Un morto riuscì a sconfiggere Hitler dalla tomba. Andrea Carlo Cappi racconta la vera storia del maggiore William Martin, "l'uomo che non è mai esistito". Un'incredibile vicenda realmente accaduta durante la Seconda Guerra Mondiale. Un abile inganno ai danni dello spionaggio di Berlino, per cambiare il corso della storia. Un piano concepito all'Ammiragliato britannico dal capitano Ewen Montagu, con l'aiuto di Ian Fleming (che un decennio dopo darà vita a James Bond 007) e del romanziere Dennis Wheatley. Una trappola che richiede un cadavere, un sommergibile, una valigetta piena di documenti segretissimi e una città spagnola in cui opera un'abile spia tedesca. La prima "storia dalla storia" di Dossier K.
martedì 10 marzo 2020
martedì 26 novembre 2019
Premio Torre Crawford 2020: bando di concorso
Bando
del Premio “Torre Crawford” – 1^ EDIZIONE
Il
comune di San Nicola Arcella (CS) in collaborazione con la Pro Loco
istituisce la prima edizione del Premio Letterario “Torre Crawford”
per il racconto gotico/horror, dedicato alla memoria dello scrittore
Francis Marion Crawford. La premiazione avrà luogo a San
Nicola Arcella nel mese di giugno (o in altro periodo, compatibilmente con l'attuale emergenza sanitaria), nel corso del festival Torre
Crawford 2020.
Il Premio è aperto a tutti
i cittadini italiani che abbiano compiuto i diciotto anni di età.
Fra tutti i partecipanti la giuria sceglierà 10 racconti. Il
Premio consisterà nella pubblicazione dei 10 racconti
selezionati in un'antologia (in cartaceo ed ebook) a cura della casa
editrice Oakmond Publishing e in una copia omaggio del volume. Gli autori
pubblicati avranno inoltre la possibilità di ordinarne altre
copie presso l'editore usufruendo di uno sconto del 50% sul prezzo di
copertina.
Inoltre:
- Per il 1° classificato, permanenza e aperitivo la domenica successiva alla premiazione in una delle strutture balneari in loco, con vista su Torre Crawford, come preludio al soggiorno di un intero fine settimana che si svolgerà nel mese di settembre;
- Per il 2° e il 3° permanenza e aperitivo la domenica successiva alla premiazione in una delle strutture balneari in loco, con vista su Torre Crawford, con la possibilità a scelta di pranzo o cena, in uno dei ristoranti più suggestivi del luogo;
- Per i classificati 4°, 5° e 6° permanenza e aperitivo la domenica successiva alla premiazione in una delle strutture balneari in loco, con vista su Torre Crawford.
Tema
obbligatorio per i racconti partecipanti al concorso: Poiché
il sangue è la vita, titolo del racconto di vampiri di F.
M. Crawford ambientato a S. Nicola Arcella.
MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE
ART.1
Il contributo richiesto per spese organizzative è di 5 euro da
inviare tramite bonifico a Pro
loco San Nicola Arcella IBAN: IT88E0311180870000000001914, con causale: Nome Cognome Premio. I
racconti dovranno pervenire entro la data del 15/03/20 prorogata eccezionalmente fino al 30 aprile 2020 al seguente
indirizzo e-mail: torrecrawford@gmail.com
ART.2
Il racconto dovrà essere scritto in lingua italiana e non
superare la lunghezza massima di n. 20.000 battute (intese come
lettere, punteggiatura, spazi, etc.)
ART.3
Il racconto dovrà essere inedito e mai pubblicato neppure in
forma elettronica.
ART.4
Ogni concorrente potrà partecipare con un solo racconto.
ART.5
Ogni concorrente sarà responsabile della propria opera e dovrà
avere i pieni diritti del testo/racconto che presenterà per la
partecipazione al concorso.
ART.6
Ogni concorrente, con la sua partecipazione, autorizza la
pubblicazione del proprio testo sia in versione digitale che in
versione cartacea, accettando l’eventuale intervento di editing
condotto dall’editore ai fini della pubblicazione; cederà
inoltre i diritti all’editore limitatamente alla pubblicazione
dell'antologia, conservandone la proprietà generale.
ART.7
Ogni Autore, per il fatto stesso di partecipare al concorso, dichiara
la paternità e l'originalità delle opere inviate e del
loro contenuto e autorizza il trattamento dei suoi dati personali ai
sensi del D.Lgs. 196/2003 e succ. modifiche, sollevando organizzatori
ed editore da qualsiasi responsabilità.
ART.8
Ogni concorrente dovrà spedire due copie dell'elaborato (una
formato word e una PDF) in due distinti allegati: la copia in pdf
dovrà essere anonima e contrassegnata dal solo titolo,
la copia in formato word dovrà contenere il titolo, i dati
dell'Autore (nome, cognome, data e luogo di nascita, residenza,
indirizzo e-mail, recapito telefonico) ed essere corredata da
cinque righe di biografia ed eventuale bibliografia. L’invio
dell’elaborato all'e-mail sopraindicata comporterà
l’accettazione tacita di tutte le regole del presente bando.
ART.9
Gli elaborati pervenuti saranno valutati in base a originalità
della trama, appartenenza al genere gotico/horror, qualità
stilistica e linguistica, rispetto dei limiti di lunghezza stabiliti
dal concorso. Saranno esclusi i racconti che non rispettino le
condizioni indicate, così come quelli in cui il pdf risulti
firmato dall'Autore.
ART.10
Gli elaborati saranno valutati in forma anonima dalla Giuria,
presieduta dallo scrittore Andrea Carlo Cappi, il giudizio della
quale è insindacabile e inappellabile.
ART.11
La cerimonia di premiazione avrà luogo nel corso del mese di
giugno 2020. I finalisti riceveranno un'e-mail con tutti i dettagli
per la serata.
ART.12
Gli autori dei racconti vincitori si impegnano a cedere gratuitamente
qualunque diritto relativo alla pubblicazione e alla
commercializzazione del proprio elaborato alla succitata casa
editrice nell’ambito della sola opera antologica relativa a questa
edizione del concorso.
ART.13
In base alla vigente normativa sulla privacy, gli indirizzi e i dati
personali dei partecipanti verranno utilizzati esclusivamente ai fini
del festival, del concorso e per l'eventuale pubblicazione
nell'antologia.
PER INFORMAZIONI:
torrecrawford@gmail.com
sabato 12 ottobre 2019
24 a mezzanotte... a Strani Mondi 2019
Alle 18.00 di domenica 13 ottobre a Strani Mondi 2019, presso Casa dei Giochi, v. S. Uguzzone 8 (Milano), presso la Sala Presentazioni, appuntamento con "24 a mezzanotte" (Milena Edizioni), L'antologia horror italiana a cura di Giuseppe Maresca e Luca Raimondi, con le illustrazioni di Fabio Lastrucci e la prefazione di Claudio Chiaverotti. contiene, come lascia intendere il titolo, ventiquattro racconti, scritti da Stefano Amato, Danilo Arona, Corrado Artale, Vincenzo Barone Lumaga, Andrea Carlo Cappi, Fabio Celoni, Maurizio Cometto, Antonio Ferrara, Antonella Ferraris, Pietro Gandolfi, Roberto Grenna, Andrea Guglielmino, Fabio Lastrucci, Nicola Lombardi, Angelo Marenzana, Giuseppe Maresca, Gianluca Morozzi, Angelo Orlando Meloni, Massimo Padua, Barbara Panetta, Biagio Proietti, Luca Raimondi, Lea Valti e Daniele Zito.
lunedì 7 ottobre 2019
Joker contro Hollywood
Recensioni incrociate di Andrea Carlo Cappi
Ho la sensazione che, almeno in Italia, anche a seguito dell'uscita a distanza di poche settimane l'uno dall'altro, si stia creando una sorta di rivalità tra i due film americani più attesi di questa stagione. Sto parlando di C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino e Joker di Todd Phillips. Le due pellicole hanno senz'altro qualcosa in comune: il fatto di essere ambientate nel passato, rispettivamente la prima cinquant'anni fa (1969, quando il regista aveva sei anni); la seconda poco meno di quarant'anni fa (stando all'inquadratura di un cinema che proietta due film del 1981, quando il regista aveva undici anni). Entrambe traboccano di citazioni e allusioni, più o meno colte dagli spettatori. Tarantino prende a riferimento il mondo del cinema e un tragico fatto di cronaca di quell'epoca per realizzare... un film indubbiamente di Tarantino, quindi adorato o detestato come suo solito; Phillips parte invece da un personaggio dei fumetti per creare un film del tutto diverso dagli abituali cinecomics, vincendo persino il Leone d'Oro a Venezia.
Ebbene: a quale attore protagonista assegnerei un Oscar? Inevitabilmente a Joaquin Phoenix, a malincuore sottraendolo a Di Caprio (ma tanto lui ci è abituato). Quale film voterei come migliore? Senza esitazione, quello di Tarantino. Ora, sempre che vi interessi, vi spiego perché, con le mie recensioni incrociate.
C'era una volta a... Hollywood è una visione nostalgica ma non troppo dell'impietosa macchina dell'intrattenimento made in USA di quegli anni. Del resto Raymond Chandler, che con gli studios aveva un rapporto conflittuale, scrisse che ci si lamenta della qualità dei film hollywoodiani, ma se si sapesse come vengono fatti ci si stupirebbe che ogni tanto ne esca uno buono.
Uno dei tre protagonisti di Tarantino, Rick Dalton (Leonardo di Caprio) è un attore sempre bisognoso di conferme, già sul viale del tramonto senza essere mai diventato una star, vicino di casa della coppia del momento, Polanski & Tate. La carriera di Dalton assomiglia molto a quella di Steve McQueen, ma non abbastanza: come Steve ha interpretato una serie western in tv nel ruolo di un cacciatore di taglie e avrebbe potuto essere al posto suo il protagonista de La grande fuga, ma non ha avuto fortuna. Ora gli vengono offerti solo ruoli occasionali da cattivo in tv, passando da una serie di telefilm all'altra; come sottolinea l'agente interpretato da Al Pacino, ormai l'unica possibilità che gli resta è andare in Italia a fare spaghetti western (ed eurospy). Ancor meno trionfale è il destino dell'altro protagonista maschile, Cliff Booth (Brad Pitt), l'insostituibile controfigura del primo, di cui è anche migliore amico, autista e confidente. L'esistenza dell'uno dipende da quella dell'altro.
La protagonista femminile è Sharon Tate, ricordata dalla Storia come vittima per caso del massacro di Cielo Drive e nota nelle cronache rosa più come moglie di Roman Polanski che come attrice di per sé: la poliedrica Margot Robbie le dà alla perfezione viso, corpo e piedi sporchi (non dimentichiamo le predilezioni feticiste del regista) mentre stenta a farsi riconoscere quando entra in un cinema che proietta il suo (vero) nuovo film, Missione compiuta, stop. Bacioni, Matt Helm, quarto episodio della serie spy-comedy con Dean Martin. Vediamo Sharon-Margot guardare sullo schermo la vera Sharon, quasi a rassicurare se stessa che è davvero un'attrice di belle speranze. Esattamente come il personaggio di Di Caprio si guarda con l'amico in tv in un episodio di The FBI, per convincersi di essere ancora qualcuno.
In sostanza, a Hollywood (un po' come nell'editoria italiana, solo con meno soldi in gioco) vale la regola della Regina Rossa di Lewis Carroll: devi correre a più non posso per restare dove sei, se vuoi anche andare da qualche parte, devi correre almeno il doppio.
Non mancano altri personaggi veri reinterpretati, come l'irrequieto Steve McQueen; un Bruce Lee, all'epoca co-star della serie tv The Green Hornet, che si dà arie per mascherare le proprie frustrazioni; l'attore-regista Sam Wanamaker che si concede alla televisione con velleità autoriali; Roman Polanski in versione mod; il parrucchiere Jay Sebring, in attesa che Sharon molli Polanski, se mai avverrà; Charles Manson con la sua inquietante comunità hippie (nella quale ha ampio risalto Maya Hawke nel ruolo di Linda Casabian) e il vecchio Spahn, proprietario dell'ex-set cinematografico che li ospita.
Se la faccia dell'interprete di Spahn, Bruce Dern, così come quelle di Kurt Russell o di Michael Madsen, è già automaticamente un'autocitazione, Tarantino non lesina i riferimenti alla tv di quegli anni (Mannix, The FBI, L'uomo dell'UNCLE e molte altre serie, persino Batman, mescolata a una criptocitazione musicale di James Bond), ma anche al cinema di genere italiano: questa forse è la parte più criptica per chi non sia un lettore di Nocturno o un frequentatore di Bloodbuster. Si racconta di registi italiani (veri) che dirigono l'attore americano e il suo stuntman di fiducia (immaginari). Senza contare che tutto questo e il titolo strizzano l'occhio ai film di Sergio Leone, sopra una colonna sonora come al solito ricchissima che spazia dai successi dell'epoca alle sigle tv. Finzione che si mescola alla realtà e la riplasma.
Ma la chiave di tutto è la sceneggiatura, che dà agli attori principali, soprattutto a Di Caprio, ampio spazio di recitazione e fa a pezzi il mito pseudosatanico di Charles Manson. Certo, c'è qualche lungaggine, come la crisi dell'attore sul set del pilot di una nuova serie western (che si immagina diretto da Wanamaker) in cui gli tocca il ruolo di cattivo, contrapposto a un insulso attore emergente. Questo peraltro è il vero momento da candidatura all'Oscar per Di Caprio. Gli spettatori di Tarantino sono abituati a qualche lentezza e stanno al gioco. Ma l'essenza del film è che per tutto il tempo non si sa mai che cosa aspettarsi e le sorprese non mancano.
Per contro, l'esaltatissimo Joker si basa, oltre che su un'altra perfetta messa in scena d'epoca, un'impeccabile fotografia e una trovata geniale di scrittura: il diario su cui il protagonista, clown su commissione e aspirante cabarettista, annota battute tragiche e memorabili, quali I hope my death makes more cents than my life. Ma soprattutto si regge sulle spalle smagrite e gli intensi primi piani di un titanico Joquin Phoenix. Se il film raggiunge vette di grandezza, il merito è essenzialmente suo. Perché, mi spiace dirlo, la sceneggiatura è quanto di più prevedibile possa capitare in un film.
L'idea di raccontare per il nemico storico di Batman un'origin story diversa da quella che abbiamo visto nel film di Tim Burton con il Joker di Jack Nicholson (liberamente basata su albi datati 1951) proviene a grandi linee da una rilettura di Alan Moore nella graphic novel The Killing Joke (1988) in cui si apprende che, prima di finire durante un'azione criminale nell'impianto chimico che segnerà per sempre il suo aspetto, Joker era un comico fallito. Questo film cancella la parte dell'incidente ed esalta invece la tragicità del personaggio.
Al povero protagonista sono capitate e capitano più sventure che a un personaggio di Dostojevskij che venisse portato sullo schermo da Ingmar Bergman negli anni Settanta: la madre malata da accudire, che gli nasconde segreti imbarazzanti; un trauma nell'infanzia che gli ha lasciato problemi psichiatrici, in particolare una risata incontrollabile nei momenti di forte tensione; il taglio dei servizi psichiatrici pubblici, che non gli garantisce più i sette farmaci da cui dipende il suo instabile equilibrio; la perdita del posto di lavoro come clown conseguente alla sua instabilità mentale; i difficili rapporti con le donne; le botte ricevute da delinquentelli da strada nell'esercizio delle sue finzioni e quelle ricevute in metrò da un branco di yuppie molestatori di ragazze. Un clown che avrebbe portato alla depressione persino Fellini.
Il tutto in una Gotham City decadente, minata da tensioni generalizzate e scoppi di violenza gratuita, da uno sciopero della nettezza urbana e da politici inaffidabili. Tra costoro si fa largo l'imprenditore di successo Thomas Wayne, aspirante sindaco e sedicente salvatore della città malgrado i commenti sprezzanti nelle interviste televisive (qualsiasi somiglianza con Donald Trump non dev'essere puramente casuale).
Insomma, il povero Arthur Fleck – soprannominato Joker (nel senso spregiativo di buffone) dalla strafottente star televisiva Murray Franklin interpretata da un sempre eccezionale Robert De Niro – ha così tante sfortune da essere più un caso umano rifiutato da una società crudele imperniata sul successo a tutti i costi, che un criminale creativo e imprevidibile.
Nulla contro la revisione del personaggio. Nondimeno, quando ci dovesse capitare di rivedere Batman che prende a pugni Joker, a fare la figura dello stronzo sarebbe proprio il Cavaliere Oscuro. Che oltretutto qui vediamo ancora in veste di ragazzino ricco, con intorno un padre stronzo, una madre altezzosa e un maggiordomo antipatico, ben diverso da Michael Caine o Jeremy Irons.
Oltretutto le prime vittime di Joker sono stronzi pure loro, oggetto più che altro di un eccesso di legittima difesa. E il gesto assume un imprevisto valore politico, trasformando la sua faccia da clown in un simbolo per tutti quelli che Thomas Wayne definisce i “pagliacci”, nel senso di “falliti”, di Gotham. Fino a scatenare senza volerlo una vera e propria rivolta urbana. Joker dunque come eroe rivoluzionario al pari dell'epico V di Alan Moore in V for Vendetta? Non stiamo esagerando, compagni? Ringraziate il cielo che il senatore McCarthy è sottoterra da un bel po'.
Non c'è da stupirsi che il film ottenga un certo gradimento sul piano intellettuale. Nessun elemento lo avvicina all'attuale cinema dei supereroi DC o Marvel, detestabili per definizione in quanto prodotti di puro intrattenimento ed effetti speciali. E che, dice Scorsese a proposito di quelli Marvel, non sarebbero cinema. La denuncia sociale, così evidente da farti dire “D'accordo, ho capito, ma la trama vi siete ricordati di scriverla?”, è tirata in lungo come altrove sono stati protratti all'eccesso gli sganassoni volanti tra Superman e i suoi avversari. Ma la storia, in sostanza, riserva ben poche sorprese, almeno per chi è del mestiere: avviene puntualmente tutto ciò che ci si aspetta che avvenga, solo con più lentezza del necessario.
Quindi che cosa rende imperdibile questo film, contrariamente a quanto ho detto finora? La capacità dell'attore protagonista, in scena senza interruzione, di rendere appieno la tragicità del personaggio. Con i suoi numeri di danza stralunata, con le sue illusioni, i momenti grandiosi e le spaventose cadute. That's life, è la canzone ricorrente, that's what the people say/ Riding high in april, shot down in may/ but I'm sure they're gonna change their tune/ 'cause I'm back on top, back on top in june! Ma soprattutto risalta la tragica risata patologica di Joker, oggetto di veri e propri monologhi giocati su sghignazzo irrefrenabile, pausa, rantolo sommesso, sofferenza allo stato puro che gli si legge negli occhi. Un'interpretazione memorabile, da Actor's Studio, misurata nella sua esagerazione; ben diversa da quella delirante di Jared Leto in Suicide Squad, meno comico-grottesca di quella di Jack Nicholson (per non parlare di Cesar Romero nei bizzarri telefilm camp anni Sessanta citati da Tarantino), superiore persino alla faccia sporca del Joker di Heath Ledger in The Dark Knight.
Con il film di Tarantino, come dicevo, rimane tuttavia qualcosa in comune: le lungaggini e soprattutto il citazionismo militante. Rivediamo una scena che ci ricorda un flashback di Batman vs Superman. La sala cinematografica che in altre versioni proiettava il classico The Mask of Zorro (ispirazione per la doppia identità di Batman/Bruce Wayne) qui propone invece Zorro mezzo e mezzo (Zorro the Gay Blade, una parodia di Peter Medak con George Hamilton) in doppio spettacolo con Blow Out di Brian De Palma. Citazione di citazioni.
In tv passa un vecchio film di Fred Astaire, Voglio danzare con te, con un coro nero (su una canzone di Gershwin) che oggi potrebbe sembrare razzista mentre all'epoca insegnava ai bianchi un certo tipo di musica. In un cinema di lusso si proietta per un pubblico di ricchi Tempi moderni, di cui Arthur Fleck vede di straforo la scena dei pattini, in cui Charles Chaplin univa in modo brillante comicità e suspense. E ci sono persino evidenti rimandi a due film con De Niro di Martin Scorsese, inizialmente co-produttore di Joker, poi uscito dal progetto. Si riconoscono Taxi Driver (il monologo Are you talking to me?) e Re per una notte (il rapporto tra lo stand-up comedian di successo, con tanto di suo programma tv, e l'aspirante cabarettista fallito). Inoltre, se ci fate caso, la sequenza finale richiama il surrealismo dei cartoni animati della Warner, casa di produzione di Joker.
Dobbiamo dire quindi che Joker batte Hollywood almeno sul piano del messaggio? Be', fate caso a un aspetto importante e trascurato del film di Tarantino: tutti, ma proprio tutti, sono incollati agli schermi tv. Persino i ragazzi presuntamente ribelli della Manson Family sono tossicodipendenti (anche) da telefilm confezionati in serie dall'industria hollywoodiana. Oppio dei popoli. Come mi ha fatto notare la mia fidanzata – che apprezza tanto i film impegnati quanto i cinecomics e, dopo che le ho fatto scoprire Fast and Furious, è diventata fan di Dwayne Johnson – non è forse quanto avviene tuttora, non solo con Netflix ma anche con telefonini e computer? Non siamo tutti appiccicati a un fottuto schermo, dando più importanza a quello che avviene là dentro, invece che fuori? Non è forse, ehm, anche quello che voi e io stiamo facendo in questo momento?
Per quanto mi riguarda, aspetto il prossimo febbraio di rivedere la follia catartica di Margot Robbie nel ruolo di Harley Quinn in Birds of Prey.
giovedì 8 agosto 2019
Quando l'uomo fa il mestiere del diavolo
(Da "Cronaca vera", 23/7/2019)
Nella stessa estate in cui l'uomo mise piede sulla Luna e 400.000 giovani si radunarono al Woodstock Festival, la notte tra l'8 e il 9 agosto 1969 Bel Air, quartiere di lusso di Los Angeles, fu teatro di un orribile massacro: l'assassinio dell'attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, incinta di otto mesi, e di altre quattro persone nella villa in Cielo Drive 10050. Polanski scampò alla strage perché in quei giorni era in Inghilterra a preparare un nuovo film, che abbandonò per tornare negli USA appena ebbe la notizia.
La brutalità degli omicidi, le scritte tracciate col sangue sulle pareti e il fatto che l'anno prima il regista avesse avuto successo con un horror demoniaco, “Rosemary's Baby”, fecero pensare all'orrido rito di una setta satanica.
La sera del 10 agosto furono commessi altri omicidi analoghi: i coniugi La Bianca vennero trucidati nella loro casa in Waverly Drive 3301. Il diavolo si era scatenato a Los Angeles? La soluzione fu molto diversa, ma non meno spaventosa.
Cinquant'anni dopo, i delitti di Bel Air del 1969 sono rievocati sia nel film di Quentin Tarantino “C'era una volta... a Hollywood”, sia nel romanzo “Martin Mystère – Il mestiere del diavolo” di Andrea Carlo Cappi, ora in edicola da Sergio Bonelli Editore.
Cosa c'entra il diavolo in questa storia?
Nulla, anche se uno degli assassini di Sharon Tate, Tex Watson, dichiarò di fare “il mestiere del diavolo” e il loro mandante Charles Manson fu soprannominato “Satana” dalla stampa. La verità è che Manson si credeva un nuovo Gesù Cristo, pur essendo solo un pregiudicato che aveva raccolto intorno a sé un gruppo di giovani sbandati, “The Family”. Vivevano di droga e furti d'auto, in un ranch un tempo usato per girare western.
Spahn, Ranch, già set cinematografico e rifugio di Manson nel 1969 |
Com'è passato agli omicidi?
Voleva diventare una rockstar. Aveva convinto ad aiutarlo Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys, il quale incise una sua canzone e gli presentò un discografico, ma questi rifiutò di produrgli un album. Nel frattempo Manson ascoltava canzoni dei Beatles sotto l'effetto della droga, interpretandole come un invito a scatenare l'Apocalisse. In quegli anni di tensioni razziali, decise di assassinare ricchi bianchi incolpando attivisti neri, fino a provocare una guerra civile. Lui dava gli ordini e i suoi adepti, molti dei quali ragazze, diventavano angeli della morte. Aveva scelto la villa affittata dai Polanski in Cielo Drive perché fino a qualche mese prima ci abitava il discografico che lo aveva respinto. Scoperto e condannato, Manson morì ancora detenuto nel 2017.
Charles Manson (rielaborazione di A. C. Cappi). Benché non abbia partecipato materialmente ai delitti, è divenuto una figura mediatica del Male, citata per mezzo secolo da artisti di ogni tipo. |
Nel libro si racconta anche un altro caso, molto simile.
Nel 1914 il celebre architetto americano Frank Lloyd Wright viveva in una proprietà nel Wisconsin, Taliesin, con il suo staff e la compagna Martha "Mamah" Borthwick. Il 15 agosto, mentre Wright era a Chicago per lavoro, il loro domestico Julian Carlton massacrò a colpi di scure la donna e i suoi due bambini, quindi diede fuoco alla casa: fece in tutto sette vittime, per poi avvelenarsi e morire dopo lunga agonia. Nessuno sa cos'abbia scatenato la sua furia. Nel romanzo immagino un collegamento tra le stragi di Taliesin e Bel Air. Martin Mystère, il “detective dell'impossibile” deve impedire che accada di nuovo.
I romanzi con Martin Mystère, il personaggio nato nel 1982 nei fumetti di Alfredo Castelli, stanno avendo molto successo.
Con gli ultimi due, anch'essi usciti in edicola e ora in vendita online su shop.sergiobonelli.it, ho vinto il Premio Italia per il miglior romanzo fantasy italiano del 2017 e il Premio Atlantide per la miglior storia di Martin Mystère del 2018. Spero che "Il mestiere del diavolo" risulti altrettanto gradito ai lettori.
martedì 11 giugno 2019
Lo sguardo abissale di Enrico Luceri
Recensione di Andrea Carlo Cappi
La celebre frase di Nietzsche sullo sguardo – ricambiato – sull'abisso è sempre attuale nella mente di chi scrive horror. Specie quando non lavora sui mostri per così dire tradizionali (dai lupi mannari ai morti viventi nelle loro varie forme) ma si occupa del lato più spaventoso dell'essere umano, di cui i predatori della letteratura gotica sono solo una metafora.
In principio, il fenomeno del serial killer nei libri e sullo schermo non fece che ricondurre alla vita quotidiana la paura atavica dell'Uomo Nero; dopo trent'anni di inflazione di serial killer nella fiction, anche loro sono diventati, al pari dei vecchi mostri della Universal, una variante dei supereroi e dei supercriminali; il che va benissimo, fintanto che le storie sono efficaci. Ma "Lo sguardo dell'abisso" di Enrico Luceri (Edizioni DrawUp, 202 pagine, 14,00 euro) ci riporta alle radici della paura e del terrore. Le radici del male, per citare un titolo di una maestra del genere, Alda Teodorani.
I due personaggi principali sono una scrittrice horror di successo – solitaria, timida, ma a suo modo affascinante – e una sua giovane lettrice che tira a campare come apprendista reporter di provincia ma sogna di diventarne un giorno l'erede. Come possono donne dall'aspetto così gentile risvegliare nei lettori angosce sopite, nascoste, eppure sconfinate? È una domanda che ricorre anche nella realtà, ogni volta che ci si trova di fronte a una scrittrice di storie del terrore: ricordo che fu questo il commento del romanziere spagnolo Pedro Casals, dopo che ebbe incontrato Cristiana Astori.
Tuttavia bisogna stare attenti a ciò che si sogna: ispirazione e immaginazione, terrore fittizio o presente, sono così vicini da confondersi. Basta poco perché la cronaca sconfini nell'incubo, qualche indizio porti a orrori occulti, un ambiente idilliaco all'improvviso si presenti atroce. In questo romanzo – sulla cui trama vi sto tenendo volutamente all'oscuro – Luceri ci porta a spasso proprio sull'orlo del precipizio, permettendoci di osservare il mondo attraverso gli occhi di chi riesce a vedere quanto di più terribile si possa annidare nella normalità. E, in tutto questo, scoprire anche i segreti più oscuri e inconfessabili del meccanismo creativo.
Così le vicende narrate nell'ultimo successo della grande scrittrice e quelle che potrebbero diventare il prossimo libro dell'esordiente si scontrano con vari livelli di realtà, con il presente, il passato e l'altra faccia del sogno, fino a farci domandare chi davvero stia guardando chi e cosa riconosca in ciò che vede.
"Lo sguardo dell'abisso" di Enrico Luceri sarà presentato a EDU Milano 2019, venerdì 14 giugno dalle 18.30, presso Garage Moulinski, via Pacinotti 4, Milano.
venerdì 5 aprile 2019
Aperitivo con Biagio Proietti
Giovedì 11 aprile, 18.30, Milano, Ribs and Beer, v. Pitteri 110 (ingresso libero), aperitivo con Biagio Proietti, la leggenda della tv; presentazione di "Biagio Proietti-Un visionario felice" di Mario Gerosa, con A.C. Cappi, S. Di Marino, E. Luceri (Ed. Il Foglio). Sono presenti Biagio Proietti e tutti gli autori. Conduce A. C. Cappi
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