Considerazioni di Claudia Salvatori
E
voi, quanti attori avete distrutto, come avete distrutto me?
(Oscar
insanguinato)
Uno
dei primi segnali inglobati nel corpo della fiction della distruzione
dell'attore potrebbe arrivare nel 1973 da Oscar
insanguinato (1).
Per
attore intendiamo qui l'interprete del deviante, del disuguale,
dell'assassino, del mostro, del pazzo, dell'alieno o alienato, di chi
diverge nella mente, nella sfera emotiva e negli ideali, di chi
disturba quelle certezze sociali che basta solo sfiorare e
leggermente destabilizzare per scatenare panico e furore
incontrollato.
È
questo l'artista su cui sta calando la scure di una feroce esecuzione
mediatica, al termine di un processo che è durato per tutto il
secolo scorso e in cui abbiamo assistito alla distruzione della
scrittura, della pittura, della musica e di ogni altra arte. Il
medium carismatico dei nostri terrori da esorcizzare, un aspetto di
quello che una volta era lo sciamano, il Grande Attore.
Sono
molti gli interpreti di mostri che meriterebbero attenzione, ma qui
ci occuperemo di tre di loro, due morti e un disperso. Tre attori
diversi fra loro per età, formazione, stile e contesto in cui
si sono mossi, ma che hanno in comune alcuni elementi chiave: immenso
talento, intelligenza, cultura, ironia, versatilità, una
profonda consapevolezza
di sé, del sé che manifestano su palcoscenici e
schermi, e della differenza fra le due cose. Oltre
all'impossibilità di essere collocabili in una forma
definitiva, di rendersi per amore o per forza prevedibili.
All'interesse per altre forme d'espressione, che siano il
collezionismo d'arte o la musica, la scrittura o la regia. Al fascino
che li rende amabili quanto più i loro personaggi sono odiosi.
E alla capacità, quando serve, di essere divertentissimi.
Non
potremo ripercorrere l'intera loro sterminata filmografia
(occorrerebbero tre volumi), ma tenteremo di ricostruire da indizi
sparsi, come se fossimo sulla scena di un crimine, i loro percorsi
esistenziali e professionali, il senso di quello che ci hanno detto e
donato.
Chi
recita la battuta tratta da Oscar insanguinato
è Vincent Price, nato nel 1911, che qui interpreta un
personaggio scritto (cucito) su di lui: è un grande attore
shakespeariano di teatro. Rovinato dai critici e recensori (oggi si
direbbe haters),
spinto al suicidio, sopravvive e si vendica dei nemici uccidendoli
uno dopo l'altro nelle modalità in cui vengono compiuti i più
efferati omicidi nelle tragedie di Shakespeare.
Ecco
dunque un esempio di come si realizza l'unione tra film horror e
cultura alta, fra intrattenimento popolare e patrimonio letterario
internazionale. Sulla stessa linea i film di Roger Corman
interpretati dallo stesso Vincent, pastiche
che adattano per lo schermo i racconti di Poe. E anche La
città dei mostri (2), in
cui Poe e Lovecraft sono mescolati e amalgamati, e Vincent si trova
alle prese con il Necronomicon.
Ma non dobbiamo dimenticare che questi film, oggi di culto, sono
b-movie al tempo in cui vengono realizzati, al punto che per
produttori, registi e attori (incluso lo stesso Vincent Price) sarà
necessario un “recupero” e una “rivalutazione”.
Dopo
un esordio giovanile in ruoli “normali” da marito, fidanzato o
amante, perfino seduttivo grazie alla presenza scenica e alla nobiltà
della figura, dopo ruoli da “buono” e dopo aver interpretato un
prete ne Le chiavi del paradiso (3),
a Vincent viene irrimediabilmente assegnata la maschera del perfido e
malvagio, ed è così che lo ricorderemo per sempre:
basta pensare alla sua mimica facciale nel ruolo del capocantiere
egizio (destinato a essere ammazzato da Mosè) ne I
dieci comandamenti (4),
o nel ruolo del sacerdote (sempre egizio) in Nefertite
regina del Nilo (5).
Viene
da domandarsi perché.
La
vita reale, come il cinema, è un gioco di ruolo, uno
sterminato e onnipervasivo casting in cui si recita, scegliendo
l'immagine e i comportamenti più favorevoli da presentare al
pubblico; ma perlopiù non ci si può sottrarre
all'essere scelti per
interpretare un determinato personaggio sociale. Vengono proiettate
su di noi la mente e l'identità segreta
degli altri, e lo sguardo degli altri è in grado di
condizionarci con paurosa potenza, talvolta rendendoci estranei a noi
stessi.
Questo
vale ancor più per la realizzazione di un film, in cui sono in
gioco grandi investimenti in denaro, fortissime ambizioni e
spesso inesplicabili, deliranti tensioni.
Un
attore proietta dallo schermo la proiezione che una collettività
ha effettuato su di lui/lei.
Non
è un gioco di parole. Tutta la fortuna o sfortuna critica di
un attore e perfino certe conseguenze sulla sua vita privata stanno
nel suo modo di gestire questa proiezione, da come la manipola
accettandola o smentendola, dibattendovisi dentro rabbiosamente o
adattandovisi con complicità, fuggendone o usandola per
provocare, soffrendola o rigettandocela in faccia con sfida.
Vincent
Price ha deciso di giocarci, riderne e far ridere.
Per
questo in una delle sue interviste può ben dichiarare che the
most terrifyng line I ever sayed in my life is BUH! (la
battuta più terrificante che ho mai pronunciato nella mia vita
è BUH!).
Tutti
devono poter dire ai loro amici quanto è divertente essere
spaventati a morte!
(La
maschera di cera)
Il
ruolo tipico di Vincent (con le varianti di tiranno, inquisitore,
stregone, morto vivente, colpito da maledizione) è quello di
un suicida, o suicidato, o assassinato, che risorge sfigurato nella
mente o nel corpo e si trasforma in serial killer.
Ne
La maschera di cera
(6), molti elementi prefigurano tragicamente la distruzione
dell'attore: i volti dei manichini di cera (di assassini e
assassinati) che si sciolgono, moltiplicazioni dello stesso volto di
Vincent, loro creatore, che segue la loro sorte e diventa materia
molle sotto l'azione del fuoco. Distrutto l'estroso e buono scultore
del macabro, resta soltanto un folle assassino che porta una maschera
da uomo “normale” (la maschera del suo vero volto di un tempo) e
riempie il nuovo museo di cadaveri ricoperti di cera.
Nel
fantasmagorico, musicale L'abominevole Dottor Phibes
(7), il volto di Vincent è un nudo teschio, e lo stesso
incidente che gli ha distrutto le sembianze gli ha tolto anche la
voce. È un grande organista e un mago della meccanica, e
dirige un'orchestra di automi musicisti. Il suo operato è
quello di un serial killer vendicatore che uccide con le piaghe
bibliche d'Egitto (ancora l'Egitto!) gli assassini della moglie.
Forse
è questo il film che fornisce l'indizio rivelatore
dell'utilizzo di Vincent Price nelle produzioni horror di nicchia:
nel finale, compiuta la sua missione, si seppellisce automummificato
insieme alla sua Regina in un sarcofago d'oro come un re egizio
solare, per vivere con lei nell'eternità. Sarà per
quella certa sua aria di antica regalità? Il re, nel mondo
moderno, va punito; gli si ridisegna sul volto una maschera da
buffone, da vizioso, da idiota o da cadavere.
Ma
lui gioca sempre: gli basta sollevare un sopracciglio e l'angolo
delle labbra per trovare l'esatto equilibrio fra orrore e
divertimento, fra calarsi nel suo ruolo e insieme prenderne la giusta
distanza. Bisogna ascoltare la sua risata “satanica” al termine
del lungo recitativo che fa da intro
a Thriller di Michael
Jackson per capire tutto. Si ride insieme a lui, irresistibilmente.
Ma
qual è il tipo di orrore, il tipo di Male che Vincent
trasmette attraverso la proiezione da orco operata su di lui? È,
appunto, un Male che viene dalla fiction del tardo Ottocento, dalle
fiabe etniche, dalle antiche saghe e dagli spaventi primitivi
dell'umanità. È un terrore from beyond,
per citare un titolo di Lovecraft: dall'oltre, dall'altrove,
dall'inconoscibile. L'orco nella foresta, il vampiro nel castello,
l'alchimista nel suo antro pieno di alambicchi e la creatura
innominabile che ne striscia fuori, l'artista che turba con il suo
virtuosismo diabolico.
Vincent
Price è la nostra infanzia e ci incute paura perché
siamo bambini. Riflette un tipo di società ancora ingenua e
coesa, ancora sufficientemente convinta della propria salute, pur se
in preda alle erosioni epocali.
Lo
ha ben capito Tim Burton, che gli ha dedicato il suo primo
cortometraggio, Vincent.
È lo stesso Burton il bambino che muore di paura perché
crede di essere
Vincent Price: ma naturalmente da quel tipo di morte si risorge ogni
volta che si esce dal cinema.
Tim
Burton lo vuole nel ruolo dell'Inventore in Edward mani di
forbice (8). Qui Vincent ritorna
al suo originario reame di fiaba e appare irreale, diafano,
ultraterreno: un Frankenstein dal sorriso sempre sghembo ma dagli
occhi pieni di luce, che dà vita a un essere puro, portatore
di bellezza e bontà, e muore prima di potergli dare mani
umane. Come Molière, recita in scena la propria morte poco
tempo prima di andarsene davvero, e sembra che stia per ascendere al
cielo.
Quasi
una glorificazione postuma anticipata.
Meno
glorioso, e più spento e stanco, come appiattito, appariva una
decina d'anni prima nel metalinguistico La casa delle ombre
lunghe (9), in cui recitava
insieme alle altre icone dell'horror: Christopher Lee, Peter Cushing,
John Carradine. Ormai Vincent, che aveva citato se stesso per tutta
la vita, era stato raggiunto dai postmoderni citazionisti. Il film,
pur restando una delizia per l'intelletto, è una serie di
ricalchi, incastri e scatole a sorpresa: sia Vincent che i suoi
colleghi si comportano come bambini offesi a cui hanno rubato e
guastato il giocattolo da loro costruito.
Del
resto, nell'ultimo ventennio della sua carriera, Vincent Price era
scivolato sempre più a fondo nella parodia, sia dei suoi
vecchi ruoli che di nuovi personaggi, come il villain
antagonista dell'agente segreto in Dr. Goldfoot e il nostro
agente 00¼, (10) girato
in America e introducing Franco and Ciccio,
e il suo seguito italiano Le spie vengono dal semifreddo
(11), sempre con Franco Franchi
e Ciccio Ingrassia.
Non
c'era più posto per il tipo di paura che Vincent incarnava,
per il mostro che viene da un altro mondo.
Siamo
chiusi del passato. Il destino ha negato alla nostra famiglia un
futuro.
(La
casa delle ombre lunghe)