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Tecla e Cappi: rituale "Carvalho" alla Libreria del Giallo negli anni '90 |
Racconto di Marcello Cimino
Negli anni Novanta a Milano la Libreria del Giallo in piazza San Nazaro in Brolo, fondata da Gian Franco Orsi de "Il Gialllo Mondadori", poi gestita e rilevata da Tecla Dozio, era un punto di riferimento per autori, cultori e lettori di narrativa di genere in Italia. Tanto quella sede quanto quella successiva in via Peschiera furono un vero e proprio salotto letterario che ospitò scrittori italiani e stranieri, e in cui nacquero diversi libri a partire dall'antologia della Scuola dei Duri, "Crimine Milano Giallo-Nera". Per diversi anni ci lavorai anch'io, prima di essere assorbito completamente dal lavoro nell'editoria.
In piazza San Nazaro erano di casa Renato Olivieri, Andrea G. Pinketts, Carlo Lucarelli; passarono di lì Evan Hunter e Manuel Vázquez Montalbán; tra i frequentatori più assidui figurava Marcello Cimino - apparso all'epoca anche in un mio racconto della serie "Cacciatore di Libri" - che oltre a essere un esperto di narrativa gialla si è dilettato più volte e con successo nella scrittura di genere.
Intorno al 1995 alcuni di noi scrissero racconti ambientati alla Libreria del Giallo e imperniati sui personaggi che la frequentavano. Marcello ne produsse uno in chiave sarcastica e vetrioleggiante che, riemerso in questi giorni dalle nebbie del giallo italiano, riporta alla memoria tanti amici, molti dei quali ormai assenti. (A. C. Cappi)
Piccola guida ai
luoghi e ai personaggi principali:
La Sherlockiana, meglio
nota come Libreria del Giallo, situata in piazza San Nazaro in Brolo,
in un fondo di proprietà della Curia, adiacente alla omonima
chiesa
Tecla
Dozio proprietaria e animatrice della suddetta, nonché musa di molti giovani talenti
Andrea
Carlo Cappi scrittore, traduttore, saggista, nonché cacciatore
di libri per conto della Libreria. Grande appassionato di hardboiled
ma dotato, ahilui, di un fisico da staccatore di biglietti sul tram
Andrea
G. Pinketts scrittore, modello, sceriffo, ma soprattutto depositario
di un ego spaventoso
Carlo
Oliva scrittore, traduttore, saggista, ex-professore del Liceo
Parini, grande affabulatore
Attilio
Guardamacchia ispettore capo della Squadra Omicidi
(unico
personaggio inventato)
Amici,
parenti, scrittori, giornalisti…..
30 agosto 1995
Quella mattina, destandosi da
sogni inquieti, Andrea Carlo Cappi si ritrovò nel suo letto
completamente avvolto in un bagno di sudore.
L’improvvisa morte di Tecla
Dozio, attivissima titolare della Libreria del Giallo, nonché
sua datrice di lavoro, l’aveva ovviamente sconvolto.
Era stato lui a trovare il
cadavere, due giorni prima. Il lunedì Tecla non lavorava e
toccava a lui aprire la libreria al pomeriggio.
Puntuale come sempre, era
arrivato in piazza San Nazaro poco prima delle sedici e si era
diretto verso l’ingresso sul retro. Aveva inserito la chiave nella
toppa e girato verso sinistra, ma non era riuscito a fare più
di mezzo giro; allora aveva abbassato la maniglia e la porta si era
aperta. Possibile che sabato sera
Tecla si fosse dimenticata di chiudere a chiave?
Era entrato guardingo e,
appena superato il bagno, l’aveva vista. Tecla era seduta con la testa
rovesciata all’indietro e gli occhi sbarrati che puntavano un punto
imprecisato sul soffitto. Le braccia ricadevano inerti lungo il
corpo e solo lo scarso spazio tra la sedia e la scrivania aveva
impedito al corpo di scivolare sul pavimento. I segni presenti sul collo
sembravano indicare morte per strangolamento.
Cappi aveva cercato di non
perdere la calma, anche se avrebbe voluto vomitare lì, sul
posto. Ma così facendo avrebbe
inquinato eventuali prove, e lui, noto Cacciatore di Gialli nonché
giallista a sua volta, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Come si sarebbe comportato
Archie Goodwin in un simile frangente? Certo non avrebbe vomitato
davanti al cadavere di Nero Wolfe.
Confortato
da tale riflessione, uscì di corsa e vomitò nel cortile
dei preti.
La polizia, chiamata dal
portiere dello stabile, informato dell’accaduto da Cappi stesso,
era arrivata in pochi minuti. In pochissimo tempo la piazza
si era riempita di gente: giornalisti, amici della vittima, curiosi
e poliziotti, tanti poliziotti che tentavano di tenere tutti a debita
distanza.
Il medico avrebbe stabilito che
la morte doveva risalire a circa ventiquattr’ore prima e che
probabilmente era stata causata da strangolamento. Mentre i poliziotti della Scientifica cospargevano di polverina bianca tutto ciò che era
alla loro portata, l’ispettore Guardamacchia, incaricato delle
indagini, aveva chiesto a Cappi di controllare se tutto, all’interno
della libreria, apparisse in ordine.
Cappi aveva controllato la
cassa, il cassetto dove venivano custoditi gli incassi dei giorni
precedenti (i versamenti venivano fatti regolarmente ogni martedì
mattina) e il resto della scrivania. A parte la tastiera del Mac
che era caduta sul pavimento, probabilmente in seguito alla
colluttazione tra la vittima e il suo assassino, tutto sembrava
essere al suo posto. Tecla non doveva
aver opposto molta resistenza. Eppure Cappi provava una
strana sensazione, c’era qualcosa che non quadrava, lo sapeva, ma
non riusciva a capire cosa.
Erano
passati due giorni. Le indagini non avevano ancora
portato a nulla. Tecla era benvoluta da tutti, non aveva nemici e
certo non era la rapina il movente dell’omicidio. Dalla libreria sembrava non
mancare niente, e poi, dove si era mai visto un rapinatore di libri?
Ma era un’altra la domanda a
cui gli inquirenti volevano dare una risposta: cosa ci faceva Tecla
Dozio in libreria in quell’ultima, caldissima e afosissima domenica
di agosto?
Cappi si rigirò ancora
un po' nel letto, poi, vinto dall’ansia, si decise ad alzarsi. Era sempre più convinto
che la soluzione del mistero si trovasse in libreria, in qualcosa che
lui aveva visto ma che non riusciva a mettere a fuoco.
I funerali erano fissati per
le undici.
Il Comune di Milano, su
richiesta dei familiari, aveva dato l’autorizzazione a tenere la
cerimonia funebre, rigorosamente laica, nella piazza antistante la
Libreria del Giallo. Quando Cappi arrivò
erano da poco passate le dieci, eppure la piazza era già
affollata di gente. C’erano i “bolognesi”, Lucarelli, Cacucci,
Narciso, Bernardi, con quella sua faccia da John Belushi triste,
Nerozzi e Rigosi nella loro solita divisa da funzionari del Partito
Comunista Cecoslovacco, la Dhany Coraucci, che se la tirava come
sempre.
C’era la Scuola dei Duri al
completo: Ossola, Oliva, Riva, Pinardi e Pinketts. Marcello Cimino e Cesare Fiore
con gli occhi gonfi di lacrime, forse per il dolore, o, molto più
probabilmente perché Tea Vergani aveva deciso di raccontare
loro, nei minimi dettagli, l’ultimo convegno che aveva organizzato. Romualdo Grande che, tanto per
non smentirsi, aveva trovato il modo di attaccare discorso con
un’addetta delle pompe funebri. Curtoni e Massaron che,
essendosi vestiti per l’occasione come due bancari, salutavano
tutti e non venivano riconosciuti da nessuno. E poi Orsi, Olivieri, Rizzoni
e tantissima altra gente.
Alle undici in punto Carlo
Oliva, con la voce rotta dall’emozione, iniziò la sua
orazione funebre. Parlava dando le spalle
all’ingresso della libreria e Cappi, nonostante si trovasse a pochi
metri di fronte a lui, non lo sentiva. Stava fissando la vetrina, alla sinistra di Oliva, e in particolare stava
guardando le tre file di libri dalla copertina rossa, tutti uguali,
che occupavano l’intera scaffalatura.
E all’improvviso comprese.
Si guardò intorno,
cercando di non dare nell’occhio, e individuò il suo uomo.
Doveva pensare in fretta.
Oliva stava parlando ormai da
quindici minuti e Cappi sperò che, anche in quell’occasione,
il mitico ex-professore del Parini tenesse fede alla sua fama di
oratore facondo e ispirato, e magari anche un po' prolisso.
Gli servivano ancora dieci
minuti.
Se conosceva bene il suo uomo,
la sua idea avrebbe funzionato.
Non ci sarebbero state altre
occasioni.
Ricacciando indietro i conati
di vomito che gli venivano dal profondo della stomaco, si defilò
dal mucchio e raggiunse l’ispettore Guardamacchia dentro il portone
dello stabile.
Guardamacchia, come aveva
visto fare nei telefilm di Derrick, era andato ai funerali sapendo
che ci sarebbe stato anche l’assassino, ma non aveva la minima idea
di come avrebbe fatto a identificarlo.
Cappi, al riparo dal portone,
gli parlò brevemente all’orecchio e poi si diresse
all’ingresso posteriore della libreria.
Oliva,
fuori, stava ancora parlando quando qualcosa, dall’interno della
vetrina, cominciò a muoversi, distraendo gli astanti. Cappi stava togliendo dagli
scaffali i libri con la copertina rossa, sostituendoli tutti con le
copie del nuovo romanzo di Olivieri con le gesta del commissario
Ambrosio.
Oliva si voltò a
guardare cosa stava accadendo.
Proprio in quel momento
qualcuno, tra la folla, si mosse.
Mentre nella piazza rimbombò
un “ORC...!!!“ un uomo in giacca rossa, pantaloni neri e
camicia gialla con cravatta in tinta prese Oliva di peso tirandolo
giù dallo scalino, sfondò con una spallata la porta
della libreria e si lanciò su Cappi, tentando di strangolarlo.
Immediatamente un nugolo di
poliziotti gli fu addosso e, seppure con una certa difficoltà,
fu messo in condizioni di non nuocere.
Cappi si rialzò
massaggiandosi la gola e guardò Pinketts negli occhi
dicendogli: -Ho capito che eri stato tu
quando ho visto la vetrina con tutte quelle copie de "Il senso della frase". Io stesso, venerdì scorso, l'avevo riempita con il libro di Olivieri e tu questo non hai potuto sopportarlo. Con una scusa hai attirato
Tecla in libreria e, di fronte al suo rifiuto di cambiare la
disposizione della vetrina, l’hai fatto tu, dopo averla strangolata.
Pinketts, che nonostante fosse
stato pestato e strattonato da dieci poliziotti, aveva ancora il
sigaro in bocca, lo guardò con tutto il disprezzo di cui era
capace. - Cosa ne vuoi sapere tu,
piccolo sgabello della natura, di ciò che prova un grande
scrittore vedendo la sua opera estromessa proditoriamente dal suo
ambito naturale, dal posto che le spetta di diritto? Sei un morto che cammina,
Cappi. Sei come Salman Rushdie. Prima o poi ti prenderò!
Cappi sentiva su di sé
gli occhi di tutti. Era un eroe, aveva risolto il
caso rischiando la vita, aveva reso giustizia a Tecla. Il palcoscenico era suo, non
doveva sbagliare la sua battuta.
Pinketts era davanti a lui,
trattenuto da decine di mani.
Cappi gli si avvicinò.
Lo guardò dritto negli
occhi.
E gli vomitò addosso.