lunedì 14 dicembre 2020

John Le Carré, una spia allo scoperto


Tributo di Andrea Carlo Cappi

Il dodici dicembre 2020, all'età di ottantanove anni, ci ha lasciati John Le Carré, l'autore britannico che ha coniugato la spy-story al giallo psicologico e, nonostante questo, è stato riconosciuto come un grande scrittore. Ricordo quando al Noir in Festival di Courmayeur nel dicembre del 2001 gli fu assegnato il Premio Chandler, riconoscimento consegnato a suo tempo anche a un altro maestro del Novecento, Graham Greene. Entrambi avevano lavorato nei servizi segreti del loro paese e scritto di questioni spionistiche, che per Le Carré - che operò dal 1948 al 1964 presso l'MI6 (lo spionaggio all'estero), l'Army Intelligence Corps (spionaggio e controspionaggio militare) e infine l'MI5 (controspionaggio) - furono  l'argomento principale della sua produzione letteraria.
Per molti anni, quando nelle interviste gli veniva domandato se la sua competenza nel settore fosse dovuta a esperienza diretta, Le Carré rispondeva che non occorre appartenere a un determinato ambiente per scrivere un romanzo su quell'ambiente e, in particolare, non occorre essere una spia per scrivere una spy-story.
Forse. Eppure Ian Fleming, per le avventure di James Bond, si era ispirato alle proprie esperienze presso lo spionaggio della Royal Navy durante la Seconda guerra mondiale. Così come William Somerset Maugham si era basato sul proprio lavoro nell'MI6 per creare il suo alter ego nei racconti di Ashenden l'inglese; e Graham Greene, per scrivere Il nostro agente all'Avana, era partito da un'imbarazzante episodio in cui i servizi segreti britannici erano incorsi in Nordafrica in tempo di guerra e di cui lo scrittore era venuto a conoscenza lavorando a sua volta per il servizio di spionaggio militare. A sua volta, Le Carré ne avrebbe ricavato lo spunto per il suo Il sarto di Panama.

In effetti, le storie che raccontò già nei suoi primi romanzi denotano una competenza specifica superiore a quella della maggior pare dei narratori di spionaggio e, soprattutto, un realismo e un pessimismo che possono derivare solo da una frequentazione diretta. Marcus "Misha" Wolff, capo dello STASI, il servizio segreto della Germania Est, ricordò in un'intervista di avere letto con interesse il romanzo La spia che venne dal freddo, e di avere osservato che quell'autore britannico fosse un individuo da tenere d'occhio: sapeva troppe cose per essere uno scrittore qualunque.
Ma per molto tempo John Le Carré non ha potuto rivelare che David Cornwell (la sua vera identità) era stato in servizio presso l'MI5, distaccato in Germania, dove peraltro ebbe qualche problema per colpa di Harold Philby, la "talpa" sovietica infiltrata ad alto livello nei servizi segreti britannici. Probabilmente, anche dopo le dimissioni, lo scrittore era vincolato dall'Official Secrets Act, che impone a ogni dipendente dei servizi segreti di Sua Maestà di mantenere un perenne, dignitoso silenzio sul proprio operato. E fu per il successo dei suoi romanzi che Cornwell fu costretto a lasciare il servizio attivo: non doveva essere gradito ai vertici dell'MI5 che uno dei suoi agenti - benché sotto pseudonimo - attirasse l'attenzione dei giornali scrivendo libri estremamente efficaci e convincenti sulle pratiche e sulle tecniche dello spionaggio.

L'agente 007 di Fleming, modellato su fatti e personaggi che risalivano ormai agli anni Quaranta e rielaborato in chiave puramente esotico-avventurosa, non costituiva un imbarazzo per i servizi segreti. Al contrario, un autore come John Le Carré, con le sue storie di spie crepuscolari, falsi traditori e viscidi doppiogiochisti, in cui spesso i cosiddetti nemici risultavano eticamente superiori agli alleati del Regno Unito (per non parlare della discutibile moralità dei vertici dello spionaggio di Londra) non doveva ammettere di lavorare su una conoscenza di prima mano.
Trascorsero molti anni prima che lo scrittore potesse presentarsi di fronte alle telecamere della televisione britannica e confessare senza restrizioni il proprio passato di agente segreto. E non solo quello. Per esempio ammettere pubblicamente la realtà dei fatti che costituiscono il background del romanzo La spia perfetta, compreso l'imbarazzante passato del padre, figura di avventuriero-truffatore, con quattro anni di permanenza nella galere di Sua Maestà.
Una volta liberatosi dell'alone di segretezza cui era stato costretto per decenni, Le Carré divenne, finalmente, un uomo veramente libero. Libero di esprimersi senza restrizioni, libero di ammettere il proprio passato, ma anche di assumere atteggiamenti che in altri tempi sarebbero potute apparire sospetti nel suo stesso paese. Il Le Carré della Guerra Fredda era critico tanto verso il blocco sovietico quanto verso i metodi dei servizi segreti britannici, e i suoi romanzi non scivolavano mai nell'anticomunismo di maniera, tantomeno nella letteratura di propaganda.
Ma, svanita "la minaccia comunista", lo scrittore sembrava sentirsi finalmente autorizzato ad abbracciare posizioni ideologiche che un tempo avrebbero potuto essere fraintese. Ecco quindi un Le Carré che denunciava il neoimperialismo delle multinazionali, la politica militarista degli Stati Uniti e gli errori che avevano portato all'ascesa di Bin Laden. "L'Undici Settembre" spiegò, "rappresenta un fallimento dei servizi segreti. Lo spionaggio si è mosso in un'astrazione dalla realtà effettiva. Le direttive dei servizi segreti sono stabilite da funzionari che non hanno un contatto diretto con la situazione."

Le Carré non amava le interviste, ma nel corso del Noir in Festival si presentò a un incontro con il pubblico in cui, oltre a farmi fare un autografo su una copia di un suo libro, ebbi modo di porgli qualche domanda.
A proposito della minaccia costituita da al-Qaeda, Le Carré si ricollegò a un suo romanzo di alcuni anni prima. "Ci sono grandi difficoltà nel penetrare organizzazioni terroristiche, un problema che ho cercato di evidenziare in un romanzo chiamato La tamburina. Il primo problema è comprendere la natura e la struttura dell'organizzazione. Il secondo problema, particolarmente sensibile in una democrazia, è quello di inserire una fonte umana all'interno di un'organizzazione terroristica. Occorre essere preparati a consentire a quell'uomo o a quella donna di commettere atti criminali in modo da interpretare la parte in modo convincente, per guadagnarsi credibilità e rispetto, e per ascendere ai livelli superiori. E questo non è normalmente accettabile in termini politici. Sono sicuro che la risposta del signor Blair a una simile prospettiva sarebbe: 'Dovranno prima passare sul mio cadavere.'"
Era in corso la cosiddetta Guerra al Terrore, sull'onda emotiva del più devastante attacco agli Stati Uniti dai tempi di Pearl Harbour. "Quello che è avvenuto in America dopo l'Undici Settembre è stato un sollevamento di emozioni e patriottismo che possiamo dire abbia raggiunto la massa critica. Penso che sia un errore scegliere la guerra come soluzione. A Beirut, nell'81 e nell'82, sono stato testimone dell'attacco a Libano da parte di Israele e ho avuto la fortuna di conoscere Arafat. Mi sono reso conto che c'erano persone ragionevoli da una parte e dall'altra. Eppure c'era un senso reciproco di vendetta."

Parlò naturalmente dei suoi romanzi e del personaggio ricorrente nelle sue storie della Guerra Fredda. "George Smiley, a mio parere, porta su di sé il peso della colpa dell'Occidente e un profondo dolore per ciò che deve fare. Quando, alla fine della sua saga, riesce a portare il suo omologo rivale, Karla, fino al Muro di Berlino, Smiley ammette: 'Ho fatto appello all'umanità del mio avversario. l'ho sedotto giocando con le sue emozioni.'"
Nell'incontro pubblico Le Carré affrontò anche la reazione ai suoi libri da parte degli addetti ai lavori. "Per quanto riguarda le reazioni dei servizi segreti inglesi e americani, non era il contenuto dei miei libri a preoccuparli: si trattava completamente di fiction. A dare fastidio era l'attenzione che avevo attirato su di me quando ancora ero in servizio. Da qui l'invito a lasciare l'intelligence. A proposito dell'altra parte, non mi ha reso particolarmente felice la rivelazione che Markus Wolff fosse un mio appassionato lettore. Ma posso raccontare della serata che ho passato con Evgeny Primakov" (primo ministro russo durante la presidenza di Boris Eltsin) "che mi ha rivelato che il suo preferito tra i miei libri era Tutti gli uomini di Smiley. Ho pensato che avesse trovato particolarmente realistica e coinvolgente la mia descrizione di Karla, il capo del servizio segreto sovietico.
"Perché si identificava con Karla?" gli chiesi.
"No! Con Smiley!"

Si sa che la spy story è stata data per morta varie volte, ma lo scrittore ebbe modo di smentire l'assurda diceria. "Quando cadde il Muro di Berlino, la stampa inglese scrisse che, insieme alla Guerra Fredda, anche la narrativa di spionaggio, e in particolare John Le Carré, erano finiti. Ma le attività dei servizi di intelligence non sono affatto diminuite da allora. Si spende nello spionaggio tanto denaro quanto se ne spendeva nella Guerra Fredda, se non di più. E ci sono ancora molti argomenti da affrontare: i diritti umani, la tortura... Perciò la spy-story non è affatto morta e ha ancora molto da raccontare."
Gli argomenti non mancavano, anche se lo scenario era mutato. "All'indomani della scomparsa della 'minaccia comunista' mi sono domandato quale sarebbe stata l'essenza del conflitto a venire", disse in quell'occasione. "Ho preso in considerazione la rabbia crescente di quelle parti del mondo che non hanno ciò che noi abbiamo. Sono semplicemente disgustato dall'atteggiamento dell'Occidente nei confronti del resto del mondo. Il giardiniere tenace è un romanzo sul potere delle multinazionali, in particolare le multinazionali farmaceutiche, soprattutto quelle attive in Africa. Non mi sono basato esclusivamente su generiche accuse di sfruttamento del Terzo Mondo. Ho trascorso undici mesi a investigare sugli abusi effettivamente commessi. Il romanzo è ambientato in Africa, ma cose del genere avvengono anche in altri continenti."
Recentemente Le Carré ha preso posizione contro la Brexit e non ha risparmiato critiche al lavoro sporco svolto da Donald Trump per conto della "Grande Madre Russia", argomenti delicati che pochi nel mondo della narrativa spionistica hanno osato affrontare.

Le Carré, con i suoi libri, ha fornito grande ispirazione a cinema e televisione, a partire dal capolavoro con Richard Burton basato su La spia che venne dal freddo. "Credo che le migliori trasposizioni dei miei libri siano state quelle realizzate per la televisione con Alec Guinness", raccontò nel 2001. "Quanto ai film... Non posso immaginarne uno peggiore di quello che è stato tratto da La tamburina. Ho apprezzato l'interpretazione di Sean Connery ne La casa Russia, anche se il film cercava di essere fin troppo fedele al romanzo. Sono molto soddisfatto de Il sarto di Panama. Ho partecipato alla realizzazione del film, quindi non posso definirmi imparziale. Ma ritengo che Pierce Brosnan abbia la capacità di interpretare James Bond e al tempo stesso di diventare un personaggio perfettamente immorale... che è in fondo un James Bond portato alle estreme conseguenze."
Chi ha visto l'ottimo adattamento cinematografico de La talpa del 2011 può riconoscere lo stesso John Le Carré tra gli ospiti della festa verso la fine del film, in un cameo alla Hitchcock. E viene da pensare a quanto rivelò nel 2008 in un'intervista al Sunday Times: a un certo punto della sua carriera fu persino tentato di lavorare per l'altra parte. Non era una tentazione ideologica”, precisò. “Ma quando si spia intensamente e ci si avvicina sempre di più al confine... sembra un passo così breve saltare dall'altro lato e scoprire il resto.”


domenica 13 dicembre 2020

The Prisoner - Original Art Edition

Recensione di Andrea Carlo Cappi

Si scoprono sempre cose nuove, anche se ogni tanto con lieve ritardo, dato che il volume in questione è datato 2019. Per esempio, che da un telefilm di culto la Marvel Comics - la casa editrice dei supereroi - sia stata sul punto di trarre una serie a fumetti, che passò tra le mani di due dei più grandi disegnatori della storia, Jack "The King" Kirby e Gil Kane, anche se alla fine non fu portata a compimento. The Prisoner - Original Art Edition porta alla luce le due straordinarie versioni a fumetti, inedite, del primo episodio.

Molti ricorderanno la serie britannica Il Prigioniero (The Prisoner, 1967-68) che io scoprii affascinato negli anni Settanta, quando la RAI ne mandò in onda una manciata di episodi. In seguito fu trasmessa per intero in Italia su qualche rete in orario notturno, ma riuscii a vederla dall'inizio alla fine solo nei primi anni Duemila, quando ne uscì la collezione completa in edicola. Ne era ideatore, interprete principale e spesso regista Patrick McGoohan (1928-2009), attore irlandese attivo su entrambe le sponde dell'Atlantico, all'epoca reduce dal successo della serie spionistica Gioco pericoloso (Danger Man, 1960-68). Qualcuno lo ricorderà per avere interpretato almeno quattro diversi antagonisti del tenente Colombo, nella storica serie di tv movies di cui diresse anche un bizzarro episodio.

Bizzarro è un termine adatto, perché l'approccio di McGoohan al genere era assolutamente fuori dagli schemi. Se John Drake, il protagonista di Danger Man, era un agente segreto diverso dal James Bond dei romanzi e soprattutto dei film (l'attore fu candidato al ruolo di 007, ma non lo accettò, pare in quanto fervente cattolico), il protagonista de Il Prigioniero è ancora più atipico. Da quanto si vede nel primo episodio è a sua volta un agente segreto, o quantomeno fa parte di un'organizzazione governativa con sede a Londra, presso la quale rassegna in un impeto di rabbia le proprie dimissioni. Ma in tutta la serie non verrà mai rivelato il suo nome, né il suo ruolo: narcotizzato e rapito, l'uomo si risveglia in un luogo non identificato chiamato "il Villaggio" (gli esterni sono girati a Portmeirion, cittadina nel Galles settentrionale dalle stravaganti architetture) dove viene chiamato Numero Sei. L'obiettivo dei rapitori, una struttura ben organizzata e tecnologicamente avanzata, è sottoporlo a una serie di giochi mentali per indurlo a rivelare i suoi segreti, in particolare il motivo delle sue dimissioni.

Nella serie, a metà tra spionaggio e fantascienza, si percepiscono influenze letterarie che vanno da Il mondo nuovo di Huxley e dal 1984 di Orwell a L'uomo dei giochi a premio di Dick, passando per il racconto Attenti al cane di Roald Dahl (ispiratore diretto del film Le ultime trentasei ore e indiretto della serie tv Missione: Impossibile). Forse per necessità di esportazione sul mercato televisivo americano, quella che avrebbe dovuto essere una seconda stagione fu ridotta a quattro episodi conclusivi di cui gli ultimi scritti frettolosamente, in cui il sottofondo psichedelico delle sceneggiature andava in crescendo e il finale, anziché risolutivo, era più delirante di quelli di Twin Peaks. Lo spunto de Il Prigioniero sarebbe stato riutilizzato varie volte e se ne sarebbe visto persino un remake sotto forma di miniserie tv molto meno efficace nel 2009. In ogni caso Il Prigioniero di McGoohan raggiunge livelli epici nella descrizione di un uomo deciso a mantenere la propria identità in un contesto "sociale" che lo vuole omologato e accondiscendente a una "realtà" preconfezionata dal Potere, come avveniva nelle dittature del Novecento.

Art+Design Atomium Museum, Bruxelles
Foto A. C. Cappi

Torniamo al bellissimo (e inevitabilmente un po' costoso) volume della Panini Comics che riproduce in italiano il lavoro fatto nel 1976 da Steve Englehart (sceneggiatore) e Gil Kane (disegnatore) e da Jack Kirby (sceneggiatore e disegnatore) partendo dallo script di Arrival, primo episodio della serie tv. Sono le due diverse versioni della stessa storia, in buona parte rimaste a livello di matite, con solo alcune tavole a china e una splash page a colori. Quindi non ci si deve aspettare di trovare una versione deluxe di due albi Marvel standard. La versione di Kirby è presentata con lettering in italiano, la versione di Englehart-Kane è "al naturale", anche se riproposta poi, più in piccolo, con lettering e sceneggiatura tradotta a fronte. Chi conosce e ama i due disegnatori - che sarebbe riduttivo definire due dei più grandi che abbiano calcato le scene della Marvel e della DC Comics, creando l'immagine di personaggi leggendari - può immaginare l'entità dello spettacolo.

Per i cultori della televisione vintage ci sono interessantissimi retroscena, non solo della versione a fumetti ma anche della serie tv, tra cui la cartella stampa con cui la ITC lanciò Il Prigioniero, cercando di stimolare l'interesse di un pubblico abituato a fiction più convenzionale. Si sottolineava come si trattasse di una "serie di azione" anche se ambientata nello spazio ridotto del Villaggio. E si calcava la mano sul mistero che circondava tanto le sceneggiature quanto le riprese, compresa la location degli esterni, all'epoca poco conosciuta e quindi novità assoluta per gli spettatori. Risulta sorprendete la resa a fumetti tanto dell'ambiente del Villaggio quanto degli interni realizzati in studio, con elementi di design tipici dell'epoca, come la celebre poltrona sferica del Numero Due. Insomma, un tuffo emozionante nello spazio-tempo, irrinunciabile per chiunque (come racconta lo sceneggiatore Steve Englehart) abbia provato a immergersi nel mondo del Numero Sei e ne sia rimasto segnato.


sabato 12 dicembre 2020

Il grande sonno (1946)


Retrospettiva di Alby Bottecchia

Los Angeles non è un posto da angeli. A dispetto del nome e della patina glamour è una città dominata da vizi e corruzione.
Nessuno lo sa meglio di Philip Marlowe, interpretato da Humprey Bogart (Una pallottola per Roy, Il mistero del falco, Casablanca), un detective privato scaltro, sagace e all'occorrenza veloce coi pugni. Quando viene chiamato per risolvere un caso di ricatto ai danni della giovane e bellissima figlia del generale Sternwood, Carmen (l'attrice Martha Vickers) l'abilissimo investigatore entra in un autentico labirinto di intrighi, in cui rischia di perdersi anche la figlia maggiore del generale: l'affascinante e spregiudicata Vivian (Lauren Bacall), di cui Marlowe si innamorerà, ricambiato. Philip dovrà vedersela con un avversario spietato, facendo ricorso a tutta la sua astuzia e abilità per uscirne vivo.
Howard Hawks (Susanna, Un dollaro d'onore) dirige l'adattamento del primo romanzo del ciclo hardboiled di Raymond Chandler, realizzando uno dei capolavori del cinema noir anni Quaranta in cui ironia, azione e mistero si mescolano in un cocktail dosato alla perfezione, ancora godibilissimo a quasi settantacinque anni dall'uscita. Grazie anche all'adattamento di Leigh Brackett e William Faulkner, già collaboratori di Hawks in Acque del sud, da cui il regista riprende i protagonisti Bogart & Bacall (nel frattempo divenuti una coppia nella vita reale).
L'interpretazione di Bogart, in particolare, rimarrà per sempre associata all'incarnazione cinematografica di Philip Marlowe: grinta, ironia e classe che lo rendono un'icona immortale.
My, my, my! Such a lot of guns around town and so few brains.

venerdì 11 dicembre 2020

Iperwriters - Salvati dal naufragio, verso un roseo futuro


 Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Venerdì, ore 13. Oggi nasce IperWriters. La parola è una realtà vivente, come si credeva nell'antico Egitto. Il nome è moderno, ma ha una radice antica. Iper significa oltre, al di là. Oltre lo scrittore. Sempre andando avanti.
In questi giorni circola uno spot pubblicitario: uno strumento di ripresa gira intorno a una pila di libri in un lungo piano sequenza circolare, salendo e salendo. La pila sfuma lentamente nell'ombra, e l'ultimo volume sulla sommità si apre in un tablet di ultima generazione che irradia un fascio di luce abbagliante.
Sì, con la fine dell'era Gutenberg siamo naufragati nel mare del Web. Senza radici, senza maestri, senza esempi e senza storia, dal Titanic affondato abbiamo trovato rifugio sulla nave portacontainer.
Nei container ci siamo noi, gli scrittori. Noi che non ci siamo arricchiti, ma siamo sopravvissuti. Noi che, quando dovremmo essere categorizzati, scopriamo che “non facciamo statistica”. Noi, che con l'acculturazione di massa ci siamo moltiplicati all'infinito ma, di fatto, non esistiamo.
Nei nostri container vorremmo essere liberi. D'accordo, l'idea di libertà in uno spazio chiuso è un paradosso e un ossimoro, e avreste ben ragione a dirci che vi proponiamo solo di passare da un carcere a un altro.
Ma c'è tutta una letteratura che parla di voli meravigliosi nella cella di un monastero, sotto una tenda indiana, sulla cima di un pilastro.
E perché non in un container?
Naufragati, non abbiamo più nulla da perdere.
Nel mondo contemporaneo è d'obbligo stare in un container, ma in qualità di naufraghi abbiamo ben diritto di scegliercelo noi.
Nei nostri container non si dorme, ma si sogna molto. Il nostro sogno è ritrovare l'antica magia che i nostri talenti un tempo portavano alle coscienze attente.
La nave portacointainer va. Avanti.
Il mare è freddo, grigio, invernale. Ma il cielo è rosa, perché il futuro lo è sempre, e si riflette nell'insegna che ci rappresenta.
Siamo noi. Siamo gli IperWriters.

Continua...

mercoledì 9 dicembre 2020

La legge della notte (2016)


Retrospettiva di Alby Bottecchia

Chicago 1926: Joe Coughlin, interpretato da Ben Affleck (Pearl Harbour, Daredevil, The Accountant, Argo), è un veterano della prima guerra mondiale, ribelle per natura: pur essendo figlio di un commissario di polizia, rapina banche per puro brivido senza mai coinvolgere i civili, non ama prendere ordini ed è estremamente avventato.
Durante un colpo conosce e si innamora di Emma Gould, una ragazza tanto affascinante quanto superficiale legata sentimentalmente ad Albert White, potente boss locale. Scoperto il tradimento, White sta per fare del rapinatore un esempio giustiziandolo sul posto, quando interviene la polizia che arresta Joe per un colpo precedente (nel corso del quale sono rimasti uccisi quattro agenti).
Grazie alla mediazione del padre, Joe evita la sedia elettrica scontando cinque anni di carcere.
Una volta uscito Joe si pone sotto la protezione di Maso Pescatore l'unico capomafia con abbastanza potere da opporsi al dominio di White,
Pescatore riconoscendo il talento organizzativo e intimidatorio di Joe , lo manda in florida a gestire l'arrivo e lo spaccio clandestino di rum.
Dimostrandosi astuto e spietato, Joe si impone come il re dei trafficanti, innamorandosi, ricambiato, di Graciela Corrales, interpretata da Zoe Saldana (Avatar, Star Trek, Guardians of the Galaxy), sorella e socia del suo " fornitore" cubano.
Nonostante l'affetto di Graciela e il successo negli affari, su Joe incomberà sempre minacciosa l'ombra di Albert White; quando gli alleati diverranno nemici il giovane Coughlin dovrà impugnare un'ultima volta la pistola per la sfida decisiva.
Dal romanzo La legge della notte (Live by Night) di Dennis Lehane (già autore di Shutter Island), Ben Affleck trae nel 2016 come sceneggiatore, regista e interprete un film avvincente, adrenalinico e bruciante come un sorso di rum con protagonista taciturno e letale disposto a tutto pur di proteggere coloro che ama. Bang.

venerdì 4 dicembre 2020

Il solito vizio, di Pierluigi Larotonda


Presentazione di Enrico Luceri

Torino, febbraio 1975. Una città grigia, piovosa, dove i viali sfumano nella foschia, le locandine dei quotidiani appese alle edicole sventolano, agitate da un vento freddo e umido, e i passanti che si fermassero a leggere i titoli a caratteri cubitali, troverebbero le notizie su attentati terroristici e casi di cronaca nera.
Benevento è un poliziotto di origini meridionali, che si aggira per i quartieri più degradati di questa città industriale che già risente della crisi dei consumi dell’epoca.  Benevento non è un poliziotto qualsiasi: è stato corrotto da una gang siciliana per chiudere un occhio su un giro di bische clandestine. Come ammette egli stesso, si è corrotti per lucrare un guadagno illecito oppure per codardia e salvarsi la vita. Lui, poi, avrebbe come massima ambizione quella di ficcarsi in un posto di lavoro tranquillo e privo di rischi. Ma il destino decide diversamente.
Benevento non è solo un poliziotto corrotto. È l’io narrante del romanzo Il solito vizio, scritto da Pierluigi Larotonda, una storia che evoca immagini, suoni, voci e un’atmosfera che oggi pare remota e invece è immersa in un tempo relativamente vicino. Eppure reso così diverso e distante da un cambiamento epocale di abitudini e mezzi, favorito dal consumismo esasperato e dall’inarrestabile evoluzione della tecnologia.
Incaricato delle indagini sulla morte per apparente overdose della figlia di un maldestro ricattatore, Benevento scopre di amare il suo lavoro e dimostra capacità insospettabili di sbirro, aggirandosi in un milieu di immigrati senza possibilità di riscatto, emarginato con sospetto e sfiducia da colleghi e superiori. Allo sbaraglio dentro un intrigo che si rivela un vero labirinto di inganni e crimini, questo poliziotto scalcagnato che somiglia un po’ al sergente Sarti Antonio di Loriano Macchiavelli (che però è un questurino onesto fino al midollo) e cita correttamente Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, rovista a mani nude nella melma di usura, rapine, eversione, spaccio, truffa, prostituzione e un campionario vasto di delitti. A tratti confuso da personaggi abili a simulare un’indole diversa da quella reale, trova comunque il bandolo della matassa, consapevole del rischio che corre: essere soffocato dal filo teso attorno a lui da una singolare convergenza di interessi.
Una storia che sembra prendere vita dalle pagine e svolgersi davanti ai nostri occhi, per l’incisiva descrizione di un’umanità dolente, di una realtà di emarginati, piccola e media criminalità, spacciatori e tossici, insospettabili assassini e situazioni dove i profili di vittime e colpevoli si confondono e diluiscono, forse in quella stessa foschia che dilata le ombre e le facciate dei palazzi borghesi e popolari di Torino. Una sequenza ritmata di scene da film poliziottesco degli anni Settanta del secolo scorso, magari trasmesso qualche anno dopo da uno dei primi modelli di televisione a colori, con quell’effetto carico di ricordi addormentati nella memoria, e mai rimossi, che attendono solo una parola, un nome, il titolo di una canzone per svegliarsi. 
Perché i ricordi in fondo sono le nostre radici, e accettata l’indispensabile e minima dose di rimpianto, possono sfumare nella nostalgia solo a condizione di lasciarci guardare il futuro con la consapevolezza di ciò che siamo stati. E in fondo restano la più concreta testimonianza di essere vivi e vitali.
Il noir troverà la sua soluzione in un fatto di cronaca, in un vizio italiano purtroppo ancora ben presente nella società contemporanea.

Pierluigi Larotonda Il solito vizio, Bertoni Editore, euro 16,00

giovedì 22 ottobre 2020

Roubaix, une lumiere (2019)

 


Recensione di Andrea Carlo Cappi

Roubaix, la città francese al confine con il Belgio che forma un nucleo metropolitano con altre località, come Lille e Tourcoing, ha conosciuto tempi gloriosi. Ma ora è in fase di decadenza e la sua popolazione – comprendente comunità di immigrati da Italia, Portogallo, Polonia, Nordafrica... – è sempre più povera e afflitta da una criminalità crescente. In questo scenario si trova a operare il Commisariat Central, di cui è a capo Yakoub Daoud, nato in Algeria e cresciuto a Roubaix, cui sono legati tutti i suoi ricordi e dove ora è l’unico rimasto della sua famiglia; tranne un nipote carcerato, che rifiuta di vederlo e lo odia a morte senza motivo apparente, forse solo per i loro due ruoli opposti di sbirro e delinquente. 

Daoud (Roschdy Zem, premio Lumières e premio César per questo ruolo) è la figura dominante di Roubaix, una luce di Arnaud Desplechin: un poliziotto solitario dai modi apparentemente gentili, ma impietoso quando si tratta di portare alla luce la verità, che si tratti di una tentata frode assicurativa o di un omicidio. Fa amicizia con l’ultimo arrivato della squadra, Louis Cotterelle (Antoine Reinartz), prete mancato dalla fede in crisi, deluso dalla difficoltà di risolvere i casi in un contesto del genere. 

Per esempio, l’incendio doloso di una casa abbandonata in un cortile di rue des Vignes porta un gruppo di poveracci di etnie assortite ad accusarsi a vicenda senza che la polizia cavi un ragno dal buco. E le uniche testimoni, le conviventi Claude (Léa Seydoux) e Marie (Sara Forestier), hanno troppa paura per parlare. Poi, nello stesso cortile, avviene l’omicidio di un’anziana signora. Poveri che uccidono per derubare altri poveri. Ma stavolta l’intuito di Daoud e le tecniche di interrogatorio della sua squadra portano alla soluzione del caso, una verità triste e una confessione agghiacciante. Ma anche a una luce nell’ombra della città.

Il film si potrebbe definire un police procedural a sfondo sociale, con un’indagine principale in parallelo ad altri casi, in chiave realistica: non a caso è basato su un vero caso di omicidio a Roubaix del 2002, ricostruito nel documentario televisivo Roubaix Commissariat Central (di Mosco Boucault, France 3, 2008). Nessuna concessione viene fatta a buonismi o stereotipi da telefilm. Persino Léa Seydoux, sciupata ad hoc, si presenta qui in un ruolo del tutto non-glamour tra un film di 007 e l’altro. Girato nel 2018 e presentato con buona accoglienza a Cannes nel 2019, questo polar social è arrivato nei cinema italiani nell’autunno 2020. E viene da chiedersi se in luoghi come Roubaix, in questo anno ancora più difficile, la luce si sia spenta di nuovo. 


Iperwriters - Tiro al piccione su Superman

Photo: Johan Taljaard on Unsplash I perwriters - Editoriale di Claudia  Salvatori Letteratura italiacana - 59 - Tiro al piccione su Superman...