Borderfiction Eventi, in collaborazione con il Ribs and Beer di via Pitteri 110, Milano Lambrate, e Parole di Milo, presenta il primo degli aperitivi letterari Ribs & Books. Giovedì 18 ottobre 2018, dalle 18 alle 20, doppio appuntamento con l'avvventura e il fantastico: saranno presenti Stefano Di Marino con il suo nuovo romanzo Kalimantan-Il fiume dei diamanti (Dbooks.it) lanciato in occasione della recente manifestazione Strani Mondi; e Andrea Carlo Cappi, fresco vincitore del Premio Italia 2018 per il miglior romanzo fantasy con Martin Mystère-La Donna Leopardo, che presenta invece il successivo romanzo della serie dedicata al "detective dell'impossibile" creato da Alfredo Castelli, Martin Mystère-Le guerre nel buio (Sergio Bonelli Editore). Tutti i titoli saranno in vendita nel corso dell'incontro, con un omaggio a sorpresa per i primi dodici acquirenti. Ingresso libero e, per chi lo volesse, aperitivo con buffet a 9,90€.
KALIMANTAN-Il fiume dei diamanti: nel XIX secolo il capitano olandese van Horn approda su un'isola maledetta; oltre un secolo e mezzo dopo il ladro internazionale che si fa chiamare Dino Rital, l'avventuriera Margot van Horn e un manipolo di uomini pronti a tutto ne seguono le tracce in cerca di un tesoro inimmaginabile, in un pericoloso viaggio verso l'ignoto.
Martin Mystère-LE GUERRE NEL BUIO: in un lontano passato gli esseri umani affrontarono una razza sconosciuta proveniente dalle viscere della Terra; nel 1988 il Detective dell'Impossibile deve scoprirne il mistero, per sventare una spaventosa minaccia che incombe sull'umanità. Il seguito del romanzo La Donna Leopardo.
Da una dozzina di anni c'è
qualcosa di nuovo nel mondo di Mission: Impossible, qualcosa
che ha permesso che il fenomeno non si limitasse a un successo
isolato del film del 1996 e al sequel del 2000. È nato un
rapporto di consequenzialità tra una storia e l'altra, di cui
ora vengono raccolti i frutti. Fallout (2018), ancora di più
di quanto avvenuto nei due film precedenti, riavvicina il concetto
della serie a quella vista in televisione, equilibrano meglio
l'elemento spionistico con la componente di azione, peraltro sempre
notevolmente spettacolare.
I telefilm originali erano nati
sull'onda del successo cinematografico di James Bond e si erano
conclusi nel periodo in cui, con lo scandalo Watergate, cominciarono
a venire alla luce i giochi sporchi reali dei servizi segreti
americani. La ripresa anni Ottanta, in minima parte influenzata dalla
moda dei film d'azione dell'era reaganiana, fu dovuta a circostanze
particolari: uno sciopero degli sceneggiatori americani, che indusse
i produttori al recupero di materiale preesistente, usato o non usato
che fosse, per girarlo a basso costo in Australia.
In realtà la Paramount
Pictures aveva in programma di realizzarne una versione
cinematografica, vista anche la ripresa di 007 con GoldenEye
(1995) dopo sei anni di interruzione e un rinato interesse verso lo
spy movie. Il rilancio di M.I. si rese possibile
tuttavia solo dopo l'entrata in gioco Tom Cruise, con la compagnia di
produzione da questi condivisa con Paula Wagner. Il che,
naturalmente, avrebbe comportato il suo controllo assoluto su
collaboratori e prodotto finito, a costo di discutere sullo script,
sulla colonna sonora e sulla regia, affidata a Brian De Palma. In
cambio, l'attore consegnò alla Paramount un film costato meno
del budget previsto, in cui aveva realizzato personalmente la maggior
parte degli stunt.
I puristi della serie non
apprezzarono né la gestione del personaggio classico di Jim
Phelps, né il fatto che l'azione spettacolare, come si è
detto, prevalesse sulle trame di “gioco
mentale”
(come acutamente le definì Martin Landau) che avevano
caratterizzato la serie tv. Ma, dopo M:I-2 – che ho già
citato come un film quasi interamente affidato al talento registico
di John Woo oltre che alle acrobazie di Tom Cruise, più che a
una vera costruzione narrativa – e sei anni di intervallo, ha
inizio la gestione di J. J. Abrams, già creatore di Alias e
Lost, l'uomo che in breve tempo si trova in mano anche i destini
di Star Trek e Star Wars, quindi tre gloriosi
franchising degli anni Sessanta-Settanta.
Nel 2006 esce M.I.-III,
diretto dallo stesso Abrams, che introduce per la prima volta nella
serie il concetto di continuity anziché episodi
isolati. Il film non è ancora perfetto come costruzione e
anche come dettagli: dubito, per esempio, che Maggie Q potrebbe mai
entrare in Vaticano con un vestito con tutti quegli spacchi, ma è
noto che gli sceneggiatori americani a certe cose non fanno troppo
caso. Tuttavia la storia si fa più personale, dal momento che
l'indistruttibile Ethan Hunt si sposa con Julia (Michelle Monaghan) e
acquisisce una grave vulnerabilità nell'affrontare il perfido
Owen Davian (Philip Seymour Hoffman). La moglie diventa la sua
kryptonite e, come vedremo negli episodi successivi, il matrimonio
andrà a rotoli.
Nel successivo Protocollo
Fantasma (2011) si configura una nuova squadra: oltre al fidato
tech-guy Luther Stickell (Ving Rhames, unica spalla presente
in tutti i film), appaiono Benji Dunn (Simon Pegg, tech-guy
più imbranato) e William Brandt (Jeremy Renner), oltre a Jane
Carter (una splendida Paula Patton, l'unica che purtroppo non si sia
più rivista). L'agente Hunt si trova di nuovo esautorato, ma
stavolta insieme a lui lo è l'intera IMF, accusata di un atto
di terrorismo a Mosca; laddove il vero responsabile è un
fisico nucleare deciso a scatenare una guerra nucleare “controllata”,
per riequilibrare il mondo. Scopriamo anche come sia finito il
matrimonio tra Ethan e Julia e abbiamo l'annuncio di chi sarà
il nemico successivo, un'organizzazione sovrannazionale chiamata il
Sindacato.
È
quella che troviamo in Rogue Nation, in cui apprendiamo che
l'agente MI6 britannico Solomon Lane (Sean Harris) ha preso un po'
troppo sul serio i suoi giochi di guerra – come a suo tempo i
cattivi de I tre giorni del Condor – e si dedica alla
destabilizzazione mondiale. Facciamo anche la conoscenza di Ilsa
Faust – un nome, un programma – anche lei agente dell'MI6
(interpretata dall'affascinante Rebecca Ferguson) nel pieno di doppi
e tripli giochi. Lavora per Lane? Lavora per l'MI6? Oppure ha altri
obiettivi? Alla fine Lane viene catturato, ma, come suggerisce
l'inconscio di Ethan all'inizio di Fallout, forse è
stato un errore lasciarlo in vita.
Il nuovo
film infatti ci rivela che il Sindacato non è morto, ma si è
evoluto in una nuova organizzazione chiamata gli Apostoli, gestita da
un fantomatico John Lark, che ha tra i propri obiettivi quello di
liberare Solomon Lane. Ed è di certo l'obiettivo meno
disastroso, dal momento che quando Ethan, insieme ai compagni Luther
e Benji, cerca di intercettare tre nuclei di plutonio nel corso di
una compravendita; ma li perde per proteggere i suoi compagni Luther
e Benji. Così il Sindacato potrà fabbricare altrettante
bombe nucleari da far detonare a piacimento (sì, come McGuffin
non è una novità). Oltretutto anche stavolta Ethan
viene sospettato di essere un traditore (pure questa non è
cosa nuova), per la precisione John Lark in persona.
A
funzionare nel film sono lo svolgimento della trama e il fatto che
tutto ciò che avviene è motivato da una logica basata
sui cinque film precedenti e dai nodi al pettine della continuity.
L'agente Hunt è sospettato proprio perché in passato
questo è già avvenuto più volte e la direttrice
della CIA (Angela Bassett) inserisce nella squadra IMF il proprio
agente August Walker (Henry Cavill, molto più duro rispetto al
suo Superman e al Napoleon Solo di Operazione UNCLE). La
missione è delicata: fallito il tentativo di catturare il vero
John Lark, Hunt si vede costretto a fare il doppio gioco,
infiltrandosi nel gruppo di mercenari che a Parigi si appresta a
liberare Solomon Lane. Ma non ci si può fidare di nessuno,
nemmeno dei presunti alleati: ognuno sembra avere una propria agenda,
che non coincide necessariamente con quella dell'IMF.
Come
dicevo, nodi al pettine. Dal secondo film, tra le caratteristiche
ricorrenti del protagonista viene inserita la sua passione per
scalate e acrobazie aeree, che non mancano in questo episodio. In
Protocollo Fantasma si era colta una strizzatina d'occhio al
primo film quando è riapparso il Contatto (Andrea Wisniewski)
che, come nel 1996 porgeva a Ethan un cappuccio prima di condurlo a
un incontro segreto; qui c'è un nuovo personaggio, la Vedova
Bianca (Vanessa Kirby), che scopriamo essere figlia
dell'intermediaria Max (Vanessa Redgrave) vista nel primo film e fare
più o meno lo stesso tipo di mestiere. In Rogue Nation
l'analista Brandt (assente in Fallout) è tornato a
lavorare a Washington DC fianco a fianco con il Segretario Alan
Hunley (Alec Baldwin) che ritroviamo in questo film. Così come
ritroviamo Ilsa Faust, sulla quale ancora gravano sospetti di doppio
gioco dall'episodio precedente; e Julia, l'ex-moglie di Hunt, che sta
cercando di rifarsi una vita e si ritrova invece coinvolta in prima
persona nell'operazione.
Dopo un
bell'intrigo gestito bene, si può accettare che la parte
finale del film consista nella classica corsa contro il tempo per fermare
l'apocalisse atomica nel Kashmir. Anche perché condita da un
efficace colpo di scena e incentrata su uno spettacolare duello tra
elicotteri, cui segue una scena d'azione in un crepaccio, del tipo
«tutto va storto nel modo peggiore peggior momento possibile».
Basti dire che, per una volta, persino l'inossidabile agente Hunt
avrà bisogno di cure ospedaliere.
Un altro buon lavoro di
Christopher McQuarrie, sceneggiatore e regista che, oltre a dirigere
il precedente episodio, ha collaborato più volte e in varie vesti con Tom
Cruise negli ultimi anni.
Cominciamo
da una riflessione musicale. Fatti i conti, nel 2018 sono ben
cinquantadue anni che si sente risuonare quel
tema, composto nel 1966 da Lalo Schifrin, nato a Buenos Aires nel
1932 ma cittadino americano del 1969, noto soprattutto per le sue
innumerevoli colonne sonore per cinema e televisione. E, ancora di
più, conosciuto per la sigla iniziale di Mission:
Impossible, destinata fin da
subito a una fama pari a quella del James Bond Theme di
Monty Norman e del Pink Panther Theme
di Henry Mancini, per restare nell’ambito di quello stesso
decennio.
A
dire il vero, in origine il brano dei titoli di testa dei telefilm
avrebbe dovuto essere diverso. Ma Bruce Geller, creatore di Mission:
Impossible, non era convinto e
suggerì al compositore di rielaborare un altro dei temi
scritti per l’episodio pilota. Nel 2010 lo spot pubblicitario di
una nota marca di tè immaginò Schifrin che ne
sorseggiava una tazza mentre scriveva una partitura... con musicisti
e strumenti di un’orchestra immaginaria che comparivano e sparivano
a seconda di correzioni e ripensamenti, fino a quando il brano si
configurava come quello ormai famosissimo di Mission: Impossible.
Per
tradizione gli episodi dei telefilm storici si aprivano con il tipico
trillo sopra l'inquadratura di una mano che dà fuoco a una
miccia; la fiammella scorreva orizzontalmente sopra un montaggio
rapidissimo di scene del particolare episodio (il che comportava
realizzare una sigla parzialmente diversa ogni settimana) prima di
passare alla presentazione del cast e all'apparizione del titolo
della serie sulle note finali.
Dal
1966 il title theme della serie (insieme
a un altro brano, intitolato The Plot)
ha accompagnato le sette stagioni di Mission: Impossible
(fino al 1974), le due stagioni di una successiva ripresa (dal 1988
al 1990) e i sei film dal 1996 a oggi. E non solo: il gruppo rock
King Crimson lo rielaborò in un passaggio di 21st
Century Schizoid Man del 1969,
mentre il regista spagnolo Alex De La Iglesia lo prese in prestito
per una scena del suo film fantasatirico Azione mutante
(1993). Ormai da una ventina
d'anni lo ritroviamo anche nelle suonerie dei cellulari.
Musica
a parte, la Mission: Impossible
televisiva era piuttosto diversa da quella di oggi, pur avendo creato fin dal
principio uno schema narrativo originale nell’ambito della spy
story,all’epoca
del massimo splendore del filone, ovvero gli anni
Sessanta. L'impossibile del titolo consisteva, per una squadra
di agenti statunitensi, nel concepire e attuare una strategia in cui
– mediante infiltrazione tra gli avversari, espedienti tecnologici,
disinformazione e apparenti doppi giochi – si creasse uno scenario
tanto opportuno quanto falso, che traeva in inganno gli avversari.
Che si trattasse di organizzazioni spionistiche o criminali,
l'obiettivo era di condurle all'autodistruzione o di portare alla luce
segreti di importanza vitale che non sarebbero mai stati rivelati in
circostanze normali.
Dal
primo episodio della serie cinematografica (1996), invece,
l’impossibile è
rappresentato principalmente dalla capacità dell’attuale
protagonista Ethan Hunt (Tom Cruise) di sopravvivere a imprese
acrobatiche e prove fisiche che ucciderebbero chiunque altro,
nell’arco di due ore e più di azione pressoché
ininterrotta. La chiave di tutto è divenuta la spettacolarità.
In un certo senso, il film peggiore sul piano della sceneggiatura è
anche quello più apprezzato sul piano estetico, vale a dire
M.I.-2, diretto nel
2000 da John Woo, il grande regista di Hong Kong. La trama è
ridotta all'osso e l'unico guizzo di originalità è,
purtroppo, identico a uno dei colpi di scena del preesistente romanzo
James Bond 007 – Obiettivo Decada (1998)
di Raymond Benson; vuoi perché certe idee sono nell'aria (a
volte capita che autori diversi scrivano qualcosa di molto simile,
ignari l'uno del lavoro dell'altro) vuoi perché è stato
copiato di sana pianta.
Ai
vecchi tempi le sequenze d’azione erano molto più contenute,
anche per la necessità di girare in tempi rapidi gli episodi
settimanali, e la durata di ciascun episodio si limitava a
quarantacinque minuti, con l’eccezione di un paio di storie divise
in due puntate, in seguito rimontate sotto forma di film da novanta
minuti: Mission Impossible versus The Mob (1968)
e Il serpente d’oro
(1989). Ma, curioso a dirsi, il contenuto di trama di un episodio tv
era pari o superiore a quello di un attuale film da due ore e oltre.
Una curiosità: Mission:
Impossible era inizialmente prodotta dalla Desilu, la casa
indipendente di proprietà della coppia di attori Lucille
Ball-Desi Arnaz (interpreti negli anni Cinquanta della sit-com I
Love Lucy, di enorme successo negli USA), che nello stesso
periodo lanciò un'altra serie di culto, Star Trek. Nel
1967 venne acquisita dalla Gulf+Western Company, proprietaria della
Paramount Pictures, che la trasformò nella Paramount
Television e continuò a realizzare entrambe le serie sotto il
nuovo marchio.
Sia nella gestione Desilu, sia in quella Paramount,
diversi interpreti di Star Trek apparvero in episodi di
Mission: Impossible, a partire da George Takei (il signor Sulu
dell'Enterprise), per poi proseguire con la prolungata partecipazione
di Leonard Nimoy (il mitico signor Spock, qui nella parte di Mr.
Paris) e chiudere infine con un'apparizione di William Shatner (il
comandante Kirk). Oggi le due serie, in versione cinematografica,
hanno di nuovo un interprete in comune: Simon Pegg, ingegner Scott in
Star Trek e Benji Dunn in Mission: Impossible.
È
anche da notare che nella M:I anni Sessanta lavorarono per la
prima volta insieme Barbara Bain (nel ruolo di Cinnamon Carter) e
Martin Landau (in quello di Rollin Hand), sposati nella vita e in
seguito protagonisti della serie britannica Spazio: 1999. Ulteriore curisosità di stampo familiare: nella ripresa della serie tv del 1988 fa parte del cast Phil Morris, figlio (come personaggio e nella vita reale) di Greg Morris, uno dei protagonisti delle stagioni originali, che qui riprese la sua vecchia parte come guest star.
Al centro delle vicende delle serie tv è un immaginario servizio segreto del governo
americano – indipendente tanto dalla CIA quanto dall’FBI e
operante sia all’estero, sia sul territorio degli Stati Uniti –
denominato Impossible Mission Force, in sigla IMF. In realtà nelle ultime stagioni degli anni Settanta molte operazioni si svolgono proprio in patria, ma solo per ridurre i costi di costumi e scenografie necessarie a ricreare paesi stranieri; mentre nella versione anni Ottanta le riprese sono effettuate in Australia, dove si girerà anche il secondo film con Tom Cruise.
Tornando al 1966, nella prima
stagione a dirigere le operazioni è un agente di nome Dan
Briggs (l’attore Steven Hill) mentre nella seconda l’incarico
passa a Jim Phelps (Peter Graves), che si vedrà in tutti gli
episodi fino al 1990 e si ripresenterà (interpretato però
da Jon Voight) anche nel primo film, al termine del quale le consegne
passeranno a Ethan Hunt.
Il
format originale prevede una serie di veri e propri rituali, talvolta
richiamati ancora oggi: il team leader
della Impossible Mission Force si presenta in un luogo che si rivela
essere una “buca
delle lettere”, come si dice in gergo,
spesso scambiando parole d’ordine con un contatto; quindi ha
accesso a un nastro (ma in qualche caso a un disco in vinile e, negli
anni Ottanta, un dischetto da computer) da cui riceve una serie di
istruzioni per la missione... “se decide di accettarla”.
Con un
tocco burocratico non estraneo allo stile dei servizi segreti, dopo
il briefing la voce – appartenente all'attore Bob Johnson, mai
apparso di persona nella serie ma presente in questo ruolo fino agli
anni Ottanta – precisa che, qualora uno dei membri della squadra
dovesse essere catturato o ucciso, il Segretario negherà
qualsiasi responsabilità del governo: è il concetto di
“negabilità plausibile” (spesso non poi così
plausibile) che vedremo applicato dalla CIA nella realtà,
specie ai tempi di Reagan, e che sarà rivelato dal giornalista
Bob Woodward nel suo libro-inchiesta Veil.
Nelle serie tv non si è mai saputo chi fosse il Segretario che
dirigeva dall'alto l'IMF, mentre nei film ne vedremo parecchi:
Anthony Hopkins, Laurence Fishburne (che però è
chiamato “direttore”), Tom Wilkinson e, oggi, Alec Baldwin.
Un'altra
pratica ripresa dallo spionaggio della realtà, pur con
modalità più fantasiose nella serie tv, è quella
che sempre Bob Woodward insieme a Charles Bernstein aveva portato
alla luce in un precedente libro-inchiesta, il celebre Tutti
gli uomini del presidente (da
cui l'altrettanto celebre film). Nello slang della CIA la tecnica
veniva chiamata ratfucking –
“intraffottere”, nel doppiaggio italiano – e consisteva
nell'uso attivo della disinformazione e dell'inganno allo scopo di
confondere le acque tra gli avversari. Nel mondo reale, per esempio,
il presidente Nixon e il gruppo di agenti CIA al suo servizio privato
compromisero la candidatura del potenziale rivale Edward Muskie alle
primarie del Partito Democratico in vista delle elezioni del 1972,
diffondendo una falsa missiva scritta sull'autentica carta da lettera
di questi.
Il
ratfucking della serie
tv è molto più sofisticato, anche sul piano
tecnologico. Include la creazione di maschere in grado di replicare
le fattezze di chiunque, curiosamente identiche a quelle in uso fin
dal 1962 nelle avventure di Diabolik; forse è questo il motivo
per cui nel film tratto da Mario Bava nel 1968 dal mitico fumetto
italiano e distribuito nel mondo dalla Paramount – già
allora titolare di Mission: Impossible
– né Diabolik né Eva Kant fanno mai uso delle
maschere, che sono invece una caratteristica irrinunciabile nelle
loro avventure.
Situazione
tipica: uno o più agenti dell'IMF si sostituiscono grazie alle
maschere ad alcuni avversari, agendo o facendo dichiarazioni che
creano scompiglio; così a volte sono le stesse spie straniere
a uccidersi a vicenda, tratte in inganno dai travestimenti. Altra
situazione ricorrente: per indurre un nemico a parlare, l'IMF lo
sequestra e lo porta nella realtà distorta di un set allestito
opportunamente, per indurlo a svelare segreti che non confesserebbe
mai sotto interrogatorio.
Quest'ultima
trovata può essere fatta risalire a un romanzo del 1959 di
Philip K. Dick, Time Out of Joint
(noto in Italia come L'uomo dei giochi a premio,
Tempo fuori luogo e
Tempo fuor di sesto).
Non dev'essere un caso se il grande autore americano di fantascienza
propose nel 1967 un ottimo trattamento per un episodio della serie
che, purtroppo, venne rifiutato, forse perché, malgrado i nomi
di luoghi e personaggi fossero fittizi, aveva chiari riferimenti alla
politica di Cuba e alle figure di Fidel Castro e soprattutto di Che
Guevara, ucciso proprio in quell'anno. Gli avversari dell'IMF tv non
erano mai identificabili con un paese preciso e le missioni
all'estero si svolgevano – anche qui un po' come i fumetti di
Diabolik – in luoghi
del tutto immaginari: in genere paesi dell'Est europeo dalla lingua
ibrida, mentre al posto dell'URSS si nominava un'immaginaria EEPR
(East European People's Republic).
Non
va trascurato inoltre che il Time Out of Joint di Dick precede
anche un appassionante film di spionaggio del 1964: Le ultime
trentasei ore, diretto da George Seaton e liberamente ispirato a
un racconto di Roald Dahl. Nella storia originale, un pilota alleato
durante la Seconda guerra mondiale si risveglia in terapia dopo
essere stato abbattuto e comincia a domandarsi se sia stato davvero
recuperato dai suoi, oppure non si trovi invece prigioniero dei
nazisti nella replica di una stanza di ospedale; non ci viene data
risposta, mentre nel film il protagonista è un agente
americano (James Garner) che ha perso conoscenza dopo un'aggressione
a Lisbona; si risveglia in una clinica per veterani alla fine della
guerra... o così sembra, perché ben presto si rende
conto che la guerra è ancora in corso è l'ambiente che
lo circonda è un'elaborata messinscena dei nazisti per indurlo
a lasciarsi sfuggire i segreti di cui è a conoscenza, credendo
che ormai tutto sia già avvenuto; a questo punto l'unica
possibilità è la fuga. E, per chi è appassionato
di serie televisive, è inevitabile l'associazione di idee non
solo con Mission: Impossible ma
anche con Il Prigioniero
(1967-68). Lo stesso concetto, ancora più vicino all'idea
originale di Philip K. Dick, ispira fortemente il film di Peter Weir
The Truman Show (1998),
che a sua volta richiama l'episodio A World of Difference
(1960) della serie tv Ai
confini della realtà.
Un film il cui titolo nella distribuzione italiana, Paradise Beach – Dentro l’incubo, può creare equivoci, se si fa caso solo alla parte che precede ul trattino, laddove il titolo originale significa, più semplicemente, "le secche" (ma in italiano sarebbe stato frainteso). Uscito con un discreto successo nell’estate 2016, è un’ottima variazione sul filone degli squali, in cui il tema non è quello della caccia, bensì quello della pura sopravvivenza individuale.
Nancy Adams (Blake Lively), studentessa texana di medicina, compie una sorta di pellegrinaggio alla spiaggia messicana senza nome in cui venticinque anni prima sua madre scoprì di essere incinta. Il regista iberico Jaume Collet-Serra si serve di unespediente già da lui stesso impiegato nel bel thriller Non-Stop con Liam Neeson e Julianne Moore - sovrapporre alle immagini il display di un cellulare - per raccontare tra fotografie e videochiamate i retroscena della vacanza: la ragazza ha lasciato l’università, in crisi dopo la malattia e la morte della madre. L’aspetto umano della protagonista viene presentato con sobria concisione in brevi ma significative pennellate.
Sono in pochissimi a conoscere le spiaggia, paradiso per i surfisti locali che mantengono il segreto. Nancy prende la tavola. Ma, fatalmente, si avvicina troppo alla carcassa di una balena sotto la quale banchetta invisibile uno squalo gigantesco. Lei gli sfugge per miracolo, a prezzo di uno squarcio a una gamba che dovrà medicarsi da sola con mezzi di fortuna, dopo essersi rifugiata su uno scoglio di cui, con l’alta marea, resta emersa solo la sommità.
E adesso?
La spiaggia è vicina, ma non abbastanza da battere lo squalo sul tempo. Il telefono è nello zaino a riva, l’area è deserta, nessuno può intervenire. Ma Nancy non si arrende, anche se qualsiasi mossa faccia provoca un attacco immediato da parte dell’avversario. Deve giocare d’astuzia, calcolare i tempi e le distanze, e sfruttare il poco che ha a disposizione.
La forza del film, scritto in modo essenziale da John W. Richardson e Chris Roach (stesso duo di Non-Stop), ben diretto e ben interpretato, è proprio il confronto tra un’eroina solitaria, in scena ininterrottamente dal principio alla fine, e una forza della natura nettamente superiore a lei. C’è persino un tocco stile Il vecchio e il mare, cosa insolita per un thriller estivo a base di squali. Il che dimostra che, quando si ha talento, si può prendere un soggetto prevedibile e farne una bella storia.