venerdì 16 giugno 2023

Iperwriters - Magia verde

Photo: Nareeta Martin on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 23 - Magia verde

Venerdì, ore 13.
Sono sceneggiatrice di fumetti, anche se nessuno lo sa. All'anagrafe, per rinnovarmi la carta d'identità, l'impiegato deve andare a cercare "sceneggiatore" in un apposito elenco: in seguito avrei attribuito l'aneddoto a Marino Strano, protagonista del mio Superman non muore mai. Se la professione non fosse stata nell'elenco, non sarei esistita. Nel mio quartieraccio nessuno sapeva che si potesse diventare sceneggiatore. Sceneggiatrice? Una ragazza era appena arrivata dalla Luna.
Questa situazione mi irritava, ma in un certo modo mi esaltava, in quanto prometteva una clamorosa rivincita quando sarei stata scoperta. Non sarei stata scoperta: ho continuato a navigare incognita fino a quando non sono diventati sceneggiatori tutti. A quel punto non c'era più nulla da scoprire.
Mi vengono i brividi quando penso alla leggerezza con cui volavo in quel nuovo e adrenalinico mestiere, affrontando tutte le sfide, accettando tutte le offerte, cimentandomi in ogni genere narrativo: thriller, noir, fantascienza, storico, western, fantasy, commedia, dramma.
Mi fanno paura le attuali scuole di fumetto, i corsi di scrittura creativa che durano settimane, ma anche mesi o anni. Anni a imparare l'ingegneria della fiction.
Il mio metodo di lavoro all'inizio degli anni '80 consisteva in questo: quando dovevo scrivere per un certo editore o una certa testata mi procuravo (o mi venivano forniti in studio) pacchi e pacchi di pubblicazioni in tema. E leggevo per ore, per giorni. Leggevo fino a quando non sentivo di aver metabolizzato quella che potrei chiamare l'anima di quella forma, stile e linguaggio. Il processo di assimilazione era molto piacevole, per nulla razionale. Razionale e invece faticoso era ricreare quell'anima, facendola passare attraverso la mia chimica personale. Riuscire era un'esperienza di grande appagamento. L'idea sembrava arrivare dal Cielo.
Sceneggiavo già da più di quindici anni e avevo già pubblicato cinque romanzi quando, in una convention di sceneggiatori Disney, ho ascoltato la mia prima lezione di scrittura creativa.
Comunque, il mio atteggiamento verso il lavoro resta tuttora magico. Non è magia bianca, perché un po' di nero nel mestiere di scrivere scorre sempre. Ma non è neppure nera, e tantomeno rosa.
Potrebbe essere magia verde, la magia della natura. Quella che fa crescere le piante.


venerdì 2 giugno 2023

Iperwriters - Sola, ma non al comando

Photo: Andreas Dittberner on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 22 - Sola, ma non al comando

Venerdì, ore 13.
Per sfortuna ho incontrato colleghi e intellettuali borghesi che, non avendo le mie capacità, mi hanno rimproverato di “non aver scelto” i fumetti e i gialli. Solo perché avevo avuto il candore di confessare che mi erano capitati.
Se fossi stata una tranquilla femminista della loro casta, avrei avuto le migliori scuole, i corsi di formazione all'estero, tutte le opzioni e gli strumenti per scegliere. Ma ero una cagna randagia, e per giunta parecchio bastonata.
Tra i venti e i trent'anni ero una pietra rotolante e non controllavo la mia vita. Avevo una vaga idea di diventare giornalista per vivere scrivendo. I fumetti erano meglio: preferivo l'invenzione alla cronaca.
Ho colto al volo un'opportunità, lanciandomi dove per altri fare un passo sarebbe stata follia. Nessuno lo avrebbe fatto. Tutti, tutti miravano alla stabilità: sia in alto che in basso. Ma era proprio questo a spingermi avanti.
Ero l'unica a sceneggiare fumetti. Nel mio quartiere, nella mia città e regione. In Italia esistevano pochissimi sceneggiatori donne (a parte le mitiche sorelle Giussani, che avevano una casa editrice ed erano padrone del loro lavoro).
Ero sola. La sola.
Inoltre, tutto quello che sapevo fare al mondo era decodificare e ricodificare strutture narrative. Ed ecco che un lavoro unico veniva creato per me, rendendomi unica. Per salvarmi, per permettermi di sopravvivere. Perché potessi scrivere in una stanza, senza perdere la salute mentale a contatto con gli umani.
Non sono furba, non sono una cialtrona, e neppure una puttana (per quanto mi abbiano spesso trattata come tale). Per risparmiarmi molte sofferenze dovevo restare sola, e allo stesso tempo rendermi indipendente. Non c'era da esaltarsi, da credere perfino in un intervento divino?
Neppure all'Università sapevano cosa fosse una sceneggiatura. Non capivano che cosa facessi. Non lo capivano neppure dopo che lo avevo spiegato, come se non avessi neppure parlato. Non sapevo se arrabbiarmi o ridere.
Comunque in quel primo anno, sfornando soggetti e sceneggiature per le testate della Lancio e della Universo, non me ne importava. Ero in uno stato di felice e avventurosa ubriacatura.



mercoledì 31 maggio 2023

Spy Game incontra Giovanni Ingrosso


Giovanni Ingrosso

Spy Game incontra...

Continua su Borderfiction Zone la serie di incontri con gli autori della collana in ebook di Delos Digital Spy Game – Storie della Guerra Fredda. Dopo Enzo Verrengia, parliamo con Giovanni Ingrosso, entrato a far parte della squadra nel 2023, ma ormai da anni autore di narrativa di spionaggio, oltre che esperto dei suoi retroscena storici.

Giovanni Ingrosso, l'indagatore della Guerra Fredda

SG: Benvenuto tra gli autori di Spy Game. Abbiamo conosciuto il tuo nuovo protagonista, ex partigiano e funzionario dei servizi segreti italiani negli anni Settanta, negli episodi Ufficio R e L’oro del lago, prime due parti di una trilogia che si conclude con L’uomo di Cambrige e della quale stai già preparando il seguito. Presentaci la tua serie e il tuo protagonista.

GI: Quando Cappi mi ha offerto di collaborare a una collana di spionaggio, il mio cuore ha fatto un salto. Ho pensato che era un bellissima occasione per entrare nel mondo delle “Storie di Frontiera”, il mondo di Andrea Carlo Cappi, Andrea G. Pinketts, Alan D. Altieri, Stefano di Marino, senza dimenticare Ferdinando Pastori, Sergio Rilletti e gli altri autori conosciuti agli incontri di Borderfiction all’Admiral Hotel di Milano.
Una simile occasione richiedeva un approccio di lusso. Ho pensato prima di tutto a un personaggio diverso dal solito agente segreto, più sul genere Le Carré che sul genere Fleming. Un personaggio che guarda da fuori le storie e poi le racconta. Ho scelto il cognome di un famoso sceneggiatore come Zavattini, che rappresentava esattamente questo. Poi ho pensato che con quel cognome doveva per forza essere di Pennabilli e di conseguenza avere gusti da romagnolo: pane, mortadella e lambrusco. Ho cercato di raccontare uno qualunque, che fa la spia per i casi della vita e non per vocazione… Ma attenti: Zavattini non è un fessacchiotto, quindi da lui ogni tanto c’è da aspettarsi qualche colpo di genio, da vero professionista, e una profonda, prudente conoscenza del mondo in cui si muove
Ma Zavattini è anche il testimone di un’epoca della storia italiana coincidente con la Guerra Fredda, in cui i servizi segreti, nostri e altrui, hanno imperversato sul nostro povero paese. Così ci sono la strana morte di Adriano Olivetti e quella fin troppo annunciata di Mattei; il terrorismo, rosso e nero, ma forse figlio della stessa matrice; e lo scontro tra i servizi segreti del mondo Mediterraneo, dal Mossad alla PIDE portoghese, dalla SDECE francese al SIFAR italiano, dalla strage di Bologna a quella di Ustica. Queste storie sono state narrate mille volte, sempre in modo ambiguo e senza conclusioni. Io le racconto senza proporre una "verità vera", che non conosce nessuno che sia ancora vivo, bensì ipotesi che potrebbero anche essere vere, basate su quello che si sa e su quello che si può verosimilmente immaginare.


SG: la Guerra Fredda è spesso lo scenario delle tue storie di spionaggio.

GI: Io nella Guerra Fredda, come molti babyboomers come me, ci sono vissuto, e anche nella “Notte della Repubblica”, una notte annunciata e che nessuno ha voluto illuminare. Ricordo il botto sinistro dell’attentato di piazza Fontana, udito da chilometri di distanza mentre giocavo a pallone in un campetto di periferia. Ricordo la reazione collettiva, stupita, alla notizia del sequestro Moro, arrivata mentre facevo l’esame di economia dello sviluppo con la professoressa Lenti Targetti all’Università di Pavia. La Guerra Fredda è stata come un rumore di fondo dei primi trent’anni della mia vita e mi piace raccontarli, infilandoci dentro anche tante note nostalgiche di un costume che, piaccia o no, ha influenzato per anni il paese dove sono nato.

SG: Com'e stata la tua iniziazione alla spy-story?

I miei interessi per la spy story risalgono alla mia adolescenza. Sono partito con James Bond, che somiglia più a un “avventuriero e un pirata” che a una vera spia. Ma è stato un’ icona della mia gioventù e di un consumismo ancora alle origini, che sarebbe diventato quello delle Barrow’s, delle cravatte di Hermès e dei Ray Ban. Più che altro un modello di stile, piuttosto che un esempio di agente segreto.
Ho sempre legato la passione per le spy story a quella per la storia politico-militare e infatti i miei libri sono veri e propri manuali di storia dell’epoca che descrivo. Ci metto tutta la precisione possibile, cerco accuratamente di evitare ossimori e anacronismi; le descrizioni di oggetti, abbigliamento e ambienti cercano sempre di essere molto accurate, e sono parecchio influenzate da Ian Fleming.

SG: Come sei diventato autore di spionaggio?

GI: Ho cominciato a scrivere tardi, avevo più di cinquant’anni ed era il 2007. Feci un corso di scrittura creativa con Paolo Roversi: avevo pubblicato la mia tesi di laurea in Scienze Strategiche, ma scrivere romanzi è un’altra cosa. Sono partito subito con un romanzo di spionaggio sulla Guerra Fredda, Zsuzsana, e lì dentro ci ho messo tutti gli autori che avevano influenzato i mei gusti letterari, da Alistair McLean a Frederick Forsyth, da Tom Clancy a Ken Follett. In realtà i miei sono più romanzi di azione che spy story alla John Le Carré o alla Graham Greene.
Un autore di noir – non esattamente un autore di spionaggio – che mi ha influenzato è stato Don Winslow con il suo Il potere del cane, che mi ha spinto a scrivere Gli Illuminati: Uragano sui Caraibi. Io però, al contrario di Winslow, tendo all’happy end o magari al finale a sorpresa, come in See You in Budapest, un’avventura alle soglie dell’era nucleare.

SG: Qual è il tuo approccio a questo genere?

GI: I miei personaggi maschili non sono mai supereroi alla James Bond, ma più spesso sono vittime del destino che li scaraventa in mezzo alle vicende drammatiche della storia – alla George Smiley – e che rispondono come possono, ma quasi sempre sanno arrangiarsi, perché non sono degli stupidi. 
Poi ci sono le donne: le mie “personagge” invece sono sempre determinate, sanno gestirsi da sole; spesso sono madri e non somigliano mai alle... mezze zoccole in estasi di fronte al maschione supereroico. Questo mi succede probabilmente perché ho sempre incontrato soprattutto donne che, ho dovuto ammettere, erano migliori di me, almeno quelle che sono state importanti nella mia vita. Infine ci sono i cattivi: mai cattivissimi, anche loro spesso più vittime che aguzzini.
Nelle mie storie la violenza è sempre limitata al necessario, così come le scene di sesso. Una volta Pinketts mi definì "una specie di Liala". Lui aveva un modo strano di fare i complimenti, ma francamente non mi dispiacerebbe avere lo stesso successo di Amalia Liana Negretti Odescalchi alias Liala, che sapeva azzeccare i gusti dei suoi lettori in tempi in cui a scrivere dovevi essere davvero bravo e non c’erano le E.L. James e le Cilizie Gurrado, con alle spalle uno stuolo di editor o un padre giornalista. Inoltre nei miei romanzi infilo personaggi realmente esistiti: personaggi storici come Malenkov e Chruščëv, o Ettore Maiorana e spessissimo Ian Fleming.
Io scrivo perché mi diverto, perché scrivere è come fare una seduta di psicanalisi, e scrivo perché spero di incuriosire i miei lettori sui mondi che descrivo. Non scrivo solo romanzi ma anche saggi, per esempio Un conflitto lungo 50 anni, anche questo sulla Guerra Fredda, sulle sue cause e sulle sue origini.


SG: Hai un ricordo di Stefano Di Marino, fondatore della collana Spy Game in cui lui stesso, prima di lasciarci, ha pubblicato la miniserie che ne stabiliva le regole?

GI: Nell’invitarmi a collaborare a Spy Game, Cappi mi ha fatto un enorme complimento, dicendomi che in qualche modo prendevo il posto di Stefano Di Marino, cosa molto difficile. Ho incontrato più volte Stefano nelle serate di Borderfiction. Non ho avuto l’occasione di conoscerlo a fondo, ma mi sarebbe piaciuto molto. Ricordo la sua conoscenza approfondita della letteratura noir, del fantastico e di molto altro, la sua ironia da liceale indisciplinato, il suo non troppo letterario interesse per Lisa Ann, nota diva di un mondo in un certo senso fantasy .
“A noi piace farci le saghe”, disse una volta, con la sua ineffabile espressione di ragazzino che ne ha fatta una delle sue, mentre raccontava di un qualche lavoro forse fatto con Alan D. Altieri, altro genio di questo genere, che grazie a Borderfiction ho avuto il piacere e l’onore di incontrare. Stefano era bravissimo a nascondere i suoi dolori, fisici – le sue ginocchia erano un disastro a causa della sua passione per il hickboxing, “contratta” in Estremo Oriente – e dell’anima. La sua morte ha colpito tutti come uno schiaffo ricevuto di sorpresa.
Così ho intrapreso questa avventura nello Spy Game. Ne approfitterò per raccontare, romanzandola, la storia di un paese, il mio, che è stato la vittima di potentati stranieri, ma soprattutto di una classe dirigente incompetente, ignorante ed egoista fino al masochismo.

venerdì 19 maggio 2023

Iperwriters - Viva l'Inghilterra

Photo: Shawnanggg on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 21 - Viva l'Inghilterra

Venerdì, ore 13. A sedici anni, incastrata in un Bronx culturale italiano, volevo fuggire in Inghilterra. Perché proprio l'Inghilterra? Era stata governata con successo da donne, e da lassù spirava un vento di libertà. Mi appariva allora tutto quello che non era l'Italia.
A diciotto anni, a venti, a trenta, ancora desideravo espatriare.
Perché non l'ho fatto? Il mio talento, se è un talento e se lo possiedo, sta nella narrazione. Se avessi fatto musica, cantato, danzato o dipinto avrei avuto modo di comunicare in un linguaggio universale. Avrei potuto soffrire per qualche tempo proponendomi e partecipando ad audizioni, o facendo l'artista di strada. Soffrire per un tempo ragionevolmente breve.
Ma il mio strumento era la lingua italiana. A volte mi domando se, emigrando negli anni '70 e facendo la cameriera per un ventennio, impadronendomi di un'altra lingua e scrivendo di notte, sarei alla fine riuscita. Il mio immaginario, le mie scelte di stili e contenuti sono più britannici che italiani, ma anche sul mercato di lingua inglese avrei potuto scontrarmi con ostacoli imprevedibili. Comunque, non avrò mai una risposta.
Ero condannata alla sorte di tutti gli scrittori italiani: vendere abbastanza per poter essere notata da agenti ed editori stanieri. Non ho mai raggiunto questo traguardo. Ci sono andata vicina forse nel 2010 in circostanze che racconterò più avanti, ma troppo tardi: ormai era arrivata la fine del mondo.
E così, eccomi a sceneggiare fumetti, alla fine del '79, a ventiquattro anni.
Ed ecco la mia prospettiva: tentare la scalata all'interno di un paese nemico per vincere. Avevo una fede incrollabile nelle mie capacità, e poi... pareva che l'Italia avesse intenzione di progredire.
Il mio percorso di vita e lavoro è stato (in anticipo) quello dei ragazzi delle generazioni successive e dei millennials: precariato, incarichi saltuari e marginali sottopagati, lunghi periodi di disoccupazione, insicurezza e perenne lotta per la semplice e cruda sopravvivenza.
Ma d'altra parte, guardandomi indietro, devo ammettere che, sapendo solo ideare correzioni della realtà, essere approdata a quell'agenzia di fumetti, quando ero praticamente sull'orlo del baratro, è stato un miracolo.
E che, malgrado tutto il male, ogni evento successivo della mia vita è stato da miracolata.

venerdì 12 maggio 2023

Spy Game incontra Enzo Verrengia - 2

Enzo Verrengia durante un incontro pubblico 

Spy Game incontra...

Dopo la prima parte dedicata alla sua visione della spy-story, ecco la continuazione dell'intervista di Spy Game allo scrittore Enzo Verrengia. Vediamo ora anche il suo lavoro di autore in altri settori e la sua passione per la narrativa di genere in molte forme.

Enzo Verrengia, autore poliedrico

SG: Tra i tuoi libri più recenti c'è anche un romanzo con Sherlock Holmes, pubblicato in edicola e ebook nella collana Sherlock de Il Giallo Mondadori, dedicata alle rivisitazioni del celebre detective di Sir Arthur Conan Doyle.

EV: Sì. Anche quella è la realizzazione di un sogno. Adoro Holmes, e da quasi venti anni ho la fortuna di avere dei familiari a Londra: la sorella minore di mia moglie e sua figlia, la mia nipotina adorata. Quindi ormai la capitale britannica non ha quasi più segreti per me. A ciò si aggiunga la mia passione per l’Età Vittoriana e la monumentale biblioteca dedicated che possiedo.
Sherlock Holmes e la formula di Hyde inoltre riprende il background de L’eredità di Hyde, un mio romanzo uscito nel 2013 da Piemme. Anche qui, vi sono molti sconfinamenti nella spy-story, dato che c’è in ballo Mycroft, il fratello maggiore di Sherlock, notoriamente implicato nella diplomazia segreta con il Club Diogene, paravento del Secret Service vittoriano ed edwardiano.


SG: Hai scritto anche sceneggiature per Martin Mystère, detective dell'impossibile, la celebre serie a fumetti creata da Alfredo Castelli per Sergio Bonelli Editore.

EV: Sì, una storia sul misterioso incidente che provocò la distruzione del dirigibile Hindenburg, un caso che mi appassiona da tempo, insieme al rapimento e
all’uccisione del figlioletto di Charles Lindbergh. Sempre per Martin Mystère, ho scritto il soggetto di un’avventura in cui compare Jules Verne che viaggia nel tempo. Le sceneggiature a fumetti mi piacciono moltissimo e spero di poter farne altre.


SG: Ma le tue esperienze come autore sono ancora più estese...

EV: Decisi di fare lo scrittore in quinta elementare, quando cominciai a scrivere un romanzo di fantascienza scopiazzato da Ultimatum alla Terra, che avevo visto in televisione. Poi, col tempo, mi evolvevo man mano che crescevo. Negli anni ’70 volevo scrivere thriller erotico-intellettuali che mescolavano il clima dei film alla Dario Argento con certa morbosità altoborghese ripresa da Metti una sera a cena.
Infine, cominciai a lavorare da esterno per la RAI, con regie radiofoniche e apparizioni televisive in sketches commissionatimi all’interno di programmi contenitore come Domenica In. Questo mi insufflò una vena comica da cui venne fuori un mio libro che ebbe un certo successo, La notte degli stramurti viventiraccolta di parodie di noti film di fantascienza tarati sull’accento pugliese e meridionale in genere. Valse a segnalarmi per qualche antologia come Miguel son sempre mi, dove applicavo lo stesso meccanismo ai più celebri spot. Sta di fatto che l’ironia e l’umorismo mi caratterizzano parecchio specialmente quando presento dal vivo i miei libri. Faccio battute graffianti che colpiscono l’uditorio perché contrastano con la mia faccia da impiegato fantozziano di una volta.


SG: Ci sono state influenze del tuo lavoro come traduttore su quello di scrittore o viceversa?

EV: Prima di inziare a leggere quasi esclusivamente in inglese, francese e spagnolo, le opere che mi passavano sotto gli occhi erano ovviamente traduzioni italiane. Tra queste, mi piacevano molto quelle di Bruno Oddera. Oggi, però, è necessario rispettare molto gli originali, perché la lingua del mondo è più complessa.
Come autore, risento molto della mia passione per Joseph Conrad, e, tra i contemporanei, Peter Høeg, che avvistai a Copenaghen durante il mio viaggio di nozze, ma non osai avvicinare. Quanto agli altri, li ho già citati: Ambler, Le Carrè, Forsyth e, grandemente, Jack Higgins.


SG: In un mondo editoriale che procede a etichette, ci sono autori di narrativa che
invece spaziano tra un genere e l'altro e tu sei tra questi...

EV: Certamente, e ne sono felice. Ripeto, detesto gli autori italiani che narrano di serate al pub, di squallore esistenziale, di indecisioni sulla propria sessualità, di vite da studenti fuori sede e di “impegno sociale”. Io, per innamorarmi di ciò che scrivo, ho bisogno di grandi fondali, e li ritrovo nella spy-story, nella fantascienza, nel thriller storico, nel memoir che fonde tutto questo…
E mi permetto di rimandare ancora a La spirale dell’estate, la mia autobiografia “ritoccata”, che malgrado possa sembrare strano, contiene episodi da me realmente vissuti nell’estate del 1967, la famosa Summer of Love. Per me fu abbastanza avventurosa, anche se non proprio nei termini raccontati. Quel mio prozio di cui parlavo, conobbe davvero un celeberrimo autore di spionaggio con il quale fu in corrispondenza fino alla morte (dell’autore) avvenuta il 12 agosto 1964…

SG: La collana Spy Game è stata fondata da Stefano Di Marino, anche lui scrittore di tutti i generi, con cui hai spesso scambiato opinioni letterarie. Qual è il tuo ricordo di lui?

EV: Stefano venne a Pescara nel 2019, come ospite della seconda edizione di Pescara a Luci Gialle. Con lui c’era un altro carissimo amico, Andrea Carlo Cappi, che non a caso ha preso le redini di Spy Game. Fui molto felice di incontrarli finalmente di persona entrambi. Fra l’altro, Cappi mi aveva fornito a suo tempo una copia preziosissima di Goldeneye, un TV movie inedito in Italia sugli anni di Fleming in Giamaica.
Stefano era una persona eccezionale. Competente, entusiasta, iperattivo, sempre provvido di consigli. Ci sentimmo diverse volte al telefono, e le sue “dritte” mi furono indispensabili nel lavoro. Posseggo più o meno tutti i suoi libri. La notizia del tutto inattesa della sua morte me la diede un altro fraterno amico scrittore, Mariano Sabatini.
Oreste Del Buono definì Scerbanenco una “macchina per fabbricare storie”. Credo
che siano parole adatte anche per Stefano Di Marino.

Tutti gli ebook di Enzo Verrengia pubblicati da Delos sono disponibili


mercoledì 10 maggio 2023

Spy Game incontra Enzo Verrengia - 1

Enzo Verrengia a Vauxhall Cross, Londra, sede dell'MI6 

Spy Game incontra...

Comincia su Borderfiction Zone una serie di interviste agli autori della collana in ebook Spy Game - Storie della Guerra Fredda edita da Delos Digital, che propone romanzi brevi di spionaggio classico. Il primo ospite è Enzo Verrengia veterano della spy-story e della narrativa di genere italiane, scelto da Sergio "Alan D." Altieri per la cosiddetta "Legione Straniera" di Segretissimo Mondadori (così chiamata perché molti autori vi figurano con pseudonimi stranieri, anche se le loro identità sono ormai ben note) e da Stefano Di Marino per la squadra originaria di Spy Game. In questa prima parte parliamo appunto della spy-story secondo Verrengia, nella seconda delle sue varie esperienze come autore.

Enzo Verrengia, scrittore di spie

SG: Parlaci del tuo nuovo personaggio, l'Anonimo, che ha esordito in Spy Game nella primavera 2023 con La corsa della tartaruga e Caccia a due.

EV: L’Anonimo è un mio alter ego potenziato. Opera nei servizi segreti con una partecipazione emotiva, intellettuale e culturale. Rispetto a me, ha il vantaggio di essere molto più prestante sul piano fisico. La Guerra Fredda gli scorre addosso negli anni di piombo, che ne risentirono moltissimo.
Negli anni delle trame nere e degli opposti estremismi, ero poco più di un ragazzo, ma già interessato alla partita geopolitica. Mio padre lavorava nella Polizia, allora Pubblica Sicurezza, dove c’erano molte ricadute di quanto accadeva dietro le quinte delle manifestazioni di piazza. In più, un prozio aveva fatto parte dell’OVRA, il servizio segreto di Mussolini, rischiando la vita per salvare quelli che avrebbe dovuto catturare. Tanto che ebbe la medaglia della Resistenza. Peraltro di questo c’è traccia nel mio romanzo La spirale dell’estate, uscito nel 2021.


SG: In cosa si differenzia l'Anonimo dal protagonista del tuo precedente ciclo per Spy Game, la trilogia costituita da Morte a Venezia, Il mondo finisce a BerlinoFinale di caccia pubblicata tra il 2019 e il 2021?

EV: Anche lì c’è un mio clone narrativo, Leopardi. Con la differenza che il racconto è in terza persona e il protagonista ha qualche anno in meno dell’Anonimo. Leopardi rappresenta lo sviluppo della mia personalità liceale e universitaria. Ho sentito non solo l’odore dei lacrimogeni ma anche quello virtuale di una cospirazione che ha portato il mondo allo stato attuale di completa incontrollabilità.
E ritengo sia iniziato tutto con l’ascesa di Gorbaciov, che ha destabilizzato l’Unione Sovietica, provocato il crollo del Muro di Berlino e distrutto l’equilibrio planetario basato sulla pace armata e sulla MAD, la distruzione reciproca assicurata nel caso fosse scoppiata la Terza Guerra Mondiale. Quest’ultima, nella sua variante odierna, è ancora più a rischio di apocalisse di quanto non fosse fino al 1989.


SG: Quale fu la tua iniziazione alla spy-story?

EV: Capii subito che James Bond non c’entrava niente con il vero spionaggio. Lo consideravo più che altro un supereroe in smoking o tuta subacquea. Poi, a una stazione di servizio, durante un viaggio con i miei, comprai La spia che venne dal freddo e Lo specchio delle spie di John Le Carré, e da lì cambiò tutto. Avevo quattordici anni e compresi che i segreti, gli intrighi, le trame oscure, si consumavano senza gadget e bionde esplosive.

SG: C'è stata un’evoluzione dei tuoi interessi e nei tuoi gusti come lettore di spionaggio?

EV: Dopo Le Carré, scoprii Len Deighton e l’intera messe dei britannici, fino al loro mentore supremo, Eric Ambler, adorato dallo stesso Fleming. Seguì il mio grande entusiasmo per il nazithriller, con relativa nomenclatura annessa: Ken Follett, Frederick Forsyth e soprattutto Jack Higgins. Finché negli anni ’80 vi fu la svolta del
technothriller, e Tom Clancy divenne un altro mio nume tutelare, insieme a Larry Bond e Joe Weber. Fra l’altro, nel frattempo avevo scoperto un altro sottogenere spionistico, il thriller fantapolitico alla Sette giorni a maggio, e il presidential thriller.


SG: Con lo pseudonimo di Kevin Hocks e la serie L'Operativo, sei uno degli autori della “Italian Foreign Legion”, la Legione Straniera di Segretissimo Mondadori: parlaci di questa esperienza.

EV: Apparire su Segretissimo, che intanto avevo iniziato a comprare, era un sogno che consideravo impossibile da realizzare. Però ritagliai tempo ai testi radiotelevisivi e agli articoli giornalistici, con i quali sbarcavo il lunario, per scrivere un mio romanzo di spionaggio, Sandblast, dove entrava in scena un personaggio che già immaginavo seriale: l’Operativo.
Fu il compianto Vittorio Curtoni a mettermi in contatto con l’altro compianto Sergio Altieri, che ne fu entusiasta e me lo fece pubblicare. In seguito il timone passò al carissimo Franco Forte, che mi incoraggiò a continuare, apprezzando il mio lavoro. E non gliene sarò mai abbastanza grato.

SG: Qual è la tua visione della spy-story come autore?

EV: La spy-story deve poggiare su solide basi di politica internazionale, che anche l’Italia ha. Si pensi al lodo Moro, che ha risparmiato innumerevoli attentati terroristici sul nostro territorio, o ai contatti di Andreotti con tutte le parti in causa del Grande Gioco, alle ex colonie africane, alla morte di Giovannone, al sacrificio di Calipari, ecc. Non è vero che il nostro Paese fa da provincia del mondo. Anche adesso, in Ucraina, gli interessi italiani non sono meno rilevanti di quelli altrui.
Ciò premesso, credo che la spy-story sia l’unica forma letteraria capace di fornire interpretazioni della Storia in diretta. Detesto il minimalismo dei giovani autori venuti fuori negli anni ’80 e oggi in andro e menopausa. Bisogna raccontare grandi progettualità, anche nel male, manovrate da personalità dalle molteplici sfaccettature. Nella spy-story converge tutto, anche i sentimenti, le introspezioni, l’intellettualismo. Non è tutto kiss-kiss bang-bang.

Continua a questo link.



venerdì 5 maggio 2023

Iperwriters - Fuga da quale Bronx

Photo: Nazarizal Mohammad on Unsplash

Iperwriters - Editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 20 - Fuga da quale Bronx

Venerdì, ore 13. Sono nata negli anni '50, e se avete conosciuto una periferia italiana di quel decennio capirete perché volevo fuggire.
Mi sentivo come un pesce intrappolato in una pozza putrida durante la peggiore siccità del secolo.
In teoria, le mie aspettative di futuro sarebbero state quelle del boom. Ma venendo dalla casta sociale più bassa, con un corredo di ostacoli esterni (i coevi ci odiano) e interni (ci facciamo del male e gli altri ne approfittano), era escluso che potessi accedere allo status di autore di successo entro i trent'anni, e costruirmi uno di quei feudi televisivi che allora (ancora) garantivano una durata e un nome. Ero destinata a non pubblicare mai neppure uno sciagurato libro di poesie a pagamento.
Il solo ascensore sociale a mia disposizione era per l'inferno.
Di tutto quello che poteva subire una femmina biologica e in particolare una femmina non conforme alla richiesta sociale (bullismi, molestie, mobbing, eccetera) non mi hanno veramente fatto mancare nulla. Volevo fuggire, ma non volevo suicidarmi.
E volevo sottrarmi a un destino sociale da moglie di qualcuno o schiava salariata. Avevo un sacro terrore dell'insegnamento in scuole come quelle frequentate da studente e nessun interesse per altri mestieri.
Dovevo arrangiarmi con i soli strumenti storici che da sempre permettevano alle femmine di umili origini di salire: la religione, lo spettacolo e la scrittura.
Un'altra carriera, mi direte? Sì, forse, appartenendo a una casta alta, avrei tentato con la magistratura o la politica, che non avrebbero escluso un'attività letteraria collaterale... anzi, l'avrebbero favorita.
Ma, ci crediate o no, negli anni '60 avere successo come scrittrice mi pareva perfino più probabile, più realizzabile che avanzare faticosamente in un altro campo, meno prestigioso. Come dire, non potevo scalare l'Everest ma potevo volare sulla luna.
Ma, mi chiederete: Non lo sapevi che in Italia nessuno riesce a vivere di diritti d'autore?
Avevamo pagato per i libri letti. Ci sembrava naturale essere pagati per quelli che avremmo scritto.
No, non lo sapevo. Noi non lo sapevamo.

Iperwriters - Tiro al piccione su Superman

Photo: Johan Taljaard on Unsplash I perwriters - Editoriale di Claudia  Salvatori Letteratura italiacana - 59 - Tiro al piccione su Superman...