martedì 5 marzo 2024

Bond Anno Zero

 

Riflessioni di Andrea Carlo Cappi

Se nel 2023 sono passati settant'anni dalla pubblicazione del romanzo Casinò Royale, nel 2024 ricorre per James Bond un altro importante anniversario: il 12 agosto 1964 moriva a cinquantasei anni il suo creatore Ian Fleming e solo qualche mese dopo nel mondo intero scoppiava la cosiddetta Bondmania, con l'uscita natalizia del film Agente 007 - Missione Goldfinger (terzo della serie, che però in Italia sarebbe stato proiettato dal febbraio 1965).
In occasione di questo doppio sessantennale, dal 5 marzo 2024 a Milano la Fondazione Culturale San Fedele (piazza San Fedele 4) organizza Bond Anno Zero, una rassegna cinematografica con l'intervento di esperti e l'amichevole partecipazione di Edward Coffrini Dell'Orto, co-autore con me di vari saggi sul "Mondo Bond". La domanda è: cos'è stato e cosa diventerà James Bond? Vengono proposti, in lingua originale e sottotitolati, cinque ottimi film dell'agente 007, tra cui a mio avviso i due migliori in assoluto, vale a dire Dalla Russia con amore (1963, ma in Italia la prima ebbe luogo il 31 gennaio 1964) e Casinò Royale (2006, che da noi arrivò il 5 gennaio 2007).
Nella rassegna il protagonista appare con i volti di cinque interpreti diversi: nell'ordine, Sean Connery, Roger Moore, Timothy Dalton, Pierce Brosnan e Daniel Craig (manca all'appello solo George Lazenby, che sostituì Sean Connery per un unico episodio, Al servizio segreto di Sua Maestà del 1969). Ma c'è un ulteriore criterio per la selezione delle pellicole: ognuna è molto indicativa dell'epoca in cui è state realizzata. I cinque appuntamenti, di cui qui sotto trovate il programma, mi portano quindi a riflettere sui rapporti tra lo 007 cinematografico e i tempi in cui è stato proposto sul grande schermo.


Dalla Russia con amore
, tratto dal quinto romanzo di Fleming (datato 1957), è il secondo film della serie realizzata dalla EON Productions dopo l'esordio di Sean Connery nel ruolo di James Bond in Licenza di uccidere (1962) che invece si basava sul sesto libro della saga; ma, per varie ragioni, la continuity cinematografica è diversa da quella letteraria. Sotto molti aspetti tuttavia Dalla Russia con amore rappresenta una "prima volta": è il primo Bond movie ad aprirsi con una sequenza prima dei titoli di testa, i quali dal canto loro assumono qui lo stile che diverrà caratteristico dell'intera serie; è il primo in cui appaia l'attore Desmond Llewelyn nel ruolo di "Q", ideatore delle attrezzature che il protagonista userà in missione; inoltre è il primo in cui l'intera colonna sonora sia opera di John Barry, il musicista che, dopo avere orchestrato il celebre James Bond Theme di Monty Norman nel film precedente, delinea ora lo stile classico dello score di 007.
Sean Connery interpreta un Bond più "anni Sessanta" rispetto ai libri, un agente segreto playboy più che un tormentato operativo del servizio segreto britannico. Pur con qualche ritocco della trama in chiave spettacolare, il film Dalla Russia con amore rimane pressoché fedele alla vicenda di spionaggio del libro. Ma, anche se vengono rispettati il contesto della Guerra Fredda e la contesa tra agenti segreti britannici e sovetici, nel passaggio da libro a film cambiano i "veri" avversari di Bond: è in azione la SPECTRE. Questa organizzazione internazionale era stata concepita proprio pensando al cinema e, apparsa nei romanzi di Fleming dal 1961, è stata immediatamente inserita nelle sceneggiature di 007 tratte anche da libri precedenti. Alla SPECTRE fanno infatti capo quasi tutti i nemici di James Bond nel suo primo decennio sullo schermo.
Nondimeno, Dalla Russia con amore è il film più vicino a Ian Fleming come epoca e atmosfere. Nella realizzazione del regista Terence Young si avverte persino un certo sapore hitchcockiano, con la bionda attrice italiana Daniela Bianchi nel ruolo di Tatiana Romanova, coinvolta in un gioco che la vede pedina involontaria.

Il secondo film della rassegna è Vivi e lascia morire, ottavo della serie e primo in cui Roger Moore indossa i panni di James Bond nella versione più ironica già adottata da Sean Connery negli ultimi anni. Nel primo decennio sul grande schermo, la serie 007 si è arricchita non solo di humour e azione, ma anche di elementi fantascientifici e di parecchie infedeltà (quando non veri e propri tradimenti) rispetto ai romanzi originali.
Il libro Vivi e lascia morire del 1954 (il secondo scritto da Fleming) era a metà tra noir spionistico negli USA e avventura esotica nella Giamaica tanto amata dallo scrittore; e l'avversario di Bond era "Mister Big", primo grande boss della malavita afroamericana, legato a un culto voodoo e in loschi affari con i servizi segreti sovietici. Il film stavolta rinuncia alla fantascienza e recupera dal libro i temi del gangsterismo e del voodoo, cui viene dato ampio spazio, addirittura con qualche sottile suggestione esoterica che ispirerà anche Indiana Jones: una celebre gag de I predatori dell'arca perduta proviene proprio da questo film...
Ma soprattutto Vivi e lascia morire viene girato vent'anni dopo che Fleming ha scritto il romanzo. E nel 1973 negli USA è appena esplosa la moda della blaxploitation, il cinema con protagonisti afroamericani, che vede nella serie Shaft (dai romanzi di Ernest Tidyman) la risposta "nera" a 007. Sicché il film Vivi e lascia morire non solo è per stile e costumi vicino alla blaxploitation, ma è anche popolato da varie star afroamericane di quella stagione: mi permetto di citare Gloria Hendry nel ruolo di Rosie Carter, le cui scene d'amore interrazziale con 007 furono censurate nel Sudafrica dell'apartheidE persino la colonna sonora, per la quale John Barry si prende una pausa, si divide tra la title song di Paul McCartney e lo score di George Martin (il "quinto Beatle") dalle sonorità molto 70's.

Il terzo film della rassegna è Vendetta privata, del 1989, sedicesimo della serie ufficiale della EON (in mezzo si era introdotta nel 1983 una pellicola di produzione "rivale", Mai dire mai, in cui Sean Connery riprendeva la parte di 007) oltre che secondo e ultimo con Timothy Dalton nel ruolo di James Bond.
Con lui si cerca di tornare a un approccio più serio e noir al personaggio, riavvicinando la serie cinematografica ai romanzi da cui spesso si è distaccata. La sceneggiatura non si basa però su alcun libro, eccetto alcuni capitoli di Vivi e lascia morire - tra cui uno molto drammatico - che non erano stati usati per il film del 1973. L'intreccio fa pensare ai romanzi dedicati a 007 da John Gardner, all'epoca continuatore ufficiale della saga letteraria, che di questo film firma infatti la novelization. Curiosamente, il titolo in inglese della pellicola è Licence to Kill ("Licenza di uccidere") ma per l'edizione italiana dev'essere cambiato, dal momento che da noi era stato impiegato per la prima pellicola della serie, nell'edizione originale Doctor No.
Ma a rendere questo film forse il più rappresentativo del Bond anni Ottanta è la vicinanza per stile e argomento alla serie tv di maggior successo di quel decennio, Miami Vice. Qui infatti Bond affronta tra Florida e America Centrale uno spietato narcotrafficante con cui ha un conto aperto a livello personale; per compiere la sua private vendetta arriva al punto di farsi sospendere dal servizio segreto britannico e fingersi un mercenario, in modo da infltrarsi nell'organizzazione del suo avversario e distruggerla dall'interno. Lo score di Michael Kamen si alterna a numerosi brani cantati, secondo la tradizione degli album delle colonne sonore del decennio.

La proposta successiva della rassegna, GoldenEye, è la pellicola seguente nella saga, uscita dopo un lungo intervallo nel 1995, e la prima con Pierce Brosnan, da anni in lista d'attesa per il ruolo di 007. Nel frattempo ha avuto luogo il crollo dell'URSS, la Guerra Fredda è finita (o almeno così si crede a quel tempo) e si può persino girare parte delle scene in Russia. Di certo questo film rappresenta un'epoca di transizione particolarmente rilevante nel campo della spy story, in cui le ombre del passato sovietico e del KGB rischiano di soffocare lo spirito della perestrojka.
Perciò James Bond, in una storia scritta appositamente per lo schermo (con puntuale novelization di John Gardner) deve debellare un ex collega che si rivela in realtà un pericoloso avversario equipaggiato con la più avanzata tecnologia che si possa rubare. Be', d'accordo, il nemico è interpretato da Sean Bean, quindi oggi sappiamo tutti che il suo personaggio avrà scarse probabilità di sopravvivere.
Le musiche, atipiche, sono del lucbessoniano Eric Serra, mentre la canzone dei titoli vede la collaborazione fra Tina Turner e parte degli U2. In realtà GoldenEye fu il nome in codice di un'operazione segreta concepita da Ian Fleming durante la Seconda guerra mondiale, quando lavorava presso il servizo segreto della Royal Navy: con esso lo scrittore battezzò poi la propria casa in Giamaica, in cui dal 1952 ogni anno si ritirava a scrivere un romanzo di James Bond. Per questo Goldeneye era stato anche il titolo di un interessante tv movie sulla vita di Fleming, ben interpretato da Charles Dance.

Ultimo appuntamento della rassegna: Casinò Royale, primo film della pentalogia con Daniel Craig giunta sugli schermi tra il 2006 e il 2021, tratto però dal primissimo romanzo di Ian Fleming, pubblicato nel 1953. Lo scrittore ne aveva venduto l'anno dopo i diritti televisivi (grazie ai quali ne era stato subito realizzato un adattamento per la tv nel 1954) e cinematografici, questi ultimi però a una compagnia che non ne aveva fatto nulla. Quando la EON cominciò a girare la serie nel 1962, non potê acquisire i diritti, che seguirono invece un bizzarro percorso e generarono nel 1967 un film "concorrente", parodistico e psichedelico, intitolato James Bond 007 - Casinò Royale.
Ma, dopo mezzo secolo, finalmente la EON ha la possibilità di portare il libro sullo schermo e decide di fare un vero e proprio reboot con un "nuovo" James Bond che acquisisce la licenza di uccidere negli anni Duemila (anche se il ruolo del suo capo, M, tocca a Judi Dench, apparsa nella stessa parte nei film con Pierce Brosnan). Da anni si percepisce il desiderio di tornare allo spirito più serio di Ian Fleming, sia al cinema con occasionali tentativi, sia (con successo) nei romanzi, grazie al nuovo ciclo scritto da Raymond Benson tra il 1997 e il 2002. Il problema è che il pubblico cinematografico da 007 si aspetta più un action movie sfrenato che un cupo noir spionistico anni Cinquanta, come appunto il romanzo Casinò Royale.
Una brillante sceneggiatura che recupera l'intera trama del libro, riadattandola ai tempi e inserendola in una cornice credibile con la giusta dose di azione, permette di realizzare una perfetta simbiosi tra tutti gli elementi. Così nel 2006 arriva sullo schermo un James Bond più fedele al personaggio letterario rispetto a tutte le sue incarnazioni precedenti. E finalmente si vedono in scena due personaggi fondamentali di Fleming: Vesper Lynd (Eva Green) e René Mathis (Giancarlo Giannini), accompagnati da una canzone di Chris Cornell e da uno score di David Arnold, degno erede di John Barry. Alla regia è stato chiamato Martin Campbell, che già aveva rivitalizzato la serie 007 dirigendo GoldenEye.

Così arriviamo ai nostri tempi. Ora che Daniel Craig ha concluso il suo percorso come James Bond, con il finale di No Time To Die che richiama quello (mai usato precedentemente al cinema) del romanzo Si vive solo due volte, ci si aspetta quanto promesso dalla consueta frase nei titoli di coda: James Bond will return.
Ma come tornerà? Con un nuovo reboot o con un autentico sequel che vedrà in scena il nuovo interprete, chiunque sia? E riuscirà a mantenere lo spirito di Ian Fleming, in tempi come questi in cui persino i suoi romanzi scritti negli anni Cinquanta e Sessanta rischiano di essere ritoccati, nella presunzione di adattarli a un nuovo linguaggio politicamente corretto?
Se si dovesse ripartire sul serio da zero, in realtà varrebbe la pena di recuperare uno 007 filologico, che dovrebbe essere ambientato proprio negli anni Cinquanta e girato in bianco e nero, con lo stesso sapore hardboiled dei libri... Lo vedo improbabile. In ogni caso, James Bond non è certo un personaggio che si possa esaurire in un fugace e dimenticabile reel su un social network.

giovedì 29 febbraio 2024

Spy Game incontra Franco Luparia


Continua su Borderfiction Zone la serie di incontri con gli autori della collana in ebook di Delos Digital Spy Game – Storie della Guerra Fredda. Dopo Enzo Verrengia, Giovanni Ingrosso, Andrea Carlo Cappi, Valentina Di Rienzo ed Enrico Luceri. è il turno di Franco Luparia, tra i primi a essere chiamato da Stefano Di Marino a far parte della collana e ora presente con la sua nuova serie de "Il gentiluomo". Del resto, stiamo parlando di una figura molto attiva nel campo della spy-story italiana: con il suo alias Jason Hunter, Franco Luparia pubblica per Edizioni della Goccia la serie Wildguy e per Segretissimo Mondadori la serie Agente Roachford, inaugurata dal romanzo Caccia all'incubo, vincitore del Premio Alan D. Altieri 2020.


SG: Parlaci innanzitutto della tua nuova serie, cominciata con «Un gentiluomo alla deriva», con protagonisti Sir Rowan Greville e il suo maggiordono Irving Murdoch.

Sir Rowan Greville, il gentiluomo che è il fulcro della saga, è un giovane che rifugge il pesante retaggio familiare e le etichette tipiche dell’alta società inglese, ancora ben radicate sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, epoca in cui la vicenda è ambientata. È uno scavezzacollo giramondo che attira guai ovunque vada; l’esatto opposto del suo maggiordomo Irving Murdoch, uomo riflessivo, prudente e pacato, obbligato da un antico patto a servire e proteggere i membri della dinastia Greville. Allo stesso tempo i due sono complementari: nel corso del primo episodio, Un gentiluomo alla deriva, si scopre come entrambi abbiano spesso calcato in perfetta sintonia campi di fuoco intrisi di sangue, violenza e pericolo.
Insomma, sono uomini d’azione pronti a tutto e Sir Greville può ringraziare l’addestramento ricevuto dal mentore/servitore per essere diventato tale. Dopo avere accompagnato sull’orlo del baratro economico le attività familiari, Rowan decide di mettere le mani su buona parte del denaro rimasto per fuggire altrove sotto una nuova identità, coinvolgendo il fido Irving, legato a lui da secolare giuramento. Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco e gli imprevisti che si succedono costringono i nostri eroi a impiegare le proprie abilità in maniera completamente differente, inventandosi spie per conto del proprio governo.
Questo è l’inizio, il resto scopritelo leggendo la prima stagione della “saga del Gentiluomo”. Per completezza di informazione le fonti di ispirazione sono essenzialmente due: Bruce Wayne e Alfred, anche se va detto che l’alter ego di Batman sa come badare all’immenso patrimonio consegnatogli dai genitori. Nelle più recenti evoluzioni in realtà ne ha perso una grossa fetta ma per responsabilità, manco a dirlo, di Joker e non sua. Inoltre mi rifaccio anche a SAS Malko Linge di Gerard De Villiers, che esercita il nobile mestiere al fine di permettersi l’infinita opera di ristrutturazione del castello di famiglia.



SG: Questa non è la tua prima partecipazione a Spy Game: nella collana dedicata allo spionaggio nella Guerra Fredda hai già pubblicato Operazione Saba e i due episodi dedicati alla Rondine, Una rondine rosso sangue e A volo di rondine.

Vero e… a proposito di fonti di ispirazione: avevo visto da poco Red Sea Diving, film con Chris Evans che ripercorreva la vera storia di un'operazione avviata dal Mossad in Sudan, organizzata con il fine di permettere ai Falasci etiopi di raggiungere la Terra Promessa, ovvero Israele. Tele etnia, di origine ebraica, fu a lungo oggetto in patria di crudeli persecuzioni in odore di pulizia etnica. La vicenda mi aveva coinvolto e appassionato al punto tale che, una volta ricevuto da Stefano Di Marino l’invito a collaborare con la collana, ho deciso di dire la mia tramite le gesta di un personaggio di pura fantasia che ho fatto agire accanto ad altri realmente esistiti.
Colton Bryce, protagonista di Operazione Saba, è il classico belloccio dal fisico scolpito, amante della scoppiettante vita notturna nella New York di fine anni Settanta, agente di una CIA che lo ha relegato in un angolo a causa di intemperanze passate. Il suo riscatto potrà realizzarsi solamente catturando una talpa russa, fuggita da Washington portando con sé un microfilm contenente segreti di vitale importanza per l’intelligence statunitense. E, guarda caso, la pista dell’infiltrato lo conduce in Sudan, tra i falasci in fuga. Attualmente le sue gesta costituiscono un one-shot a cui non ho mai pensato di dare seguito. Ma chi è che diceva “mai dire mai”?
Destino leggermente diverso per Fedora Kuznetzova, protagonista di Una rondine rosso sangue e A volo di rondine. "Rondini" erano definite le poveracce che il Cremlino reclutava, quasi sempre in maniera poco ortodossa e contro la loro volontà, per venire impiegate nella riuscita delle tristemente note “trappole al miele”, nel corso delle quali erano obbligate a ricorrere ai più umilianti espedienti, in primis utilizzando e mercificando il proprio corpo, al fine di adescare, sorvegliare e gettare i semi per la definitiva rovina di soggetti sospettati di condurre attività potenzialmente dannose per l’Unione Sovietica.
Ho inventato di sana pianta lo status di “Rondine rosso sangue”, evoluzione dell’incarico riservata a poche elette che dimostravano innate crudeltà e totale dedizione alla causa, oltre a competenze sessuali superiori alla media delle colleghe. A definitiva sublimazione il Cremlino riservava per tali soggetti il libero arbitrio necessario a intraprendere iniziative personali, se giudicate utili a portare a temine l’incarico; le concessioni comprendevano anche una aberrante "licenza di uccidere”.
Fedora è la massima espressione di tale corso: ai requisiti esposti aggiunge la peculiarità di trarre profondo piacere dai rapporti fisici intrattenuti con le sue vittime, e portare sempre a termine con successo le missioni assegnatele; del resto non trovo corretto o veritiero che, in ambito narrativo, debbano essere sempre i russi a perdere la partita. La bionda, che ovviamente è di un’avvenenza esplosiva, ha un ruolo determinante nel quarto romanzo del ciclo a firma Jason Hunter dedicato a Wildguy, intitolato Il giglio del Ragno Rosso, nel quale, in un lungo flashback ambientato negli anni Ottanta, si trova a confrontarsi con il padre del protagonista. Vorrei far tornare Fedora in Spy Game o, addirittura, proporre una sua versione invecchiata ma ancora insidiosa in un prossimo romanzo della serie Agente Roachford (scritto sempre con lo pseudonimo Jason Hunter).
Vorrei ancora aggiungere che con Delos ho collaborato anche alla collana Passport, su invito dell’amico Fabio Novel, e come in Irina e Sangue sul Caucaso si trovino parecchi spunti mutuati da action e spy story.


SG: In passato hai anche collaborato alla serie Dream Force, sempre di Delos Digital, che invece era dedicata alla formula della "spy story sexy".

Dream Force è stato un gioco gioioso, voluto e realizzato, come per la stessa Spy Game, da Stefano Di Marino. Sono convinto che si divertisse, non solo scrivendo in prima persona racconti spy-action tremendamente sporcaccioni ma anche arruolando altri autori per constatare fino a dove si spingessero nella descrizione delle numerose scene hot di cui doveva essere tassativamente dotato il manoscritto. Me lo vedo sorridere mentre immaginava l’eventuale imbarazzo che poteva tingere di rosso le guance dell’interpellato di turno.
Ammetto di essermi divertito parecchio nel realizzare il lavoro e nel leggere o ascoltare i commenti di chi li aveva letti, Stefano davanti a tutti. A giudicare dal numero di download e dalla longevità della collana reputo che il vecchio amico avesse visto lungo e che numerosi siano i cultori dell’Ifix Tcen Tcen e gli estimatori di Lisa Ann. Il mio lavoro più scaricato si intitola Duro come la pietra, il che la dice lunga sui contenuti… almeno credo.


SG: La spy story ha numerose declinazioni, ma tu sembri trovarti a tuo agio sia con quella "d’azione", sia con quella più classica. Qual è la tua visione personale del genere?

La spy story abbraccia entrambi i versanti. Mi trovo più a mio agio con trame lunghe, ambientate nel presente e che concedano maggior spazio all’azione. Negli anni tale concetto è cambiato, divenendo via via sempre più estremo, crudele, quasi apocalittico.Il racconto breve mi sta stretto, non per nulla le saghe pubblicate in Spy Game sono in più parti e trovo più impegnativo tentare di coinvolgere il lettore solo con la narrazione degli eventi e una massiccia dose di dialoghi. Ma, se la sfida mi reclama, allora faccio il possibile per trovare il giusto compromesso: la riconvocazione di Andrea Carlo Cappi è stata un onore, come lo è comparire in una collana a fianco di altri autori di cotanta bravura ed esperienza, per cui mi ci sono buttato a capofitto. Se ho centrato l’obiettivo, saranno i lettori a giudicarlo e i download a provarlo.


SG; Cosa ti ha fatto appassionare alla narrativa di spionaggio?

Per rispondere a questa domanda bisognerebbe iniziare da molto lontano. Tenterò di sintetizzare: la prima passione è stata l’avventura, di ambientazione contemporanea (per gli anni di una lontana gioventù), insieme al western, passando da Emilio Salgari, Joseph Conrad, Jules Verne e Alexandre Dumas. E, guarda caso, già almeno un paio di questi autori narravano di spie. Prima metà anni Ottanta: è scoppiato il grande amore per i romanzi di Eric van Lustbader; e poi Tom Clancy, John Le Carrè… Scusate, qui non ci stanno tutti ma la direzione presa per arrivare a Daniel Silva dovreste averla capita.
In seguito ho trascorso anni alla ricerca di emozioni che il classico giallo, o thriller, non è mai riuscito a darmi; difatti non ne faccio gran consumo, vi prego di non volermene. Un giorno, passando dall’edicola, decisi di riavvicinarmi a Segretissimo Mondadori, che da tempo non seguivo più. E qui la definitiva folgorazione, scaturita dalla lettura di nomi a me nuovi: Stephen Gunn, François Torrent, Alan D. Altieri, Secondo Signoroni, Jo Lancaster Reno, Rey Molina e così via. Tali letture, di autori che con il passare del tempo scoprivo essere italiani. hanno riportato in superficie la voglia di cimentarmi nella scrittura in prima persona, desiderio sopito almeno venticinque anni prima. Il resto è storia recente e ogni mia produzione deve tanto a ognuno di loro.


SG: Con la vittoria del Premio Alan D. Altieri per il romanzo inedito nel 2020 sei entrato a far parte della "Legione Straniera" di Segretissimo sotto lo pseudonimo di Jason Hunter, dando inizio alla serie Agente Roachford, di cui è uscito da poco il nuovo episodio, Il morso dello squalo. Raccontaci la tua esperienza nella storica collana di Mondadori.

Un sogno che non avrei mai pensato di vivere e che si è realizzato grazie alla giuria presieduta da Franco Forte, tra le cui attività ha grande rilevanza quella che lo vede alla guida delle testate da edicola di Mondadori. La mia stima e la gratitudine che provo nei suoi confronti sono infinite: mi ha indicato la direzione, mi ha ascoltato e sopportato con infinita pazienza, e ha presieduto la giuria che mi ha giudicato degno di vincere il Premio Altieri: un amico, un uomo di cultura, un mentore. Grazie! Senza nulla togliere agli altri che mi sono stati vicini, esortandomi a continuare nella direzione indicata e a migliorarmi di continuo, Stefano e Andrea in primis.
Ho ricordi indelebili della storica serata in cui ho ricevuto il premio al Mystfest di Cattolica addirittura dalle mani di Valerio Manfredi. Penso sia stata una delle serate più bollenti del millennio, almeno per me che tendo ad agitarmi e a sudare quando vengo premiato e coinvolto davanti a un pubblico stupendo quale quello che affollava il luogo in cui si teneva l’evento; a tale condizione si aggiungevano i trentanove gradi con il novanta per cento di umidità che alle ventidue ancora, ci avvolgevano. Non so come sono riuscito a spiccicare quattro parole senza svenire sul palco. Mi hanno applaudito, quindi missione compiuta. Stupendo, indimenticabile.
Ho conosciuto tutti i miei eroi che seguo e che diventavano in tale occasione anche colleghi. Ne mancavano almeno tre: Secondo Signoroni, che mi pare di capire non compaia spesso in pubblico, Andrea Carlo Cappi e Stefano Di Marino; ancora mi spiace. Vi assicuro di aver prontamente perdonato Andrea e Stefano: con loro, per mia fortuna, avevo già avuto occasione di trascorrere alcune belle serate a tema in Milano; il primo addirittura avevo avuto occasione di conoscerlo a Casale Monferrato, città in cui risiedo, in occasione di una tre giorni dedicata a Diabolik. Purtroppo non immaginavo che non avrei mai più avuto occasione di rivedere Stefano, non su questo piano astrale almeno, e ciò è ancora motivo di grande afflizione. E come non ricordarsi dell’affetto e della partecipazione del pubblico che han fatto sì che quella serata diventasse qualcosa di indimenticabile?
Oggi mi onoro di fare parte di una squadra che si è ampliata con nuovi ingressi, con i quali sono in contatto tramite chat singole o comuni, social e, più di rado, incontri dal vivo in occasione di eventi vari, primo tra tutti il Mystfest. Far parte della Legione è qualcosa che va al di là del semplice commento, bisogna farne parte per capirlo. Grazie a tale appartenenza ho stretto impagabili rapporti di amicizia con lettrici e lettori di ogni dove. Insomma, un’esperienza superlativa sotto tutti i punti di vista!


SG: Come molti autori di spionaggio, stai lavorando in un universo in cui i tuoi diversi cicli sono collegati tra loro: nelle storie del gentiluomo, oltre ad alludere alla Rondine, ci sono agganci alle serie Wildguy e Agente Roachford.

R - Se Cappi ha il suo Kverse, diamine, io ho idealizzato un personale Hunterverse che è parallelo a quello in cui si muovono Nightshade, il Professionista o lo Sniper. Almeno credo, come già detto: “mai dire mai"... Comunque sì, la fonte di ispirazione di questa visione è l’immenso Alan D. Altieri, che mantiene connessioni di continuità tra protagonisti e comprimari dei suoi lavori che vanno dal Medio Evo allo spazio profondo di un futuro non troppo lontano, passando per i tiri infallibili del colonnello Kane. Non mi spingo a raggio talmente ampio ma ho allargato man mano la mia personale cosmologia.
Partendo da Wildguy, il mio primo agente del caos, ho contagiato Roachford catapultandolo, dal secondo romanzo in avanti, in un ambiente di lavoro che è il medesimo in cui si muove Wildguy: stessa agenzia spionistica, stesso direttore, parecchi comprimari comuni, pur con cattivi e zone di azione differenti. I punti in comune sono molti, anche se non credo scriverò mai un crossover esteso. Comunque, prestate attenzione: i due si sono trovati costretti a collaborare nelle vicende narrate ne Gli angeli di Kabul racconto pubblicato nel luglio 2022 da Segretissimo Mondadori all’interno dell’antologico Big Wolf. Ho in mente anche un breve incontro di tipo colloquiale nel prossimo romanzo di Wildguy. Roba breve, seduti al tavolino di un bar affacciato sul mare, per intendersi.
Anche i miei Spy Game rientrano in tale universo: la Rondine, comparsa nel romanzo citato in precedenza, nei racconti che la vedono esordire ha uno stretto rapporto con il padre di un personaggio cardine della saga di Wildguy. Infine, senza spoilerare troppo, anticipo che nei prossimi episodi del Gentiluomo farà la sua comparsa un personaggio di peso nell’economia della serie appena citata. Puro divertimento, credetemi, che mi auguro tutti i lettori riescano a cogliere e di cui godere appieno.


SG: Per concludere, ti chiediamo un tuo ricordo personale dell’ideatore della collana Spy Game, oltre che più importante autore italiano di narrativa di genere e, in particolare, di spionaggio: Stefano Di Marino.

Solo al pensiero di formulare una risposta un nodo mi stringe la gola. Stefano è stato il primo autore di Segretissimo che ho avvicinato e incontrato, con cui mi sono dilungato a discorrere di temi cari a entrambi, a proposito dei quali era ben più formato del sottoscritto. Una persona di grande cultura, gentile, mite, spiritosa, un sognatore che ha preferito inseguire appunto quei sogni giovanili che tanto facevano parte del suo bagaglio, piuttosto che una strada all’apparenza già scritta, sfidando tutto e tutti, diventando uno dei più grandi e prolifici narratori del panorama di genere italiano.
Devo essere entrato in modo definitivo nelle sue corde quando, da mie battute e confidenze, ha capito di trovarsi di fronte a un ragazzaccio mai cresciuto che, senza mai accasarsi, ha frequentato per lungo tempo quei localacci e quelle donne di dubbia moralità che tanto piacevano a Chance Renard. E che forse, per lo stesso motivo, tanto ha apprezzato il Professionista. La sua assenza pesa e lo farà sempre, non solo nel mio cuore ma anche in quello di coloro che lo hanno conosciuto di persona o per mezzo dei suoi scritti. Ciao Stefano.
Giunti a questo punto voglio ringraziare il mio etereo intervistatore, BorderfictionZone che pubblicherà queste quattro chiacchiere, le altre case editrici che, oltre a Delos Digital, danno spazio ai miei prodotti (Mondadori ed Edizioni della Goccia) gli amici lettori tutti ai quali mando un abbraccio: senza di Voi non esisterebbero Jason Hunter o un Franco Luparia agente di commercio che scrive di agenti segreti.

Da Franco Luparia nella collana Spy Game:

venerdì 23 febbraio 2024

Iperwriters - Il paese più bello

Photo: Roger Hoyles on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 41 - Il paese più bello

Venerdì ore 13. Ancora verso la fine degli anni Ottanta. Viviamo nel paese più bello e più negletto dell'entroterra, a cui tutti preferiscono luoghi privi di laghi, luoghi asciutti scelti dai ricchi per le villeggiature. Inventati dai ricchi solo perché ci hanno costruito le loro case, creando una bellezza artificiale. Ma nel nostro paese la bellezza è naturale. I dintorni sono talmente belli da ospitare un concorso di pittura. Tutti sanno che i dintorni sono meravigliosi, con le incantevoli frazioni appese a mille metri di altezza, i laghetti, il prato chiamato "delle fate", i sentieri panoramici, i boschi di castagni. Ma quando si tratta di abitarci è come se non lo fossero.
Siamo arrivati lì da disoccupati, confusi e speranzosi. Ma stanno per tornare i fumetti, e anche le pubblicazioni.
Il nostro tenore di vita è basso, bassissimo, e tale resterà, anche nei periodi alti in cui ci limiteremo a risparmiare per l'avvenire. Una modesta casa ex contadina, impianti essenziali, mobili misto Ikea/rigattiere. Qualcuno arriccerà il naso con disprezzo, entrandoci. Niente auto, niente lussi, niente fashion, niente trend, niente status. Niente cellulare, nei primi anni in cui circolavano con umani attaccati a parlare nel vuoto. Ma il computer sì, siamo stati fra i primi ad averlo. La connessione a internet sì, siamo stati i primi ad averla, almeno a livello locale.
Ci vestiamo di stracci. Non da straccioni ottocenteschi, con i buchi negli indumenti e nelle scarpe, ma anticipando quel glamour per tutti che è comune oggi e omologa tutto il popolo che non è vip.
Nessuno vivrebbe come noi. Una condizione che chiunque della classe media (o appena un po' arricchito) non accetterebbe mai. Non si vive senza il parquet (che tutti vogliono, anche se lo chiamano palché), senza il divano di pelle bianca e senza andare al ristorante da cinque stelle sulle guide.
Noi, in quei ristoranti, ci andiamo solo per i compleanni e gli anniversari. E qualche volta, se siamo euforici, brindiamo: Al nostro ultimo anno da pezzenti.
Va bene così. La nostra idea di una buona vita è così. Non un lavoro da schiavi e una botta da sbronzi di due settimane di vacanza all'anno. Ma vivere in un luogo verde e acquatico (non turistico), svolgendo un lavoro che si ama, sempre al lavoro e sempre in vacanza.
Sta per iniziare uno dei periodi più felici della nostra vita.

lunedì 19 febbraio 2024

L'ossessione del Duce per Maiorca


Recensione di Andrea Carlo Cappi

Meriterebbe maggiore risonanza nel nostro paese questo libro denso di rivelazioni clamorose sul passato recente della Spagna e dell'Italia. Dopo quindici anni di ricerche, l'autore ha portato alla luce segreti finora sepolti in archivi di mezzo mondo, che oltre a cambiare certe prospettive della Guerra Civile spagnola danno risposta a misteri irrisolti da più di ottant'anni. Tutto ruota intorno a un fatto pressoché dimenticato: la conquista "imperiale" dell'isola di Maiorca da parte dell'Italia fascista nel 1936, costata la vita a migliaia di persone.
Pubblicato nel 2022 in Spagna (da Arzalia) e nel 2023 in Italia (da LoGisma, nella collana Le Frecce) il saggio Un'occasione d'oro per Mussolini ha un sottotitolo -  Quando la Repubblica Spagnola pianificò di vendere parte del suo territorio al fascismo - più che sufficiente a far saltare sulla sedia chiunque abbia minime nozioni di storia del XX secolo. Ma il contenuto non si limita a questo e solleva ulteriori questioni su cui varrebbe la pena di indagare.
Oltre al ricco apparato fotografico che certifica i documenti scoperti nella ricerca, nel volume è riportato, in appendice, il memoriale inedito di un tenente italiano di stanza a Maiorca tra il 1937 e il 1938. Aggiungo poi che il taglio dato dall'autore è molto piacevolmente narrativo, accompagnato da elementi autobiografici sui momenti chiave della sua indagine.

Un minimo di contestualizzazione è necessario. In Italia nel 1922 il futuro "Duce" Benito Mussolini viene nominato primo ministro da re Vittorio Emanuele III, diventando un dittatore osannato dalle folle; viene imitato in Spagna l'anno dopo da Miguel Primo de Rivera, che tuttavia cade nel 1930, trascinando con sé re Alfonso XIII nel 1931. Nasce quindi la Seconda Repubblica Spagnola (la prima risaliva al 1873-74). Nel 1936, in un periodo di gravi tensioni sociali tra moti e repressioni, vince le elezioni il Fronte Popolare di sinistra. Il 17 luglio però si solleva in risposta un'insurrezione militare sostenuta dall'estrema destra e dal clero, in cui il generale nazionalista Francisco Franco ha il ruolo principale. Scoppia la Guerra Civile tra i territori rimasti fedeli della Repubblica e quelli già occupati dai franchisti. Com'è noto, si tratta in realtà della prova generale della II guerra mondiale.
Franco ottiene infatti l'appoggio militare dell'Italia fascista e della Germania nazista, responsabili di pesanti bombardamenti sulla Spagna; di questi il più tristemente celebre è su Guernica (sì, quello raffigurato nell'omonimo quadro di Picasso), con 200-300 vittime tra i civili. Nel contempo, la Repubblica Spagnola ottiene un sostegno a doppio taglio da parte dell'Unione Sovietica: l'obiettivo reale di Stalin è infatti quello di liberarsi di tutte le componenti repubblicane non allineate alla sua politica, creando un devastante scontro interno e appropriandosi intanto con successo dell'oro della Banca di Spagna. Alla fine, il 1° aprile 1939, la Repubblica soccombe e Franco sale al potere a Madrid. Malgrado gli aiuti che ha ricevuto dai nazifascisti, il nuovo dittatore non partecipa al loro fianco alla II guerra mondiale, grazie anche a una saggia e costosa mossa dello spionaggio britannico, che corrompe il suo entourage perché la Spagna rimanga fuori dal conflitto. Franco non condivide quindi il destino di Mussolini e Hitler e rimane al suo posto fino alla morte il 20 novembre 1975. Dopodiché la Spagna tornerà alla monarchia, ma soprattutto alla democrazia con la Costituzione del 1978.
Sull'intervento italiano a sostegno di Franco durante la Guerra di Spagna c'è un aspetto su cui si tace, perché ci facciamo una pessima figura. Si ricorda, certo, che l'Aviazione Legionaria fascista usava l'isola di Maiorca come base di partenza per bombardare i territori repubblicani nella penisola. E chi visita Palma di Maiorca può notare che il viale chiamato La Rambla è conosciuto anche come "Via Roma". Ma ci si dimentica che dall'agosto 1936 all'aprile 1939 Maiorca fu di fatto sotto il controllo diretto dell'Italia fascista, per i primi due anni rappresentata dal console generale Arconovaldo Bonacorsi (o Bonaccorsi) alias "conte Aldo Rossi". In quel periodo si parla di arresti di massa, di prigioni disumane come quella di Can Mir e di circa tremila esecuzioni sommarie di civili. Viene però da chiedersi per quale motivo Mussolini, dopo essersi impadronito di un'isola sulla quale ha investito parecchio in termini di denaro e di piombo, alla vittoria di Franco gliela riconsegni senza discutere. Questo è un interrogativo che mi sono posto spesso anch'io e al quale ho trovato finalmente risposta in questo libro.

Il primo capitolo di Un'occasione d'oro per Mussolini potrebbe sembrare l'inizio di un romanzo di Ken Follett, ma è l'accurata ricostruzione su base documentale dell'incontro tra Ventimiglia e Montecarlo nel marzo 1937 di José Chapiro, emissario dell'ambasciata spagnola a Parigi, con una spia fascista che potrebbe essere tale Francesco "Franco" Giuntini. La parola d'ordine è "Schulmeister", che in tedesco significa "maestro (di scuola)", ma è anche il cognome di Karl Ludwig Schulmeister, doppiogiochista austriaco al servizio della Francia di Napoleone Bonaparte.
L'obiettivo della missione di Chapiro è proporre a Mussolini, a nome della Repubblica, la cessione di alcuni territori spagnoli, per la precisione i possedimenti in Africa, le Canarie e soprattutto le Baleari, buona parte delle quali sono di fatto già sotto il dominio italiano. Il governo del socialista Largo Caballero auspica che, una volta soddisfatte le mire coloniali del Duce, questi sospenderà il sostegno a Franco e convincerà anche Hitler a fare altrettanto; seguiranno peraltro trattative meno eclatanti anche con il Terzo Reich. Il fatto è che la Repubblica è impossibilitata a sostenere da sola una sollevazione militare interna e al tempo stesso un'illecita guerra non dichiarata da parte dell'Italia e della Germania. Con questo sacrificio, la Repubblica spera di poter placare i propri nemici esterni, affrontare soltanto i franchisti e salvaguardare almeno il territorio peninsulare. Ma non si raggiungono accordi e, quando Caballero è sostituito alla guida del governo da Juan Negrin, l'Operazione Schulmeister viene chiusa... e insabbiata, nascondendo che la Spagna democratica, in preda a un'evidente disperazione, si è offerta di alienare pezzi del proprio territorio a una potenza straniera.
Tuttavia, per quanto in pubblico dichiari mendacemente di non avere obiettivi coloniali sulla Spagna, Mussolini considera ormai Maiorca come un'isola italiana, tanto da dare ordine che come tale venga presentata nei testi di geografia per le scuole: com'è noto bisogna sempre indottrinare i bambini, non per niente alcuni piccoli maiorchini sono portati in Italia perché siano inquadrati nei Balilla. Il motivo dell'ossessione del Duce: sa già che una nuova guerra avrà come teatro il Mediterraneo e che Maiorca, felicemente collaudata come base del'Aeronautica e della Marina italiane, sarebbe perfetta per lanciare attacchi aerei su Gibilterra e impedire il passaggio di navi francesi e britanniche. Allora perché non forzare la mano a Franco e tenersela anche dopo l'aprile 1939?

Il libro spiega i motivi storici per cui il Duce è costretto a un piano di riserva, un'altra delle rivelazioni esplosive dell'autore. Ci sono di mezzo proprietari terrieri maiorchini che vendono in segreto e illegalmente uno smisurato appezzamento sulla costa di nord-est dell'isola allo Stato Italiano, sotto la copertura di una fittizia società spagnola in cui figurano come membri del consiglio di amministrazione. Insieme a loro appaiono due agenti segreti italiani: il capo dello spionaggio del Duce a Maiorca e un'altra spia fascista, a suo tempo infiltrata nel movimento democratico Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli (attivo in Spagna dalla parte della Repubblica e assassinato nel 1937 in Francia insieme al fratello Nello).
Il piano di Mussolini prevede la costruzione di una nuova base, la creazione di una vera e propria colonia segreta fascista e il trasferimento a Maiorca di centomila italiani che riprendano gradualmente il controllo dell'isola. Varie circostanze fanno sì che il programma si fermi alle fasi iniziali, ma in questa stessa operazione sono state acquisite anche altre proprietà non ancora identificate e di cui si ignora l'impiego negli anni successivi. Personalmente non escludo che qualcuno ne abbia fatto uso in seguito, anche durante la Strategia della Tensione.
La lettura di questo libro porta inoltre a riflettere su quali conseguenze disastrose abbia una politica internazionale di appeasement, ossia per amor di quieto vivere consentire a un dittatore di occupare indisturbato territori altrui. La storia è maestra di vita, ma sotto questo aspetto noi italiani siamo ripetenti impenitenti.

venerdì 9 febbraio 2024

Iperwriters - Una scandalosa distopia

Photo: Christian Lue on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 40 - Una scandalosa distopia

Venerdì, ore 13. Nel precedente editoriale ci domandavamo come sarebbe il mondo se le letterature scatenassero nella maggioranza delle persone la stessa passione di una partita di calcio.
Proviamo a immaginare.
Ci sarebbero solo scrittrici e scrittori di quelli su cui oggi si fanno i biopic, film o serie tv. Dei giganti, dei veri mostri. E sarebbero la versione contemporanea degli dei dell'Egitto, degli dei della Grecia, degli dei delle saghe nordiche, di tutti gli dei e gli eroi di tutte le mitologie della storia umana. Verrebbero coperti d'oro. Pagati cifre quasi irreali, e nessuno direbbe una parola contro: nel loro caso non si oserebbe proporre di “ridistribuire la ricchezza”. Godrebbero di un'ammirazione del tutto scevra da invidia, perché non si invidia chi non è di questa terra. Perché una prestazione letteraria da campione è una cazzo di prestazione letteraria da campione, da far dire di che pianeta sei?, e a nessuno che non fosse davvero un campione salterebbe in testa di esserlo. Susciterebbero un timore reverenziale, qualcuno bacerebbe loro la mano, la mano scrivente di Dio. Si pronuncerebbero i loro nomi (perfino quelli ridicoli) con una solennità liturgica e insultarli, coprirli di immondizia e bava e sputi sarebbe come profanare un'ostia consacrata. Alla morte di uno di loro celebrazioni e lutto nazionale, come quando muore un re (unico caso in cui si ripristina la monarchia) e al funerale parteciperebbero in migliaia, milioni, fisicamente o mediaticamente.
E vediamo ora come vivrebbero i lavoratori del calcio in un mondo al contrario.
Grandi o piccoli, campioni o dilettanti, non avrebbero meriti, perché per loro non ci sarebbe merito, ma solo un'avvilente e ringhiosa competizione al di sotto dei pochi a cui il sistema (male e per poco) consente di dare un calcio. Non sarebbero pagati e dovrebbero svolgere un'altra attività per guadagnare. Inesistenti nei form da compilare nelle banche, compatiti dai parenti, costretti a giocare secondo schemi ripetitivi. Chiusi nelle bolle social autoreferenziali a parlare dei loro goal, assist, fuorigioco e rigori. E quando uno di loro morisse, quattro secche righe in cronaca sputate fra i denti, o niente.
Sì, sì, avete ragione, come storia fantasy è sgradevole, odiosa.
Neppure leggibile.

mercoledì 7 febbraio 2024

Alfredo Castelli, lo zio del fumetto

Alfredo Castelli (Foto: A. C. Cappi)

Ricordo di Andrea Carlo Cappi

Il destino non è stato clemente con Alfredo Castelli: malattia e terapie, benché affrontate fin quanto possibile con l'armatura dell'ironia, lo hanno segnato visibilmente negli ultimi tre anni, senza però impedirgli di concedersi ai fan per eventi e mostre organizzate in onore del "più grande fumettista italiano", per usare le parole del suo amico storico e collega Mario Gomboli. Proprio insieme a Gomboli, Alfredo esordì, ancora liceale, nel 1965 con le Sorelle Giussani presso la redazione di Diabolik, testata a cui sarebbe tornato varie volte nella sua carriera.
I fumetti erano l'attività principale, ma per la sua preparazione e i suoi interessi potrebbe essere accostato a figure imponenti della cultura italiana come Umberto Eco e Oreste Del Buono. Sue sintetiche bio-bibliografie - per quanto riduttive rispetto al lavoro sconfinato come creatore di personaggi celebri, sceneggiatore, disegnatore, saggista - stanno comparendo ovunque, insieme ai post sui social network con cui gli viene reso omaggio dal suo vasto pubblico nel giorno della scomparsa.
Quindi preferisco raccogliere giusto qualche manciata di ricordi dal nostro repertorio. E i primi risalgono all'infanzia: come tutti i lettori del Corriere dei Ragazzi dei primi anni '70, conoscevo Alfredo Castelli non solo come sceneggiatore delle storie de Gli Aristocratici e L'Ombra, o delle pagine umoristiche di Otto Kruntz, Zio Boris o L'Omino Bufo (quest'ultimo disegnato da lui stesso) ma anche come... personaggio nella rubrica Tilt!, in cui spesso gli autori ironizzavano sulla loro vita in redazione.

Lo incontrai di persona nell'autunno del 1994, quando era già il BVZA (Buon Vecchio Zio Alfred) in quanto creatore e sceneggiatore principale del BVZM (Buon Vecchio Zio Marty) ovvero Martin Mystère, pubblicato da Sergio Bonelli Editore. L'amico Andrea Pasini, uno degli autori della testata, gli aveva fatto leggere i miei racconti della serie Cacciatore di libri sul Giallo Mondadori. Le prime cose che Alfredo mi disse furono che da uno di questi aveva preso spunto per una storia breve di Martin Mystère e che gli sarebbe piaciuto che scrivessi un racconto con il mio personaggio al fianco del suo.
Oltre a precedere la collaborazione come co-sceneggiatore insieme ad Andrea Pasini per quattro albi della serie, quel racconto fu la mia iniziazione come autore di narrativa tie-in: il mio lavoro su Martin Mystère negli anni successivi sarebbe stato il biglietto da visita per scrivere anche i romanzi di DiabolikNel 2017 Alfredo avrebbe convinto Sergio Bonelli Editore a farmi continuare i romanzi di Martin Mystère come appuntamento annuale e dal 2021 a pubblicare miei serial sul detective dell'impossibile in appendice agli albi a fumetti.
Per scrivere di Martin, spesso mi baso non solo sul personaggio, ma anche su Alfredo, rubandogli alcuni tratti comportamentali. Per le storie mi ha sempre lasciato assoluta libertà di manovra, sicuro del mio rispetto nei confronti della sua creatura. Data la crescente difficoltà negli ultimi tempi a comunicare mentre era in terapia, ho fatto tesoro delle indicazioni che mi ha dato quando siamo riusciti a sentirci al telefono.

Purtroppo, tra il lockdown e la sua salute, ormai da anni abbiamo dovuto rinunciare agli incontri a pranzo in privato, occasioni in cui apprezzare la sua ironia e parlare davvero di tutto, dalla letteratura alla geopolitica, oltre a discutere delle storie a venire di Martin Mystère o di progetti collaterali, come possibili tie-in su altri suoi personaggi per rinverdirne i fasti al di fuori dei fumetti.
Tra le cose che mi mancheranno, oltre ai suoi giochi di prestigio a tavola durante i raduni di appassionati, rientra senz'altro la sua capacità di realizzare con precisione meticolosa perfetti "falsi" giocando tra realtà e fantasia, come le copertine di un inesistente pulp magazine degli anni '30 di cui si parlava in un mio serial e persino la "fotografia" del negozio immaginario a New York in cui Martin ne trovava le copie.
Ma, soprattutto, mi mancherà la sua mente prodigiosa a portata di telefono (quando non perdeva le chiamate, beninteso). Se nel mondo reale esistesse ciò che si vede in Martin Mystère, poter trapiantare almeno i suoi neuroni e le sue esperienze in un corpo robotico dalla durata illimitata sarebbe stato un grande dono per l'umanità.

venerdì 26 gennaio 2024

Iperwriters - Finale di coppa

Photo: William William on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 39 - Finale di coppa

Venerdì, ore 13. Flash back. Lasciatemi ancora un po' in quegli anni, dall'85 in poi, quando ogni estate andavo al Mystfest di Cattolica.
Devo dire che di me, dei miei coevi scrittori, dei libri, dei film, non fregava niente a nessuno. il Mystfest era ben organizzato, piacevole, molto stimolante, ma non aveva pubblico. Andavo in spiaggia, e dalle chiacchiere occasionali con altri bagnanti emergeva che il popolo turistico-vacanziero ne ignorava perfino l'esistenza. Eravamo una bolla di “addetti ai lavori” che si scambiavano informazioni, si intervistavano e si davano rituali celebrativi. Nessun interesse da parte di persone che non fossero giornalisti, scrittori o aspiranti scrittori o lavoratori del settore, neppure se era possibile contattare personalità come Ed Mc Bain o James Ellroy o Claude Chabrol o Lucio Fulci.
Ho visto gente esterna alla nostra bolla affluire e riempire una piazza solo quando è arrivato un attore, e non per la sua attività di attore, ma per una pubblicità diventata un celebre tormentone.
Due popoli diversi, che non avevano nulla da spartire e coesistevano come l'acqua e l'olio, senza fondersi.
Gli scrittori si riunivano ai tavolini all'aperto di un bar accanto al cinema dove avvenivano le proiezioni dei film. Andrea G. Pinketts, lo sceriffo di Cattolica, diceva: "C'è solo questo, vale la pena solo per questo, per la nostra conversazione.”
Se la comunità non partecipa a un evento culturale è inutile organizzare, spostarsi, proporre. I libri e i film possiamo vederli anche restando a casa. E si può converrsare più comodamente senza fare ore di treno.
Ricordo una sera. La nostra postazione al bar era stava invasa da indigeni e turisti, perché uno schermo trasmetteva la finale di coppa di un evento calcistico. Forse la coppa del mondo, ma non ne sono del tutto sicura.
Eravamo accaldati e assordati, e non potevano neppure più parlare.
A un certo punto dico: "Come sarebbe il mondo se facessero quel tifo per le opere letterarie?"
E Patrizia Pesaresi commenta: "Albertine contro Karamazov".
Intendeva dire, ovviamente, finale di coppa fra Proust e Dostoevskij.
Ma questo vorrebbe dire che i due popoli diversi sarebbero un solo popolo. E già, come sarebbe il mondo se una partita Proust-Dostoeskij fosse la passione e religione di un intero popolo?

Iperwriters - Tiro al piccione su Superman

Photo: Johan Taljaard on Unsplash I perwriters - Editoriale di Claudia  Salvatori Letteratura italiacana - 59 - Tiro al piccione su Superman...