nonché cacciatore di libri per conto della Libreria. Grande appassionato di hardboiled ma dotato, ahilui, di un fisico da staccatore di biglietti sul tram
Andrea G. Pinketts scrittore, modello, sceriffo, ma soprattutto depositario di un ego spaventoso
Carlo Oliva scrittore, traduttore, saggista, ex-professore del Liceo Parini, grande affabulatore
Attilio Guardamacchia ispettore capo della Squadra Omicidi
(unico personaggio inventato)
Amici, parenti, scrittori, giornalisti…..


30 agosto 1995

Quella mattina, destandosi da sogni inquieti, Andrea Carlo Cappi si ritrovò nel suo letto completamente avvolto in un bagno di sudore.
L’improvvisa morte di Tecla Dozio, attivissima titolare della Libreria del Giallo, nonché sua datrice di lavoro, l’aveva ovviamente sconvolto.
Era stato lui a trovare il cadavere, due giorni prima. Il lunedì Tecla non lavorava e toccava a lui aprire la libreria al pomeriggio.
Puntuale come sempre, era arrivato in piazza San Nazaro poco prima delle sedici e si era diretto verso l’ingresso sul retro. Aveva inserito la chiave nella toppa e girato verso sinistra, ma non era riuscito a fare più di mezzo giro; allora aveva abbassato la maniglia e la porta si era aperta. Possibile che sabato sera Tecla si fosse dimenticata di chiudere a chiave?
Era entrato guardingo e, appena superato il bagno, l’aveva vista. Tecla era seduta con la testa rovesciata all’indietro e gli occhi sbarrati che puntavano un punto imprecisato sul soffitto. Le braccia ricadevano inerti lungo il corpo e solo lo scarso spazio tra la sedia e la scrivania aveva impedito al corpo di scivolare sul pavimento. I segni presenti sul collo sembravano indicare morte per strangolamento.
Cappi aveva cercato di non perdere la calma, anche se avrebbe voluto vomitare lì, sul posto. Ma così facendo avrebbe inquinato eventuali prove, e lui, noto Cacciatore di Gialli nonché giallista a sua volta, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Come si sarebbe comportato Archie Goodwin in un simile frangente? Certo non avrebbe vomitato davanti al cadavere di Nero Wolfe.
Confortato da tale riflessione, uscì di corsa e vomitò nel cortile dei preti.
La polizia, chiamata dal portiere dello stabile, informato dell’accaduto da Cappi stesso, era arrivata in pochi minuti. In pochissimo tempo la piazza si era riempita di gente: giornalisti, amici della vittima, curiosi e poliziotti, tanti poliziotti che tentavano di tenere tutti a debita distanza.
Il medico avrebbe stabilito che la morte doveva risalire a circa ventiquattr’ore prima e che probabilmente era stata causata da strangolamento. Mentre i poliziotti della Scientifica cospargevano di polverina bianca tutto ciò che era alla loro portata, l’ispettore Guardamacchia, incaricato delle indagini, aveva chiesto a Cappi di controllare se tutto, all’interno della libreria, apparisse in ordine.
Cappi aveva controllato la cassa, il cassetto dove venivano custoditi gli incassi dei giorni precedenti (i versamenti venivano fatti regolarmente ogni martedì mattina) e il resto della scrivania. A parte la tastiera del Mac che era caduta sul pavimento, probabilmente in seguito alla colluttazione tra la vittima e il suo assassino, tutto sembrava essere al suo posto. Tecla non doveva aver opposto molta resistenza. Eppure Cappi provava una strana sensazione, c’era qualcosa che non quadrava, lo sapeva, ma non riusciva a capire cosa.

Erano passati due giorni. Le indagini non avevano ancora portato a nulla. Tecla era benvoluta da tutti, non aveva nemici e certo non era la rapina il movente dell’omicidio. Dalla libreria sembrava non mancare niente, e poi, dove si era mai visto un rapinatore di libri?
Ma era un’altra la domanda a cui gli inquirenti volevano dare una risposta: cosa ci faceva Tecla Dozio in libreria in quell’ultima, caldissima e afosissima domenica di agosto?
Cappi si rigirò ancora un po' nel letto, poi, vinto dall’ansia, si decise ad alzarsi. Era sempre più convinto che la soluzione del mistero si trovasse in libreria, in qualcosa che lui aveva visto ma che non riusciva a mettere a fuoco.
I funerali erano fissati per le undici.
Il Comune di Milano, su richiesta dei familiari, aveva dato l’autorizzazione a tenere la cerimonia funebre, rigorosamente laica, nella piazza antistante la Libreria del Giallo. Quando Cappi arrivò erano da poco passate le dieci, eppure la piazza era già affollata di gente. C’erano i “bolognesi”, Lucarelli, Cacucci, Narciso, Bernardi, con quella sua faccia da John Belushi triste, Nerozzi e Rigosi nella loro solita divisa da funzionari del Partito Comunista Cecoslovacco, la Dhany Coraucci, che se la tirava come sempre.
C’era la Scuola dei Duri al completo: Ossola, Oliva, Riva, Pinardi e Pinketts. Marcello Cimino e Cesare Fiore con gli occhi gonfi di lacrime, forse per il dolore, o, molto più probabilmente perché Tea Vergani aveva deciso di raccontare loro, nei minimi dettagli, l’ultimo convegno che aveva organizzato. Romualdo Grande che, tanto per non smentirsi, aveva trovato il modo di attaccare discorso con un’addetta delle pompe funebri. Curtoni e Massaron che, essendosi vestiti per l’occasione come due bancari, salutavano tutti e non venivano riconosciuti da nessuno. E poi Orsi, Olivieri, Rizzoni e tantissima altra gente.
Alle undici in punto Carlo Oliva, con la voce rotta dall’emozione, iniziò la sua orazione funebre. Parlava dando le spalle all’ingresso della libreria e Cappi, nonostante si trovasse a pochi metri di fronte a lui, non lo sentiva. Stava fissando la vetrina, alla sinistra di Oliva, e in particolare stava guardando le tre file di libri dalla copertina rossa, tutti uguali, che occupavano l’intera scaffalatura.
E all’improvviso comprese.
Si guardò intorno, cercando di non dare nell’occhio, e individuò il suo uomo.
Doveva pensare in fretta.
Oliva stava parlando ormai da quindici minuti e Cappi sperò che, anche in quell’occasione, il mitico ex-professore del Parini tenesse fede alla sua fama di oratore facondo e ispirato, e magari anche un po' prolisso.
Gli servivano ancora dieci minuti.
Se conosceva bene il suo uomo, la sua idea avrebbe funzionato.
Non ci sarebbero state altre occasioni.
Ricacciando indietro i conati di vomito che gli venivano dal profondo della stomaco, si defilò dal mucchio e raggiunse l’ispettore Guardamacchia dentro il portone dello stabile.
Guardamacchia, come aveva visto fare nei telefilm di Derrick, era andato ai funerali sapendo che ci sarebbe stato anche l’assassino, ma non aveva la minima idea di come avrebbe fatto a identificarlo.
Cappi, al riparo dal portone, gli parlò brevemente all’orecchio e poi si diresse all’ingresso posteriore della libreria.
Oliva, fuori, stava ancora parlando quando qualcosa, dall’interno della vetrina, cominciò a muoversi, distraendo gli astanti. Cappi stava togliendo dagli scaffali i libri con la copertina rossa, sostituendoli tutti con le copie del nuovo romanzo di Olivieri con le gesta del commissario Ambrosio.
Oliva si voltò a guardare cosa stava accadendo.
Proprio in quel momento qualcuno, tra la folla, si mosse.
Mentre nella piazza rimbombò un “ORC...!!!“ un uomo in giacca rossa, pantaloni neri e camicia gialla con cravatta in tinta prese Oliva di peso tirandolo giù dallo scalino, sfondò con una spallata la porta della libreria e si lanciò su Cappi, tentando di strangolarlo.
Immediatamente un nugolo di poliziotti gli fu addosso e, seppure con una certa difficoltà, fu messo in condizioni di non nuocere.
Cappi si rialzò massaggiandosi la gola e guardò Pinketts negli occhi dicendogli: -Ho capito che eri stato tu quando ho visto la vetrina con tutte quelle copie de "Il senso della frase". Io stesso, venerdì scorso, l'avevo riempita con il libro di Olivieri e tu questo non hai potuto sopportarlo. Con una scusa hai attirato Tecla in libreria e, di fronte al suo rifiuto di cambiare la disposizione della vetrina, l’hai fatto tu, dopo averla strangolata.
Pinketts, che nonostante fosse stato pestato e strattonato da dieci poliziotti, aveva ancora il sigaro in bocca, lo guardò con tutto il disprezzo di cui era capace. - Cosa ne vuoi sapere tu, piccolo sgabello della natura, di ciò che prova un grande scrittore vedendo la sua opera estromessa proditoriamente dal suo ambito naturale, dal posto che le spetta di diritto? Sei un morto che cammina, Cappi. Sei come Salman Rushdie. Prima o poi ti prenderò!
Cappi sentiva su di sé gli occhi di tutti. Era un eroe, aveva risolto il caso rischiando la vita, aveva reso giustizia a Tecla. Il palcoscenico era suo, non doveva sbagliare la sua battuta.
Pinketts era davanti a lui, trattenuto da decine di mani.
Cappi gli si avvicinò.
Lo guardò dritto negli occhi.
E gli vomitò addosso.


Per quanti fiori ci siano


Lo scrittore Andrea G. Pinketts era così presente nella vita culturale milanese e nelle vite di chi lo ha conosciuto, che il tempo dalla scomparsa si misura ancora in mesi. Oggi ne sono passati due e Borderfiction lo ricorda, per cominciare, con la riflessione di Numa Echos - artista rock, scrittrice e autrice della celebre foto per la quarta di copertina dell'ultimo romanzo, "La capanna dello zio Rom" - scritta a caldo con le parole proprie e quelle dello stesso Pinketts.

Riflessione di Numa Echos

Non esistono parole adeguate per descrivere una perdita. Non ci sono lacrime sufficienti per smaltire il dolore. L’accezione del dolore come un distillato, l’assoluta perfezione del dolore che è la cosa peggiore che ci sia. Non ho mai pensato che esistesse la perfezione e che il dolore potesse essere talmente perfetto.
Le immagini prendono confusamente forma nel caotico vano neuronale. Andrea G. Pinketts esce in silenzio dal bar, mentre la fleboclisi di birra ora è un ricordo appeso a un supplizio di silenzio e il sigaro acceso rammenta effluvi d’incenso a una veglia funebre. S’incammina per le nebbiose e umide vie della Milano d’inverno, presentandoci il conto dell’ultima cena. Lui che aveva una relazione apparentemente stabile con la vita, ma una tresca con la morte, ora l’ha raggiunta per sempre ed è convolato a nozze. In silenzio. Lui che più di tutti aveva “il senso della frase” ora cede la parola ai devoti per lasciarli dolorosamente riflettere sul “senso della vita” che non si riesce ad afferrare, o al “senso della morte” che non si può evitare.
Impossibile non amare un maestro di luce e intelletto, non accorgersi della generosità di un uomo che donava se stesso disinteressatamente, per una giusta causa umana o intellettuale, nel nome della parola, del cuore e dell’evoluzione della letteratura. I ricordi sono frastagliati, innumerevoli flash che profumano di vissuto intenso, confronto denso, segreti rivelati e confidenze innocenti, di quel primo incontro che sarebbe stato il primo di tanti, quel primo incontro nel “noir” di una notte luminosa. L’ironia nei gesti di un uomo che giocava con i significati, trovava un significato a ogni sembianza di significato apparentemente priva, donava significato all’attimo e a ogni circostanza. Tante anime ad animare le sue notti e i suoi crepuscoli. E come diceva Il Genio della parola, amici come coperte. Coperte termiche d’inverno. Fresche lenzuola d’estate. Perché senza gli amici sei nudo. Nasci nudo. E chi ti vuol bene comincia a coprirti, ti copre per tutta la vita. E anche dopo morto copre di fiori il tuo cappotto di legno.
Lasceremo che questa volta Andrea ci ascolti senza elaborare una critica, che ci indirizzi mediante l’onnipotenza dei suoi capolavori, che sia il ricordo infinito che ci avvicina all’idea d’immortalità. Cercheremo una soluzione al suo ultimo “giallo” ma non la troveremo. Giocheremo a nascondino con la vita nella speranza di una resurrezione. Una notte, quando avremo concretizzato tale idea, ci ritroveremo a dialogare sui segreti della prossima vita, tenendoci le mani per l’ennesima volta e sorseggiando l’eternità.
27 12 2018

“Nei cimiteri, per quanti fiori ci siano, non è mai primavera”.
Andrea G. Pinketts

martedì 19 febbraio 2019

Il futuro delitto di Paolo Brera



Recensione di Andrea Carlo Cappi

Che un romanzo giallo possa raccontare molte cose oltre alla semplice trama è un fatto ormai noto. Così come il fatto che il meccanismo di indagine possa portare non solo alla scoperta del colpevole di un delitto immaginario, ma anche di realtà solitamente trascurate. Il futuro degli altri di Paolo Brera, tuttavia, scatena una vera e propria tempesta filosofica di cui il dubbio esposto nel risvolto di copertina – se sia l'arte a imitare la vita o viceversa – è solo l'inizio.
La trama parte da un enigma che penso sia venuto alla mente di molti autori di mystery: un delitto realmente avvenuto coincide con un omicidio raccontato in un giallo. In effetti, si racconta che nel mondo reale qualche assassino si sia ispirato ai romanzi di Agatha Christie, ma sia stato scoperto senza bisogno di Poirot o di miss Marple. Accadeva qualcosa di simile alla scrittrice interpretata da Sharon Stone in Basic Instinct, che replicava che – in quanto autrice di thriller – non sarebbe stata così stupida da copiare un delitto da un proprio bestseller. Ma qui la questione è più complessa.
Ne Il futuro degli altri viene commesso infatti un delitto dalle caratteristiche identiche a quello descritto nei minimi particolari in un romanzo pubblicato subito dopo il fatto di cronaca. Persino il nome della vittima, l'indirizzo, l'arma e la scena dell'omicidio coincidono con la realtà. Il problema è che il romanzo è stato scritto prima, quindi il sospettato numero uno è l'autore del libro, unico a poter replicare il crimine nella realtà, rispettandone ogni caratteristica. Casualmente, nella finzione, l'autore del romanzo si chiama Paolo Brera e il suo libro si intitola Il futuro degli altri.
Il personaggio Brera si dichiara innocente: nonostante il delitto sia raccontato minuziosamente nel suo libro, nega di averlo commesso. Impossibile d'altra parte che abbia in qualche modo previsto il futuro (degli altri) o lo abbia addirittura influenzato. È in atto allora un'incredibile serie di coincidenze? Devo dire che, conoscendo di persona Brera (lo scrittore, nella realtà) da oltre un decennio e sapendo che, quando ci incontriamo, si scatenano spesso flussi di coincidenze che hanno dell'incredibile, non me ne stupirei. Quindi non mi stupisco che una storia del genere sia venuta in mente a lui.

Preciso subito che dal punto di vista giallo il romanzo – mi riferisco a quello di Brera scrittore, pubblicato in questi giorni da Edizioni Clown Bianco nella collana Periferie – si risolve in maniera impeccabilmente razionale, senza nulla di sovrannaturale o fantascientifico, quindi la salma di S. S. Van Dine (autore di celebri regole che un onesto autore di detective story dovrebbe sempre rispettare) può riposare in pace. Ma la lettura di questo libro spalanca una porta sulla contaminazione tra finzione e realtà su cui vale la pena di riflettere. Quante volte l'una ci viene venduta per l'altra? In quante occasione fatti veri ci vengono presentati come leggende metropolitane e fake news invece come realtà inconfutabili? A volte le une e gli altri si assomigliano molto, differiscono solo per dettagli impercettibili ma sostanziali. Ma, come la realtà influisce sulla finzione, anche la finzione può influire sulla realtà, in un contagio reciproco. “Lo spettacolo penetra ormai dentro la vita reale, le circostanze in cui dobbiamo recitare una parte si moltiplicano...”, scrivono Brera l'autore e Brera il personaggio, “... in noi i livelli si confondono”. In un romanzo giallo in cui lo scrittore rispetta le regole si può arrivare a una soluzione definitiva e certa, nella vita reale non è detto che ciò possa avvenire.

Il romanzo "Il futuro degli altri" di Paolo Brera (Edizioni Clown Bianco) viene presentato a "Ribs & Books" giovedì 21 febbraio 2019 dalle 18 alle 20, presso Ribs & Beer, via Pitteri 110, Milano; ingresso libero. Conduce Andrea Carlo Cappi



Le canzoni letali di Riccardo Landini



Recensione di Andrea Carlo Cappi

Una probabile prostituta, un tossico, un paio di ladruncoli... In un'imprecisata città dell'Italia settentrionale si susseguono omicidi brutali che non possono essere liquidati come regolamenti di conti, come vorrebbe un pm incompetente, e che appaiono collegati l'uno all'altro persino agli occhi del nevrotico commissario di turno. Ma le indagini toccano a due ispettori di buona volontà: Ezio Marvelli, appena rientrato in servizio dopo un'esperienza che gli ha lasciato cicatrici sul volto e nell'animo, e Roberto Grossi, che comincia a sentire il peso del lavoro sulla sua vita famigliare.
L'arma è la stessa in tutti gli omicidi, un machete identico a quello del ricercato numero uno di sei mesi prima: Giano Gozzi detto “Buio”, definito “un'espressione letale della natura”, un uomo trasformatosi in belva, che Marvelli è riuscito a stanare a prezzo dell'equilibrio psichico e coniugale. Proprio all'ispettore qualcuno ora recapita ogni giorno musicassette registrate solo da un lato, con un'unica canzone che, scopre il collega Grossi, corrisponde ogni volta all'ultima vittima della serie. Buio è tornato? O si tratta di un astuto imitatore che vuole sfidare uno sbirro divenuto famoso suo malgrado?
Eppure Buio dovrebbe essere morto, in comune ci sono solo arma e modus operandi, e i delitti sembrano l'opera di un “giustiziere della notte” deciso a ripulire la città in base a criteri molto personali. Senza contare che la busta con una delle audiocassette è stata lasciata direttamente sulla scrivania di Marvelli, sotto il naso di tutti. Fin qui non ho rivelato nulla che non si possa desumere dal risvolto di copertina. Ma Di morte, d'insonnia e d'altre canzoni di Riccardo Landini, già ottima voce dell'hardboiled di provincia, afferra senza pietà gli stereotipi del thriller e ne fa scempio a colpi di machete, prima di ricomporli in una trama spietata dalla soluzione inattesa.

Il romanzo "Di morte, d'insonnia e d'altre canzoni" di Riccardo Landini (Edizioni Clown Bianco) viene presentato a "Ribs & Books" giovedì 21 febbraio 2019 dalle 18 alle 20, presso Ribs & Beer, via Pitteri 110, Milano; ingresso libero. Conduce Andrea Carlo Cappi


lunedì 14 gennaio 2019

Le visioni di Biagio Proietti

Biagio Proietti in una foto di A. C. Cappi

Riflessioni di Andrea Carlo Cappi

Quarantatré anni fa in questi giorni - per la precisione il 13 gennaio 1976 - l'Italia comincia a chiedersi "Dov'è Anna?" È il titolo del giallo televisivo imperniato sulla misteriosa sparizione di Anna Ortese, impiegata in un'agenzia immobiliare di Roma. Quando il commissario Bramante è costretto ad abbandonare le indagini, è il marito della donna, Carlo, a dare inizio alla propria inchiesta privata che trascina con sé gli spettatori italiani (una media di ventiquattro milioni) fino alla rivelazione finale del settimo episodio, in onda il 24 febbraio con un'audience senza precedenti e tuttora ineguagliata: ventotto milioni di persone.
Questo perché Dov'è Anna?, diretto da Piero Schivazappa, non è solo un ottimo sceneggiato (non si usava ancora la parola fiction) in un'epoca in cui i gialli a puntate realizzati dalla RAI sono abitualmente molto seguiti. È anche l'arrivo sul piccolo schermo del "giallo italiano" a tutti gli effetti: personaggi italiani, ambientazione italiana (eccetto una breve parte ambientata in Spagna) e soprattutto storie italiane, al punto che una delle questioni sollevate in un episodio porterà addirittura alla modifica di una legge dello Stato.
Fino a quel momento i gialli della RAI si sono svolti perlopiù all'estero, assecondando la persistente convinzione che l'Italia non fosse un luogo credibile per storie del genere. La scommessa di Dov'è Anna? - sceneggiatura originale di Biagio Proietti e Diana Crispo, che ne trarranno anche un bestseller ripubblicato di recente - è realizzare una storia in cui il pubblico si possa riconoscere. Tant'è che - come racconta il numero della Domenica del Corriere nella foto sopra - vengono presto notate le somiglianze tra la vicenda televisiva e una reale indagine in corso.


RayPlay e una nuova collezione di dvd in edicola dal 2 gennaio 2019 ripropongono questo e molti altri titoli di quella fortunata stagione creativa della televisione italiana. In perfetto tempismo con l'uscita alla fine dello scorso anno da Edizioni il Foglio del libro di Mario Gerosa Biagio Proietti - Un visionario felice, contenente anche contributi di Stefano Di Marino, Enrico Luceri e miei, ma soprattutto i ricordi personali dello stesso Biagio Proietti. Il libro fa seguito al volume Daniele D'Anza - Un rivoluzionario della tv, che Gerosa e Proietti hanno pubblicato presso lo stesso editore nel 2017 e tratta di uno dei registi più importanti dell'epoca degli sceneggiati RAI.
Tuttavia, se Biagio Proietti è noto soprattutto per i suoi sceneggiati gialli (a partire da Coralba, diretto proprio da D'Anza), Un visionario felice percorre tutta la sua carriera tra televisione, cinema, radio, teatro, narrativa e saggistica. Un corpus di opere in cui il giallo-noir ha una forte presenza (va ricordato il film La morte risale a ieri sera di Duccio Tessari, tratto da I milanesi ammazzano al sabato di Scerbanenco) così come l'horror (per esempio Black Cat di Lucio Fulci), ma non solo: basta citare una straordinaria versione televisiva di Madame Bovary diretta da D'Anza o la commedia Chewing-gum di cui Proietti è anche regista.
Potrei citare moltissimi altri titoli famosi, ma per sapere tutto c'è, appunto, un libro, con parecchio da leggere e molto da scoprire o riscoprire: buona parte del materiale è disponibile in video e, nell'ultimo decennio, ha conquistato anche un pubblico giovane che non lo aveva "vissuto" all'epoca. Un'esperienza che vi posso consigliare, dal momento che partecipare a questo volume è stato anche per me l'occasione per vedere o rivedere molta dell'estesa produzione di Biagio Proietti.

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sabato 5 gennaio 2019

Aquaman, sopra e sotto i mari



Recensione di Andrea Carlo Cappi

Aquaman segna un punto a favore della DC. Non perché sia un prodotto particolarmente originale, ma – al contrario – perché riunisce in un unico film una quantità così esagerata di elementi da diventare una Las Vegas di avventure sopra e sotto i mari: fantasy e technothriller, mitologia da peplum e fumetto, Jules Verne e Carlo Collodi (entrambi citati esplicitamente), Pierre Benoit e (almeno per me) Totò sceicco, fantascienza e avventura classica... senza contare alcuni elementi ormai irrinunciabili nella grammatica del film di supereroi, dagli elaborati scenari fantastici al ritrovamento di genitori perduti (con tanto di star ringiovanita al computer per le sequenze in flashback). E, per gli estimatori del genere, persino un kaiju che non sfigurerebbe in Pacific Rim (doppiato nella versione originale nientemeno che da Julie Andrews, altro che ritorno di Mary Poppins).
Una nota storica: il personaggio di Aquaman è stato creato nel 1941 da Paul Norris e Mort Wesinger, ma non è il primo eroe atlantideo della cultura di massa, in quanto segue di due anni Namor alias Sub-Mariner, ideato nel 1939 da Bill Everett per la Timely Comics, antesignana della Marvel. Dopo di loro sarebbero venute altre serie su eroi-mutanti degli oceani, compresi Mar e il suo delfino dell'italiana Edifumetto nel 1974 e il televisivo L'uomo di Atlantide con Patrick Duffy del 1977-78.
È più che evidente che la storica competizione tra le due grandi case editrici fumettistiche statunitensi – la Marvel e la DC Comics – sia oggi passata dalla carta stampata allo schermo. Forse in tv ad avere più successo sono le serie derivate dalla DC, quelle del cosiddetto Arrowverse, mentre al cinema domina inequivocabilmente la Marvel, che nel 2018 ha raggiunto l'apice con Infinity War (benché il capolavoro assoluto sia arrivato nel 2017 con Logan, appartenente al franchise Marvel della 20th Century Fox).
I film del DC Extended Universe basati sui grandi team-up (Batman vs Superman, Justice League) hanno avuto genesi contrastate e risultati inferiori al previsto al botteghino; la pellicola più riuscita, Suicide Squad, è quella che al grande pubblico è piaciuta di meno, forse perché più disobbediente ai canoni abituali; il successo ha arriso invece a Wonder Woman e, stando ai primi risultati, a questo nuovo Aquaman.


Come al solito, la riuscita di un supereroe dipende dall'interprete: anche se per nulla somigliante all'iconografia tradizionale dei fumetti in cui Aquaman ha i capelli biondissimi, l'hawaiiano Jason Momoa – già buon erede di Schwarzenegger nel Conan del 2011 – fa del personaggio un simpatico cialtrone che incanta il pubblico femminile, come già si poteva intuire dalle sue apparizioni precedenti nella serie.
Per una volta, tuttavia, avranno ragione i critici che tireranno fuori l'ormai usurata frase: «La trama è solo un pretesto per gli effetti speciali». In questo caso è verissimo: gli effetti speciali sono di una complessità grandiosa, che rende credibili creature improbabili, combattimenti acrobatici e battaglie titaniche. In fondo è ciò che ci si aspetta da un film di questo genere in uscita natalizia: che riproduca sullo schermo una grandiosità relativamente facile da realizzare su una splash page, ma possibile sullo schermo solo ora che il CGI è arrivato a livelli inimmaginabili fino a una decina di anni fa.


Vari flashback ricostruiscono le origini del personaggio (quantomeno una delle numerosi varianti proposte in oltre settant'anni di storie a fumetti), dalla storia d'amore clandestina tra il guardiano del faro Thomas Curry (Temuera Morrison, che qualcuno ricorderà come Jango Fett in Star Wars) e la principessa atlantidea Atlanna (Nicole Kidman) in fuga da un matrimonio combinato, alla nascita del meticcio Arthur Curry, fino alla sua educazione marziale da parte del mentore Vulko (Willem Dafoe).


La vicenda principale si svolge però dopo gli eventi di Justice League, quando l'avvenente Mera (Amber Heard) mette in guardia Arthur sui piani del fratellastro Orm (Patrick Wilson), figlio legittimo di Atlanna. Con il titolo di Ocean Master, questi intende riunire i vari popoli, mutanti e altamente tecnologici, che abitano sotto i mari in una guerra contro la superficie; e un po' di ragione ce l'ha, vista la quantità di plastica che l'umanità ha scaricato sopra le loro teste. Ma, per guadagnarsi l'appoggio del padre di Mera, re Nereus (Dolph Lundgren), Orm non esita a organizzare la propria strategia della tensione, con la complicità del pirata subacqueo Black Manta (Yahya Abdul Mateen II).
L'esito del primo confronto tra Ocean Master e Aquaman è disastroso. L'unica possibilità per battere l'aspirante dittatore dei sette mari è localizzare il mitico tridente di un antico sovrano, in una quest che porta Arthur e Mera nel Sahara, in Sicilia e nel misterioso Mare Occulto, per potersi presentare in tempo alla battaglia finale e sventare il conflitto. Rassicura il fatto che, per arrivare al tridente, Arthur faccia ricorso anche alle sue conoscenze della storia di Roma, lasciando intendere che, per essere un supereroe, oltre ai muscoli, occorra a volte un minimo di cultura.





Iperwriters - Tiro al piccione su Superman

Photo: Johan Taljaard on Unsplash I perwriters - Editoriale di Claudia  Salvatori Letteratura italiacana - 59 - Tiro al piccione su Superman...