mercoledì 7 febbraio 2024

Alfredo Castelli, lo zio del fumetto

Alfredo Castelli (Foto: A. C. Cappi)

Ricordo di Andrea Carlo Cappi

Il destino non è stato clemente con Alfredo Castelli: malattia e terapie, benché affrontate fin quanto possibile con l'armatura dell'ironia, lo hanno segnato visibilmente negli ultimi tre anni, senza però impedirgli di concedersi ai fan per eventi e mostre organizzate in onore del "più grande fumettista italiano", per usare le parole del suo amico storico e collega Mario Gomboli. Proprio insieme a Gomboli, Alfredo esordì, ancora liceale, nel 1965 con le Sorelle Giussani presso la redazione di Diabolik, testata a cui sarebbe tornato varie volte nella sua carriera.
I fumetti erano l'attività principale, ma per la sua preparazione e i suoi interessi potrebbe essere accostato a figure imponenti della cultura italiana come Umberto Eco e Oreste Del Buono. Sue sintetiche bio-bibliografie - per quanto riduttive rispetto al lavoro sconfinato come creatore di personaggi celebri, sceneggiatore, disegnatore, saggista - stanno comparendo ovunque, insieme ai post sui social network con cui gli viene reso omaggio dal suo vasto pubblico nel giorno della scomparsa.
Quindi preferisco raccogliere giusto qualche manciata di ricordi dal nostro repertorio. E i primi risalgono all'infanzia: come tutti i lettori del Corriere dei Ragazzi dei primi anni '70, conoscevo Alfredo Castelli non solo come sceneggiatore delle storie de Gli Aristocratici e L'Ombra, o delle pagine umoristiche di Otto Kruntz, Zio Boris o L'Omino Bufo (quest'ultimo disegnato da lui stesso) ma anche come... personaggio nella rubrica Tilt!, in cui spesso gli autori ironizzavano sulla loro vita in redazione.

Lo incontrai di persona nell'autunno del 1994, quando era già il BVZA (Buon Vecchio Zio Alfred) in quanto creatore e sceneggiatore principale del BVZM (Buon Vecchio Zio Marty) ovvero Martin Mystère, pubblicato da Sergio Bonelli Editore. L'amico Andrea Pasini, uno degli autori della testata, gli aveva fatto leggere i miei racconti della serie Cacciatore di libri sul Giallo Mondadori. Le prime cose che Alfredo mi disse furono che da uno di questi aveva preso spunto per una storia breve di Martin Mystère e che gli sarebbe piaciuto che scrivessi un racconto con il mio personaggio al fianco del suo.
Oltre a precedere la collaborazione come co-sceneggiatore insieme ad Andrea Pasini per quattro albi della serie, quel racconto fu la mia iniziazione come autore di narrativa tie-in: il mio lavoro su Martin Mystère negli anni successivi sarebbe stato il biglietto da visita per scrivere anche i romanzi di DiabolikNel 2017 Alfredo avrebbe convinto Sergio Bonelli Editore a farmi continuare i romanzi di Martin Mystère come appuntamento annuale e dal 2021 a pubblicare miei serial sul detective dell'impossibile in appendice agli albi a fumetti.
Per scrivere di Martin, spesso mi baso non solo sul personaggio, ma anche su Alfredo, rubandogli alcuni tratti comportamentali. Per le storie mi ha sempre lasciato assoluta libertà di manovra, sicuro del mio rispetto nei confronti della sua creatura. Data la crescente difficoltà negli ultimi tempi a comunicare mentre era in terapia, ho fatto tesoro delle indicazioni che mi ha dato quando siamo riusciti a sentirci al telefono.

Purtroppo, tra il lockdown e la sua salute, ormai da anni abbiamo dovuto rinunciare agli incontri a pranzo in privato, occasioni in cui apprezzare la sua ironia e parlare davvero di tutto, dalla letteratura alla geopolitica, oltre a discutere delle storie a venire di Martin Mystère o di progetti collaterali, come possibili tie-in su altri suoi personaggi per rinverdirne i fasti al di fuori dei fumetti.
Tra le cose che mi mancheranno, oltre ai suoi giochi di prestigio a tavola durante i raduni di appassionati, rientra senz'altro la sua capacità di realizzare con precisione meticolosa perfetti "falsi" giocando tra realtà e fantasia, come le copertine di un inesistente pulp magazine degli anni '30 di cui si parlava in un mio serial e persino la "fotografia" del negozio immaginario a New York in cui Martin ne trovava le copie.
Ma, soprattutto, mi mancherà la sua mente prodigiosa a portata di telefono (quando non perdeva le chiamate, beninteso). Se nel mondo reale esistesse ciò che si vede in Martin Mystère, poter trapiantare almeno i suoi neuroni e le sue esperienze in un corpo robotico dalla durata illimitata sarebbe stato un grande dono per l'umanità.

venerdì 26 gennaio 2024

Iperwriters - Finale di coppa

Photo: William William on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 39 - Finale di coppa

Venerdì, ore 13. Flash back. Lasciatemi ancora un po' in quegli anni, dall'85 in poi, quando ogni estate andavo al Mystfest di Cattolica.
Devo dire che di me, dei miei coevi scrittori, dei libri, dei film, non fregava niente a nessuno. il Mystfest era ben organizzato, piacevole, molto stimolante, ma non aveva pubblico. Andavo in spiaggia, e dalle chiacchiere occasionali con altri bagnanti emergeva che il popolo turistico-vacanziero ne ignorava perfino l'esistenza. Eravamo una bolla di “addetti ai lavori” che si scambiavano informazioni, si intervistavano e si davano rituali celebrativi. Nessun interesse da parte di persone che non fossero giornalisti, scrittori o aspiranti scrittori o lavoratori del settore, neppure se era possibile contattare personalità come Ed Mc Bain o James Ellroy o Claude Chabrol o Lucio Fulci.
Ho visto gente esterna alla nostra bolla affluire e riempire una piazza solo quando è arrivato un attore, e non per la sua attività di attore, ma per una pubblicità diventata un celebre tormentone.
Due popoli diversi, che non avevano nulla da spartire e coesistevano come l'acqua e l'olio, senza fondersi.
Gli scrittori si riunivano ai tavolini all'aperto di un bar accanto al cinema dove avvenivano le proiezioni dei film. Andrea G. Pinketts, lo sceriffo di Cattolica, diceva: "C'è solo questo, vale la pena solo per questo, per la nostra conversazione.”
Se la comunità non partecipa a un evento culturale è inutile organizzare, spostarsi, proporre. I libri e i film possiamo vederli anche restando a casa. E si può converrsare più comodamente senza fare ore di treno.
Ricordo una sera. La nostra postazione al bar era stava invasa da indigeni e turisti, perché uno schermo trasmetteva la finale di coppa di un evento calcistico. Forse la coppa del mondo, ma non ne sono del tutto sicura.
Eravamo accaldati e assordati, e non potevano neppure più parlare.
A un certo punto dico: "Come sarebbe il mondo se facessero quel tifo per le opere letterarie?"
E Patrizia Pesaresi commenta: "Albertine contro Karamazov".
Intendeva dire, ovviamente, finale di coppa fra Proust e Dostoevskij.
Ma questo vorrebbe dire che i due popoli diversi sarebbero un solo popolo. E già, come sarebbe il mondo se una partita Proust-Dostoeskij fosse la passione e religione di un intero popolo?

venerdì 12 gennaio 2024

Iperwriters - I miei coevi scrittori

Photo: Bobby Kalman on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 38 - I miei coevi scrittori

Venerdì, ore 13. I miei coevi scrittori sulla scia dell'evoluzione dei generi, come me. Compagni di strada. Ecco una sintesi dell'introduzione a Sotto mentite spoglie di Patrizia Pesaresi, che ho avuto il piacere e l'onore di pubblicare per Iperwriters.
Ho conosciuto Patrizia Pesaresi nel 1985, al Mystfest di Cattolica. Io avevo vinto il premio Tedeschi per il romanzo inedito e lei il Premio Gran Giallo Città di Cattolica per il racconto. Un esordio stupefacente: Uno per tutti, pubblicato nella collana Giallo Mondadori e, in seguito, giustamente, in altre antologie e riviste, e tradotto in Francia. Hieronymus Bosch nel suo trittico Il carro del fieno denuncia con il suo pennello, seminando indizi cifrati, un crimine commesso nel suo tempo e rimasto impunito. Siamo già molto più avanti, e a un livello internazionale. Il thriller storico con rivisitazioni di filosofi e artisti nel ruolo di indagatori arriverà solo nel decennio successivo. Da quel primo incontro, infatti, le nostre carriere di scrittrici si
inabissano, per tornare in superficie solo verso la metà degli anni Novanta. Ricordo di aver assistito a una presentazione alla Libreria del Giallo di Milano del suo romanzo Dopo la prima morte, edito nel 2005 da Dario Flaccovio. Un libro affascinante e ancora una volta sorprendente, per svariati motivi: perché dimostra di aver assimilato la lezione della grande Patricia Highsmith e fa apparire in controluce uno dei miei personaggi storici preferiti, Lawrence d'Arabia. Qualche tempo dopo, leggendo libri per un'agenzia letteraria, mi capita fra le mani Sotto mentite spoglie. Ecco la mia valutazione di allora: "La storia parte come un giallo storico, poi vi si intrecciano fili di fantapolitica, esoterismo, feuilleton, erotismo e spy-story. Un lavoro sapientemente costruito nella struttura, interessante nella miscelazione di generi, originale nel far entrare in gioco un personaggione come Aleister Crowley."
Patrizia Pesaresi attingeva alla grande tradizione britannica. Forse in un paese di lingua inglese avrebbe avuto più successo e “visibilità”. Il nostro comune amico Gianfranco Orsi, direttore del Giallo Mondadori ai nostri tempi, ha scritto di lei su Thrillermagazine: “una scrittrice tra le più innovative e originali del noir di oggi”. Troppo originale e innovativa, direi, in un paese in cui è proibito essere originali e innovativi.

giovedì 28 dicembre 2023

Iperwriters - Gli (apparenti) opposti si attraggono

Photo: Borderpolar Photographer on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 37 - Gli (apparenti) opposti si attraggono

Venerdì, ore 13. Siamo all'inizio degli anni '90, e quasi al termine di sette anni di macerazione intellettuale e professionale.
L'ascensore sociale, o quello che io avevo preso per tale e in realtà era solo un contenitore senza pulsanti, ha un tetto chiuso sopra la mia testa. Ci sono solo un paio di giallisti italiani in attività, e per i nuovi autori (al momento) lo spazio è limitato all'ambito del Premio Tedeschi, che si vince una volta sola. Quel po' di gloria locale (interviste, un ingaggio per un giallo a puntate, inviti, i miei parenti quasi fieri di me), svanita. La grande editoria “alta” è per me una piovra aliena.
Il mio unico tentativo di letteratura “seria”, La donna senza testa, è fallito. E del resto mi hanno detto che "altro è la letteratura" rispetto a quello che faccio.
Mi muovo ambiguamente in un contesto ambiguo. Ho una formazione umanistica, con passioni prevalenti per la filosofia e la storia, ma scrivo intrattenimento. La mia posizione sociale riflette questo stato: ho troppo talento per lasciarmi scivolare nell'ignoranza generalizzata, ma sono priva del tipo di talento richiesto.
La soluzione?
Bene, dopo molti tormenti decido di ignorare il tormento. Il problema è creato da contingenze storiche inesistenti in passato. Basta scrivere seguendo se stessi e anche fare letteratura. La lezione la conoscevano già gli gnostici duemila anni fa: fare di due mani una sola mano.
Basta ignorare il Novecento, il secolo dell'assassinio dell'arte e del divorzio fra letterature alte e basse, e prendere a modello gli scrittori ottocenteschi, il cui valore non era dato dalla pratica di un genere o da variazioni stilistiche, ma da un risultato estetico intrinseco nell'opera, nel cuore dell'opera, fatto di potenza immaginativa, ricerca della perfezione e intensità al calor bianco. Arte e intrattenimento.
Quel risultato estetico, quello scintillio inventivo, negli anni successivi, lo avrei trovato in alcuni dei miei coevi scrittori italiani di genere, e non nei capolavori moderni (o venduti come tali) che effettivamente si vendevano, diventando paradossalmente il vero intrattenimento del nostro tempo.
I miei coevi che, invece di fare i novecenteschi vendendo minuzie sussiegose, facevano gli ottocenteschi.

mercoledì 20 dicembre 2023

Hyde in Time: il circo della finzione


Recensione di Andrea Carlo Cappi

Per mancanza di tempo, spesso recensisco opere che conosco per averne preso parte alla pubblicazione come editor o traduttore. Invece, nel caso di Hyde in Time (Edikit) a cura di Mario Gazzole e Roberta Guardascione, vi ho partecipato solo come... "spettatore attivo" di una creazione senza precedenti, in cui realtà e fantasia hanno cominciato a confondersi fin dal principio, molto prima della pubblicazione: da quando due anni prima dell'uscita del libro è pervenuto a  Borderfiction il misterioso comunicato stampa del Circus of Wonders. Poi sono stato al gioco quando è stata annunciata la scoperta alla base di questo libro. E ora finalmente, rubando tempo alle scadenze, sono riuscito anche a leggerlo per intero (dal momento che è composto da ben tre romanzi, abilmente impaginati in modo da occupare solo 250 pagine) e a... guardarlo con la dovuta attenzione, dato che l'apparato di immagini è imponente.
In questo libro, nulla è come sembra, esattamente come l'abominevole signor Hyde non assomiglia per niente al buon dottor Jekyll, pur condividendone lo stesso corpo nel romanzo di R. L. Stevenson; e come - almeno fino a un'indagine condotta anni fa dalla scrittrice Patricia Cornwell - nessuno ha attribuito con certezza al pittore Walter Sickert la responsabilità dei delitti del mai identificato "Jack the Ripper" del 1888; così come a quest'ultimo non si possono collegare, quasi ottant'anni dopo, i consimili delitti commessi sempre a Londra nel 1964-65 dal serial killer parimenti mai scoperto, che i giornali soprannominarono "Jack the Stripper".
Ma tutto è possibile nel circo della finzione allestito dallo scrittore Mario Gazzola e dall'artista visiva Roberta Guardascione, già creatori del sofisticato universo di Buio in scena, che qui utilizzano non solo l'espediente narrativo del "manoscritto ritrovato", ma anche quello inedito dei "dipinti riscoperti", generando un'opera complessa e un volume interamente illustrato a colori per il quale - anche se può sembrare insolito da parte mia - bisogna fare i complimenti all'editore.

Orbene: ripercorriamo i diversi strati tra realtà e finzione di questo libro. La storia della letteratura ricorda che Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson - capolavoro del romanzo gotico, paradigma della fantascienza e punto di riferimento simbolico del dualismo tra bene e male nell'essere umano - ebbe due stesure, la prima delle quali bruciò nel caminetto di casa Stevenson.
Ma se un'altra copia di quella prima versione si fosse salvata e si rivelasse del tutto diversa da quella che il mondo ha conosciuto nel 1886, con Hyde che alla fine sopravvive alla morte di Jekyll? E se questa copia superstite della versione inedita avesse ispirato non solo una serie di illustrazioni di una misconosciuta artista di nome Jane Mason, ma addirittura un seguito, Il lupo di Whitechapel, stilato dal figliastro e collaboratore di Stevenson, Samuel Lloyd Osbourne? E se questo sequel altrettanto introvabile, che rivela una sorprendente conoscenza dei retroscena dei delitti di Jack lo Squartatore, li collegasse non solo alla figura del pittore Sickert, ma anche al personaggio non del tutto immaginario di Hyde? E se Sickert avesse dipinto tele mai mostrate in pubblico, che documentano la mente omicida del serial killer di Whitechapel del 1888?
Sarebbe un'ottima ragione perché uno scrittore e appassionato cultore della narrativa di genere - di nome Mario Gazzola - si mettesse sulle tracce dei manoscritti perduti e, dopo averli ritrovati, si rivolgesse nientemeno che a Patricia Cornwell per approfondire le proprie indagini. Al punto da arrivare a disseppellire non solo i dipinti perduti di Sickert, ma addirittura un terzo manoscritto, Hyde in Time, opera del figlio segreto di Osbourne e corredato degli schizzi di un misterioso artista chiamato "Eddie", a un cui recente vernissage londinese sarebbe stato commesso un delitto orribile. Hyde è dunque trasmigrato non solo da una persona all'altra, ma anche nel tempo, fino ai giorni nostri?

Nel percorso tra fantasia psichedelica, thriller psicologico e giallo psicanalitico, parole e immagini ci portano a continui spostamenti di identità, in un mondo che, sempre per citare Gazzola, comincia a mostrare al tempo stesso crepe nella realtà e bagliori inquietanti nel buio sulla scena.
C'è pure, come già in S.O.S. - Soniche Oblique Strategie, una storia-contenitore che assorbe e integra i tre romanzi, e livelli di "realtà" che si contaminano anche in modo spiazzante. I passaggi più suggestivi sono forse il tentativo di Sickert di portare la sua modella Mary Reilly (sopravvissuta al suo ruolo di camerierina in casa Jekyll) a condividere l'istinto del "lupo di Whitechapel" e le sedute del dottor Sutherland con Alice Jones, potenziale vittima dell'ingombrante artista "Eddie".
Ma soprattutto c'è la mia ammirazione per un'opera che, nell'era delle fake news e della post-verità, conduce a un nuovo grado evolutivo il concetto di "postmoderno", portando la fiction anche all'esterno del libro. E per quelli della mia generazione, ha ancora senso la frase "where no man has gone before".

martedì 19 dicembre 2023

Spy Game incontra Enrico Luceri - 2

E. Luceri al Festival Torre Crawford 2022 (foto: A. Martinelli)


Su Borderfiction Zone proseguiamo l'intervista a Enrico Luceri,  il maestro del giallo da poco entrato nella collana in ebook di Delos Digital Spy Game – Storie della Guerra Fredda con il suo romanzo in due parti Caccia alla strega, (la prima parte il 12 dicembre 2023, la seconda parte il 16 gennaio 2024). Ricordiamo intanto alcuni dei suoi titoli più recenti, come Il giorno muore lentamente e Il tempo corre piano, pubblicati ne Il Giallo Mondadori e ora disponibili in ebook, e La stanza del silenzio, edito da Fratelli Frilli. Nel novembre 2023 è uscito inoltre, sempre da Delos, Il primo cerchio della paura, scritto a quattro mani con Emanuela Ionta.

Enrico Luceri, il silenzio delle ombre

SG: Cosa ti ha portato a scrivere gialli?

Si può dire che io abbia scritto sempre. Però non me ne accorgevo. Sono stato un osservatore attento del prossimo fino dalla mia infanzia, e durante la mia adolescenza e giovinezza. Mi sentivo attratto, interessato, dal comportamento degli adulti e dei miei coetanei. Ma non di tutti. Solo di coloro che volevano apparire forti, sicuri di sé, spavaldi, affascinanti.
Il mio carattere invece è stato sempre pieno di dubbi, scettico, diffidente, laconico e riservato. Credo che mi sentissi incuriosito da costoro proprio perché così diversi da me e in fondo, in maniera inconsapevole, registravo ogni loro comportamento perché mi sembrava estraneo, ostile, mi colpiva e feriva. Il comportamento di personalità sbrigative, efficienti, determinate che mi facevano sentire inadeguato, trascurato, ignorato, a volte perfino disprezzato. Che mi facevano soffrire.
Però sono riuscito sempre a nascondere la mia sofferenza, per evitare di dare soddisfazione al prossimo. Ad abbassare le tapparelle, a nascondere l’interno della casa. E, tuttavia, ricordavo. A distanza di decenni, ho capito che i miei occhi sono stati una macchina fotografica, le mie orecchie un registratore, la mia memoria un archivio che ha custodito situazioni dolorose.
Desiderio nascosto: spaventarli! Far crollare le loro certezze, i loro solidi e banali modi di vivere, la spavalderia di facciata. Intuivo in loro delle crepe, sottili e quasi invisibili, e ho trovato l’espediente per allargarle attraverso le mie storie, dove una minaccia ambigua è sufficiente a far vacillare e poi a frantumare personalità forti in apparenza e deboli nella sostanza.
Ancora oggi, quando incontro qualcuno che dimostra verso di me un comportamento sbrigativo, disinteressato, indifferente, provo le stesse sensazioni della mia infanzia e so che presto la mia immaginazione sarà ispirata da una sofferenza antica e nascerà un nuovo romanzo.



SG: Come amico di Stefano Di Marino, l'ideatore della collana Spy Game che ci ha lasciati nel 2021, vuoi darci un tuo ricordo?

Quando Stefano Di Marino scrisse un articolo in occasione della prematura scomparsa di Andrea G. Pinketts, qualche giorno prima di Natale del 2018, lo intitolò non a caso “Senza retorica”. Io vorrei a mia volta ricordare Stefano proprio così, senza quella retorica che lui stesso rifiutava.
Custodisco quindi con discrezione e riservatezza dentro la mia memoria quell’impasto di rimpianto, malinconia, sofferenza e rimorso, che sempre ci tormenta quando un amico si toglie la vita in circostanze tanto drammatiche e dolorose che dimostrano una sofferenza insopportabile.
Invece voglio ricordare Stefano attraverso il suo universo narrativo, quell’avventura allo stato pure che attraversa tanti generi letterari, dalla spy-story al giallo, dal thriller all’horror, al western (e potrei continuare) che lui ha raccontato per anni, con competenza, entusiasmo, impegno e fertilità d’immaginazione. C’era e c’è tuttora un motivo concreto per la costante affezione e fedeltà dei lettori alle sue storie: perché Stefano era uno di quegli autori veri che sapeva scavare un varco fra la realtà quotidiana che viviamo e quella virtuale che leggiamo. E sapeva benissimo come quest’ultima sia assai più gratificante della prima, perché in essa avviene solo quello che decidiamo noi. Nella vita, spesso, troppo spesso a volte, avviene quello che altri decidono per noi. Questo, credo, è il rapporto più bello che si stabilisce fra l’autore e i suoi lettori: lui frantuma la parete fra realtà e fantasia, i lettori attraversano quel varco e vivono ciò che sognano.
Parlo solo di Stefano come narratore, evitando di rammentare i nostri incontri, le chiacchierate, le telefonate, le partecipazioni alle manifestazioni, i messaggi, perché voglio portare la mia testimonianza senza invadenza e con quella discrezione e riservatezza che ci univa.
Solo tre ricordi desidero condividere: il suo incoraggiamento pubblico quando un mio romanzo vinse nel 2008 il Premio Tedeschi; la sua presenza, inaspettata e gradita, quando fui invitato per la prima volta a Milano, a Bordefiction, da Andrea Carlo Cappi nel 2012, e furono loro due a presentare un mio romanzo; la nostra ultima telefonata, una settimana prima di quel brutto giorno di agosto, e il messaggio che mi scrisse subito dopo, e ho conservato.
Una certezza mi consola, solo in parte naturalmente: Stefano è riuscito a rendere lavoro una passione, a vivere come desiderava, certamente confrontandosi con le difficoltà e gli ostacoli del mondo dell’editoria che potevano affliggere anche un autore popolare come lui. Pensare a lui, a Stefano Di Marino e al suo alter ego Stephen Gunn, mi fa tornare in mente una frase che pronunciò il regista John Huston durante la sua orazione funebre per Humphrey Bogart: “La sua esistenza non fu lunga se misurata in anni, ma fu ricca e profonda.”
Credo che il modo migliore per dimostrare quanto ci manca Stefano sia continuare la sua opera e scavare sempre nuovi varchi dove la realtà possa tramutarsi in fantasia.



SG: Ora che sei entrato ufficialmente nel Grande Gioco, pensi di scrivere ancora spy story?

Certamente, sono già la lavoro su un nuovo romanzo per la collana Spy Game di Delos. Vienna, autunno 1948: durante le riprese del film Il terzo uomo, lo scrittore inglese Graham Greene si trova coinvolto in un vero caso di spionaggio. Greene riceve la visita di un sedicente giornalista inglese di Life, Nigel (in realtà è un agente del MI6) che vuole intervistarlo riguardo il film. Greene lo accoglie nella sua stanza all’Hotel Sacher. Qui scopre la reale identità del suo ospite, che gli racconta una storia singolare.
Quando Rudolf Hess volò in Gran Bretagna nel 1941, l’esoterista Alastair Crowley offrì i suoi servigi al governo per aiutarlo a interrogare il gerarca nazista, ma poi non se ne fece nulla. Una storia singolare che accadde davvero. Ho immaginato così un angolo buio e chi o cosa nasconda. Nel novembre del 1948, Churchill e Crowley ebbero un colloquio indiretto su un argomento in apparenza balzano ma che potrebbe rivelarsi sorprendentemente utile. E lo statista inglese ha inoltrato una informazione riservata al MI6, che a sua volta ha inviato Nigel a Vienna.
Da qui inizia una vicenda dove servizi russi e inglesi, borghesi austriaci decaduti, scienziati tedeschi a conoscenza di segreti militari, femmes fatales e avventurieri d’ogni genere celano obiettivi diversi da quelli apparenti e sono pronti ad allearsi e tradirsi con la medesima disinvoltura.

SG: Non vediamo l'ora di leggerlo. Un'ultima curiosità: è vero che sei stato soprannominato Fu Manchu?

Sì, è stata un’intuizione dei miei amici Giulio Leoni e Massimo Pietroselli. Ambedue sostengono di immaginarmi nelle vesti del crudele e astuto genio del male creato da Sax Rohmer. Nelle vesti, nel vero senso del termine! Cioè mi vedono vestito con una tunica, le scarpette con la fibbia, l’indispensabile codino e gli occhi ridotti a due fessure, che stringo fra le dita di una mano il manico di tazza colma di una raffinata miscela di tè mentre con l’altra mano aziono un complicato e doloroso strumento di tortura che tormenta una mia vittima. Una vittima punita per una colpa gravissima. Per esempio, aver criticato un mio romanzo, o averne ignorato un altro.
Fu Manchu/Enrico apprezza con uguale piacere l’aroma del tè e i lamenti del malcapitato. Qui finisce la sarcastica intuizione dei miei amici, che mi conoscono bene e sanno che sopporto in silenzio le critiche ma fatico a dimenticarle. Ovviamente, spero sia inutile precisarlo, io non commetterei azioni criminose di questo genere. In momenti simili, semmai, sorseggerei solo un vino della mia collezione!




lunedì 18 dicembre 2023

Spy Game incontra Enrico Luceri - 1

Enrico Luceri a Giallo Latino 2011

Su Borderfiction Zone nuovo incontro con uno degli autori della collana in ebook di Delos Digital Spy Game – Storie della Guerra Fredda. Dopo Enzo Verrengia, Giovanni Ingrosso, Andrea Carlo Cappi e Valentina Di Rienzo, questa volta parliamo con Enrico Luceri, maestro riconosciuto del mystery italiano, già vincitore del Premio Alberto Tedeschi de Il Giallo Mondadori nel 2008, che si è lasciato tentare dalla narrativa di spionaggio. Appare infatti nella collana il suo romanzo in due parti Caccia alla strega, (la prima parte il 12 dicembre 2023, la seconda parte il 16 gennaio 2024).

Enrico Luceri, dietro i veli della Storia

SG: Parlaci del tuo romanzo Caccia alla strega, che ha inizio - potremmo dire - nel momento stesso in cui comincia la Guerra Fredda e che rievoca eventi precedenti che la lasciavano presagire.

L’idea originale della storia è la singolare situazione in cui non è possibile accertare la morte di qualcuno. E allora si possono fare molte ipotesi e congetture su cosa sia accaduto davvero. Queste sono state anche le circostanze dell’omicidio di Rosa Luxemburg, per una serie di coincidenze avvenute realmente, che sarebbero state difficili da immaginare anche per il più scaltro autore di spy story.
Una donna trascinata via da un albergo berlinese dove è stata sequestrata, nei giorni dell’insurrezione comunista (o meglio, spartachista) del gennaio 1919, colpita alla testa con il calcio di un fucile e caricata su un’auto che parte nella notte buia, rischiarata solo dalle fiamme degli incendi scoppiati durante gli scontri. Un uomo in divisa militare che balza sul predellino dell’auto, estrae la pistola dalla fondina, accosta la canna alla nuca della donna e spara. La macchina si arresta su un ponte, uomini afferrano il corpo della vittima e lo gettano in un canale artificiale, dopo averlo appesantito con delle pietre.
Fine della storia. O forse inizio.
La donna è la rivoluzionaria Rosa Luxemburg, gli uomini sono i miliziani dei Freikorps, soldati dell’esercito imperiale tedesco smobilitati dopo la sconfitta nella Grande Guerra e assoldati dal governo repubblicano per reprimere i moti insurrezionali a Berlino e in Baviera. Il cadavere della Luxemburg fu ritrovato, ma l’autopsia lasciò un dubbio sulla sua identificazione. Il corpo fu seppellito nel cimitero di Friedrichsfelde, a Berlino, ma nel 1936 i nazisti lo distrussero e dispersero i resti. Qui finiscono i fatti storici e iniziano quella della mia fantasia.
Ce n’era abbastanza per costruire una realtà parallela dove la donna gettata nel canale riusciva a sopravvivere e a sfuggire in seguito alla caccia di agenti segreti spinti da intenzioni diverse, ma un solo fine: catturarla e manipolarla per il loro interesse.


SG Come sei passato dal giallo allo spionaggio?

In maniera molto semplice e naturale: lasciando la mia fantasia libera di correre in un genere narrativo affascinante, che leggo con curiosità e passione dalla mia adolescenza. Ho avuto occasione di scrivere già un romanzo breve di genere spionistico per la serie Gli Archivi Segreti della Sezione M, creata e realizzata insieme ai miei soci., colleghi e soprattutto amici Giulio Leoni e Massimo Pietroselli: un intrigo ambientato a Roma alla fine del 1934, che affonda le sue radici in un episodio di criminalità avvenuto a Londra oltre vent’anni prima e potrebbe perfino mettere in pericolo il potere di Stalin.
Anche in quella circostanza, sono stato ispirato dalla consapevolezza che nella storia esistono degli angoli oscuri che potrebbero nascondere situazioni imprevedibili e sorprendenti. A me piace illuminare quelle zone buie e dare forma a ciò che vedo con gli occhi della fantasia. Un racconto realistico, dunque, e non reale, o perlomeno tale che non sia possibile dimostrarne la solidità e nello stesso tempo smentirne la verosimiglianza. Un gioco di specchi che riflettono immagini uguali e contrarie, un’illusione manipolata da un prestigiatore, figure che nella penombra sono solo fantasmi sfuggenti sulle pareti. Matrioske che custodiscono versioni sempre più piccole e diverse fra loro di un’unica bambola, che potrebbero essere la stessa donna a età diverse della vita.

SG: Com'è nato e si è sviluppato il tuo interesse verso la narrativa spionaggio?

Ho scoperto Segretissimo nel 1974, qualche anno dopo aver letto il mio primo Giallo Mondadori. E grazie ai romanzi di Gérard de Villiers, ho viaggiato con Malko Linge in tutto il mondo. Quello dell’immaginazione, della fantasia sfrenata, tuttavia così realistico da sembrare più vero della realtà.
Era iniziato il viaggio che mi ha fatto conoscere gli angoli bui delle città attraverso i personaggi dei romanzi e gli attori dei film.
Lo sguardo dolente di Alec Leamas/Richard Burton che si aggira per Berlino, divisa in due dal Muro, ne La spia che venne dal freddo di Le Carré.
Gli occhi glaciali e ironici dello Sciacallo/Edward Fox che esplorano Parigi alla ricerca del luogo più adatto per commettere l’omicidio politico del secolo, perlomeno secondo Frederick Forsyth ne Il giorno dello Sciacallo.
Mosca negli anni della Perestroika vista da “Barley” Blair/Sean Connery ne La Casa Russia, ancora di Le Carré.
Vienna nel primo dopoguerra, occupata dagli alleati (ormai ben poco), dove si aggira l’istrionico Harry Lime/Orson Welles ne Il terzo uomo di Graham Greene.
Da Istanbul e lungo i Balcani insieme a Charles Latimer/Peter Lorre per scoprire quale volto si nasconda dietro La maschera di Dimitrios di Eric Ambler.
E naturalmente l’inevitabile James Bond/Sean Connery nella straordinaria saga letteraria di Ian Fleming. Un autore a sua volta protagonista di una vita simile a un romanzo di spionaggio, dove ancora una volta realtà e fantasia si confondono ed è difficile distinguerle. Come in ogni vera spy-story.
In anni più recenti, la lettura dei romanzi di Andrea Carlo Cappi e di Stefano Di Marino è riuscita a farmi apprezzare una narrativa di genere moderna, dove l’azione, il ritmo, le emozioni profonde e la suspense diventano esse stesse personaggi di intrighi di rara efficacia.

SG: Qual è la tua visione della spy-story come autore?

Quella di raccontare ciò che Winston Churchill aveva definito “un indovinello, avvolto in un mistero all'interno di un enigma” (“a riddle wrapped in a mystery inside an enigma”), nel suo caso a proposito della politica estera dell’Unione Sovietica. Ovvero aprire le matrioske di cui parlavo prima e arrivare fino all’ultima, ammesso che sia tale o ne nasconda altre ancora.
Quando ho deciso quale angolo buio della storia reale cercare di illuminare, costruisco un meccanismo di precisione, che mi piace paragonare a un orologio a carica. La trama, i personaggi, le ambientazioni, gli obbiettivi, i colpi di scena sono ruote dentate, cilindri, bilanciere, lancette e quadrante, e ognuno di loro deve funzionare singolarmente e insieme agli altri, contribuendo al funzionamento dell’orologio. Il ritmo dei miei romanzi deve adattarsi alla vicenda che racconto, evitando accelerazioni e frenate e aumentando d’intensità con una certa regolarità.
La mia spy-story avviene in strade oscure, panorami nebbiosi, palazzi silenziosi, piazze metafisiche, dove ogni ombra svela un profilo che potrebbe ingannare la vista e rivelarsi ben diverso da ciò che appare. Una partita fra uomini e donne, o meglio organizzazioni e regimi o stati, dove la posta in palio potrebbe essere solo un’illusione, o ciò che Alfred Hitchcock definisce MacGuffin, cioè l’espediente narrativo che scatena l’azione e alla fine è semplicemente inesistente. Una danza dei sette veli, caduto l’ultimo dei quali ci si accorge che la danzatrice non c’è.
Storie di chi dovrebbe essere altrove, piuttosto che in un certo luogo, e invece è proprio lì, grazie a un angolo oscuro che può nascondere qualsiasi sorpresa.
E se all’improvviso accendiamo un riflettore e lo puntiamo proprio su quell’angolo immerso nelle tenebre possiamo immaginare anche di vedere Ian Fleming e Bertolt Brecht seduti su due sedie scalcinate dietro un tavolino traballante che bevono gin, fumano e cercano di ricostruire l’enigma di una donna anziana e malandata, inseguita dagli agenti segreti di nazioni ostili fra loro, ma tutte ben decise a catturarla. Impresa inutile, perché è impossibile arrestare uno spettro che s’aggira per l’Europa.

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