domenica 29 luglio 2018

The Shallows (2016)




Recensione di Andrea Carlo Cappi

Un film il cui titolo nella distribuzione italiana, Paradise Beach – Dentro l’incubo, può creare equivoci, se si fa caso solo alla parte che precede ul trattino, laddove il titolo originale significa, più semplicemente, "le secche" (ma in italiano sarebbe stato frainteso). Uscito con un discreto successo nell’estate 2016, è un’ottima variazione sul filone degli squali, in cui il tema non è quello della caccia, bensì quello della pura sopravvivenza individuale.
Nancy Adams (Blake Lively), studentessa texana di medicina, compie una sorta di pellegrinaggio alla spiaggia messicana senza nome in cui venticinque anni prima sua madre scoprì di essere incinta. Il regista iberico Jaume Collet-Serra si serve di unespediente già da lui stesso impiegato nel bel thriller Non-Stop con Liam Neeson e Julianne Moore - sovrapporre alle immagini il display di un cellulare - per raccontare tra fotografie e videochiamate i retroscena della vacanza: la ragazza ha lasciato l’università, in crisi dopo la malattia e la morte della madre. L’aspetto umano della protagonista viene presentato con sobria concisione in brevi ma significative pennellate.
Sono in pochissimi a conoscere le spiaggia, paradiso per i surfisti locali che mantengono il segreto. Nancy prende la tavola. Ma, fatalmente, si avvicina troppo alla carcassa di una balena sotto la quale banchetta invisibile uno squalo gigantesco. Lei gli sfugge per miracolo, a prezzo di uno squarcio a una gamba che dovrà medicarsi da sola con mezzi di fortuna, dopo essersi rifugiata su uno scoglio di cui, con l’alta marea, resta emersa solo la sommità.
E adesso?
La spiaggia è vicina, ma non abbastanza da battere lo squalo sul tempo. Il telefono è nello zaino a riva, l’area è deserta, nessuno può intervenire. Ma Nancy non si arrende, anche se qualsiasi mossa faccia provoca un attacco immediato da parte dell’avversario. Deve giocare d’astuzia, calcolare i tempi e le distanze, e sfruttare il poco che ha a disposizione.
La forza del film, scritto in modo essenziale da John W. Richardson e Chris Roach (stesso duo di Non-Stop), ben diretto e ben interpretato, è proprio il confronto tra un’eroina solitaria, in scena ininterrottamente dal principio alla fine, e una forza della natura nettamente superiore a lei. C’è persino un tocco stile Il vecchio e il mare, cosa insolita per un thriller estivo a base di squali. Il che dimostra che, quando si ha talento, si può prendere un soggetto prevedibile e farne una bella storia.



La vespa e la formica






Recensione di Andrea Carlo Cappi

Potrebbe essere il titolo di una favola di Esopo in chiave entomologica, ma mi riferisco invece a Ant-Man and the Wasp, serie a fumetti anni Sessanta della Marvel Comics dedicata alle imprese dei due supereroi eponimi – le cui vere identità erano all’epoca Hank Pym e Janet van Dyne – quando non apparivano insieme ad altri supereroi in The Avengers. E mi riferisco soprattutto al film che nell’estate 2018 vede invece come protagonisti i personaggi che, fumettisticamente, ne hanno assunto i ruoli nella generazione successiva, Scott Lang e Hope van Dyne, figlia dei primi due.
Innanzitutto vi rassicuro: non ho intenzione di abbandonarmi qui ad alcuno spoiler sulla produzione più recente e attuale dei Marvel Studios, anche se ne troverete qualcuno riguardante i film degli anni passati. Ma penso di poter affermare ciò che tutti gli appassionati già sanno: dopo Infinity War, il cosiddetto MCU – l’universo cinematografico che riunisce buona parte, ma non tutti, dei personaggi dei fumetti Marvel visti nell’ultimo decennio su grande e piccolo schermo – è in sospeso fino alla tarda primavera del 2019, nell’attesa della seconda parte del film dedicato ai Vendicatori e alle Guerre dell’Infinito. Il che non impedisce a sceneggiatori e registi di fare cronologicamente qualche passo indietro nel tempo.



Nel caso di Ant-Man and the Wasp, si parla solo di un balzo a qualche settimana prima di Infinity War, spiegando in che cosa fossero impegnati i personaggi di questa sotto-serie e perché nessuno di loro abbia più a che fare con l’una o l’altra fazione in cui i Vendicatori si erano divisi nel corso di Captain America – Civil War. Va ricordato che, grazie al sistema tecnologicamente avanzato contenuto nella sua tuta, Ant-Man è in grado di cambiare dimensioni, raggiungendo quelle di una formica (come lascia intendere il nome) per tornare poi a quelle normali; un intenso addestramento impartitogli dal suo mentore Hank Pym e dalla figlia di questi, Hope, ha fatto di lui un combattente formidabile nell’una e nell’altra taglia. Ma in Civil War lo abbiamo visto applicare la stessa tecnologia in senso inverso, trasformandosi – come già a suo tempo si era visto nei fumetti – in Giant Man durante lo scontro tra supereroi in Germania, dal lato dei ribelli.
Catturato dopo quell’episodio, in base ad accordi tra i governi tedesco e americano, e nel rispetto del Protocollo di Sokovia sulla limitazione delle attività superumane, Scott Lang (Paul Rudd) ha patteggiato due anni di arresti domiciliari, nel corso dei quali non può allontanarsi di un millimetro dai confini domestici prestabiliti, tantomeno impegnarsi in attività da supereroe. Né gli è consentito avere contatti con Hank Pym (Michael Douglas), inventore del processo di miniaturizzazione molecolare oltre che già supereroe nei panni di Ant-Man negli anni Ottanta, prima da solo, poi insieme a Janet/Wasp; o con la figlia di questi, Hope (Evangeline Lilly), che abbiamo lasciato alla fine di Ant-man mentre era sul punto di collaudare una versione modernizzata della tuta di Wasp.
La scena di apertura del film ci riporta indietro di trent’anni, quando Hank e Janet (Michelle Pfeiffer, ringiovanita in questa sequenza grazie a sofisticati effetti speciali) si congedarono dalla figlia prima di partire per una missione che si sarebbe rivelata fatale e di cui abbiamo già visto una sequenza nel precedente Ant-Man: per disinnescare un missile nucleare prima che raggiungesse il bersaglio, Janet dovette miniaturizzarsi a oltranza, riuscendo nell’intento ma perdendosi poi in un universo quantico da cui non avrebbe mai fatto ritorno. Tuttavia, nel corso della sua prima avventura, Scott non ha avuto scelta che usare a sua volta lo stesso espediente, riducendosi a misure subatomiche ma riemergendo grazie alle nuove tecnologie sviluppate nel frattempo da Hank. E se Janet fosse ancora viva, laggiù, da qualche parte, e le scoperte scientifiche del marito potessero ora permetterle di tornare?



Va precisato che, mescolando elementi presenti da mezzo secolo nei fumetti Marvel (a volte raffigurati con memorabili scenari psichedelici) e teorie scientifiche contemporanee, il Regno Quantico è un universo vero e proprio, uno dei tanti scoperti da Stephen Strange nella sua prima lezione di arti mistiche nel film Doctor Strange, in cui le leggi convenzionali dello spazio-tempo perdono di validità. Ma, stando a quanto si apprende in questa nuova pellicola, certi esperimenti nel campo della fisica quantistica possono avere conseguenze imprevedibili. Del resto Scott ancora non lo sa, ma la sua esperienza sub-atomica ha lasciato in lui più tracce di quanto possa immaginare.
Così, mentre lui passava due anni senza uscire di casa, giocando con la figlia e facendo da consulente all’agenzia di sicurezza privata in cui lavorano Luis (Michael Peña) e i suoi ex-compagni di galera – opportunamente denominata X-Con, che suona come ex-con, ovvero ex-detenuti – Hank e Hope si sono dati da fare, nonostante siano tuttora ricercati dall’FBI in quanto complici indiretti e involontari delle attività di Ant-Man come supereroe ribelle. Hanno perfezionato la tecnica di miniaturizzazione-sminiaturizzazione, applicandola ad autoveicoli e persino a un intero edificio, e progettato un portale per viaggiare nell’universo quantico. Hope (che nel frattempo si è fatta crescere i capelli, abbandonando il rigido caschetto del primo film, meno pratico per indossare l’elmetto) ha ormai ereditato il ruolo di Wasp, cosa che le torna utile quando deve trattare con loschi figuri per procurarsi i componenti che occorrono per completare il progetto.
Per consentire a Hank di giungere all’obiettivo finale – la ricerca di Janet – Scott e Hope devono ora riunire le forze per fronteggiare il subdolo mercante tecnologico Sonny Burch (Walton Goggins); scontrarsi con un misterioso rivale denominato Ghost (Hannah John-Kamen) che si interessa alla stessa tecnologia; discutere con un astioso collega del dottor Pym, Bill Foster (Laurence Fishburne); e sfuggire all’agente FBI Jimmy Woo (Randall Park). Mentre il film si addentra sempre di più nella sua dimensione fantastica, non mancano il cameo del creatore della Marvel, Stan Lee, e, dato che siamo a San Francisco, una variante inedita del classico inseguimento tra auto sulle strade collinari.
Il film, che rappresenta il ventesimo episodio della saga cominciata nel 2008 con Iron Man, è una piacevole mescolanza di poliziesco, azione, commedia (con le consuete gag del gruppo di ex-galeotti) e teorie (fanta)scientifiche portate a un’efficace rappresentazione visiva. È consigliabile avere visto ameno il precedente Ant-Man per apprezzare molti degli aspetti che qui vengono ormai dati per acquisiti. I doverosi collegamenti con la continuity dell’intera saga sono riservati invece alle sequenze inserite nei titoli di coda, che ancora molti spettatori si perdono nella frenesia di correre all’uscita come se la sala andasse a fuoco; e sì che sono una consuetudine da almeno quindici anni, in questo genere di film!



Le lacrime di Kevin Spacey - terza parte




Considerazioni di Claudia Salvatori



Si commette un peccato in ogni strada, in ogni casa, e noi lo tolleriamo, perché lo consideriamo comune... io invidio la tua vita comune.
(Seven)

Kevin Spacey comincia a risplendere sui nostri schermi a partire dal 1995 come il diavolo de I soliti sospetti (24), l'assassino seriale di Seven (25) e l'uomo comune di American Beauty (26). Ancora giovane ma a un'età in cui altri attori meno talentuosi hanno alle spalle un decennio di apparizioni a cadenza annuale, il che fa supporre una carriera tutta in salita, forse ostacolata, sia prima che (a giudicare dalla filmografia) dopo i riconoscimenti e i due Oscar vinti (non protagonista e protagonista).
L'intelligenza di The Usual Suspects sta nel proporre un diavolo minimale, con la d minuscola: il diavolo dell'ateismo è un boss del crimine organizzato, forse solo una leggenda metropolitana, dal suggestivo nome turco-tedesco di Kaiser Soze.
Un diavolo non metafisico ma da quadro astratto concettuale, che è diventato tale sopprimendo in sé tutto quanto è umano e comune, cioè facendo strage di tutta la sua famiglia prima che lo faccia la banda rivale: Per avere potere non occorre denaro, né essere in molti, ma fare quello che gli altri non vogliono fare. Ma si riunisce a tutto quanto è umano è comune presentandosi sotto la forma dell'essere più fragile, debole e stupido della gang e, da questa posizione, può manipolare tutto e tutti.
Un capobanda assolutamente spietato e il più comune degli uomini: cosa di più diabolico?
Kevin Spacey è nato nel ʻ59, e ha potuto ancora ascoltare una lontana eco di quei valori vertiginosamente caduti nella seconda metà del secolo.
Il suo assassino-predicatore-giustiziere di Seven, del tutto privo di identità avendo rinunciato all'umanità, alla speranza e in fondo alla vita, è il grido d'agonia della moralità naturale che precipita nell'inferno del materialismo meccanicistico, amorale e ignorante (è soprattutto l'ignoranza dell'uomo comune che lui invidia, la sua non conoscenza di Dante Alighieri, di Tommaso d'Aquino, il suo pronunciare Sade come Shade). È questo grido, ben compreso e meglio interpretato, a conferire a Kevin una terribile concretezza (più che bucare lo schermo, sembra uscirne per toccarci) e insieme l'abbaglio della più trasparente visione onirica.
Poco tempo dopo, ritroviamo Kevin Spacey in American Beauty nei panni di un tizio come tanti che si ribella alla sua routine, come se avesse letto un manuale del tipo Come goderti la vita e tenere a bada i rompicoglioni, nella sapida sceneggiatura di Alan Ball (ideatore di Six feet under).
In fondo, in che cosa consiste l'espressione artistica di un attore, ingabbiato fra le parole scritte da altri e la direzione di un regista? Nel modo in cui si impadronisce di parole e gesti? Con il corpo, la voce, le mani, gli occhi?
In un'intervista dell'anno scorso, rilasciata qui in Italia, Kevin Spacey dichiara di essere uno strumento atto a servire scrittori e registi. Stupefacente e spiazzante, perché non siamo più abituati all'umiltà dei grandi, e neppure a riconoscere il merito degli scrittori in una produzione cinematografica. E vediamo che i film da lui interpretati hanno spesso all'origine solidi copioni teatrali – Bugie, baci, bambole e bastardi (27) è di David Rabe, Americani (28) di David Mamet) – sceneggiature splendidamente scritte (sul set di Seven era presente Andrew Walker, autore del racconto da cui il film è tratto), sono ben diretti e hanno quasi sempre una ragione per essere realizzati.
È possibile che Kevin abbia influenzato, ispirato gli sceneggiatori, o sia intervenuto sulla scrittura?
Forse la stessa dissoluzione del mondo, e della macchina di produzione della fiction, ha creato una fluidità che gli ha permesso di gestire la proiezione operata su di lui più di quanto non abbiamo potuto, in contesti più rigidi, Vincent Price e Anthony Perkins. E in effetti, film dopo film, vediamo comparire elementi che rimandano in modo inquietante, a volte profetico, ai suoi dati biografici, reali o leggendari che siano.
Perché il piccolo diavolo contemporaneo è anche una vittima, a volte un agnello sacrificale, un suicida volontario (come del resto in Seven), e il ruolo che Kevin sceglie per sé e li riassume tutti, quando può scrivere, dirigere o produrre film, è quello di un condannato a morte.



Diciamo sempre che siamo umani quando dobbiamo giustificarci per aver fatto qualcosa di molto brutto. Non lo diciamo mai quando salviamo un bambino dalle fiamme.
(Il delitto Fitzgerald)

Lo dichiara un giovane assassino che ha ucciso per sollevarvi dalla vostra tristezza in Il delitto Fitzgerald (29), un film poco noto prodotto da Kevin Spacey. Più avanti, lo stesso assassino dice anche: A volte penso che il Male esista solo per far risaltare il Bene, poco prima di essere inevitabilmente ucciso per vendetta.
Diciamo pure che il bene (anche con la b minuscola) si vende poco e con estrema difficoltà.
Anche se è un bene minimale e consiste solo nel fare, per esempio, una buona azione a qualcuno pregandolo di “passare il favore” ad altre tre persone, e così via, per formare una specie di catena della bontà: Un sogno per domani (30). Il bambino di dieci anni che inventa questo sistemino per migliorare il mondo esegue un compito datogli dal suo insegnante, appunto Kevin.
Kevin che dice: Il mondo esterno esiste. Per quanto pensiate di non volerlo incontrare, vi arriverà dritto in faccia. Il suo volto è infatti sfregiato e ustionato in seguito a una violenza domestica subita da piccolo.
La bontà comunque è etichettata come “buonismo” e c'è quasi da vergognarsi a farne una fiction, oggi. Anche se Un sogno per domani non commette peccato di edulcorazione: il bambino geniale e ottimista, poco dopo aver detto che il mondo non è tutto una merda, viene accoltellato a morte da un branco di bulli.



The life of David Gale (31) vede Kevin Spacey in un doppio ruolo di condannato: ingiustamente calunniato e reso un morto civile, si fa giustiziare per riabilitarsi.
Questo film, una volta sicuramente apprezzato come opera “di impegno civile”, è stato fortemente criticato come “morboso” e “malato”. Alle soglie del 2000 non vogliamo più morire per un'idea, né tollerare che altri lo facciano, a parte quei casi (naufragio, incendio o altro) in cui siamo in pericolo di vita e reclamiamo degli “eroi” che ci salvino.
Ma Kevin continua a sacrificarsi, perfino nell'ultima sua interpretazione, Baby Driver (32), in cui da spietato capobanda si rovescia in romantico amante e si fa ammazzare in una sparatoria per coprire la fuga dell'amato.
E in un film da lui diretto, Insoliti criminali (33) premiato al nostro Noir in festival 1996, l'alligatore bianco che viene usato come esca sacrificale nelle guerre territoriali è sicuramente il personaggio in cui si identifica e che, fra gli altri, è il più intelligente.
Beyond the sea (34) è probabilmente la sua operazione più ambiziosa, un film scritto, diretto, prodotto, interpretato, cantato e ballato da lui: una mimesi totale in un cantante (Bobby Darin) condannato a morte, stavolta da una malattia degenerativa.
Povero e malato, con una difficile vita famigliare, dovrebbe vivere quindici anni ma canta fino a trentasei e raggiunge il successo con la sola forza di volontà, perché chi viene dal basso non può non salire. Racconta se stesso, e in diversi passaggi della sceneggiatura informa il pubblico che lo sta facendo: ha un tempo contato per dare quanto può prima di scomparire. Il film, amato da una parte della critica, è stato una catastrofe al botteghino.
Forse più fortuna ha avuto il lirico e commovente K-pax (35). Ecco un altro doppio ruolo: di alieno vivente in un mondo di armonia e giustizia e pazzo traumatizzato catatonico.
Kevin Spacey è nato il 26 luglio. Nel film l'evento insopportabile, quello che gli rende impossibile vivere e lo costringe alla fuga su un altro pianeta (o nella follia, tutto è mantenuto nell'ambiguità fino alla fine), avviene il 27 luglio.
È possibile che Kevin abbia suggerito quella data per rivelare, dissimulando, qualcosa di se stesso? Come se avesse voluto dire che considera il giorno della sua nascita una sciagura, e la sola uscita di sicurezza che non sia nell'autismo o nel suicidio è stato il suo lavoro di attore.



Quando ti fai fuori da solo prima che lo faccia qualcun altro puoi controllare come succede.
(House of cards, stagione 5)
Se non può essere buono, Kevin esaurisce alla fine tutte le sfaccettature del cattivo: poliziotto corrotto, rapinatore, mago della truffa, lobbista, produttore cinico, venditore psicopatico, Lex Luthor in Superman Returns (36).
Quasi sempre ammazzato, sempre punito, a parte in Un perfetto criminale, premio del pubblico al Noir in festival 2000 (37), in cui è una simpatica canaglia, un folletto shakespeariano birbante e un Robin Hood (con due mogli e innumerevoli figli) in una foresta di palazzacci di periferia.
Del resto è anomalo anche come cattivo: non lo si vede mai coinvolto in un'azione violenta (perfino in Seven i delitti e le scene d'azione sono fuori campo), non taglia mai nessuno in due con una motosega, al massimo assesta qualche pugno.
Ma oltre non può andare, non può ripetere un altro Seven.
Dopo i due Oscar, invece di un film da protagonista a cadenza almeno biennale, comincia una serie di alterne vicende, di fallimenti commerciali, di piccoli film che lo delimitano e lo spengono.
Si fa degli haters, piovono i sarcasmi per aver interpretato Nine livesUna vita da gatto (38) sdoppiandosi in un'identità da gatto (ma da quando è una cattiva azione fare un film per ragazzi?).
Ritorna al teatro da cui è venuto e dirige l'Old Vic di Londra, recitando oltre un centinaio di repliche di Riccardo III, come a voler chiudere il cerchio con Vincent Price (anche lui interprete storico di Riccardo).
Il Grande Attore è diventato decisamente ingombrante... troppo pesante, in quest'epoca di leggerezze.
Poi, soprendentemente, arriva il capolavoro, la serie tv House of cards (39), un successo incontrastato che lo porta alla visibilità planetaria. Una complessa macchina narrativa in cui riassume tutte le precedenti esperienze e il senso dell'attuale epoca in una precisa prospettiva storica, nei panni di un protagonista altrettanto complesso.
In House of cards Kevin è contemporaneamente e a tutti gli effetti un re antico con la sua regina-uguale e speculare a sé (non avevamo ancora visto un ruolo femminile esattamente alla pari con il ruolo maschile in una fiction), un assassino senza scrupoli e rimorsi (come Kaiser Soze, non ha figli, ma invece di ucciderli rifiuta di metterli al mondo), l'uomo più potente del mondo (il presidente degli States), e anche un uomo comune, che divide la sorte dei milioni, miliardi di persone comuni. Tutti mescolati insieme in un intrigo globale in cui non resta che far torto o patirlo, come scriveva il nostro (speriamo non dimenticato) Manzoni.
Francis Underwood, le cui iniziali sui gemelli, FU, sono la contrazione di Fuck you.
Come un re antico è solo. Lo è sempre stato, è in questo sta quello che hanno chiamato il suo “mistero”, l'espressione di quegli occhi tristi, sempre tristi anche quando si diverte e vuole far divertire al David Letterman show.
Ma è solo anche come lo è una persona comune.
Non può fare BUH! A nessuno, perché la gente ormai è smaliziata, non ingenua come ai tempi di Vincent.
Come spaventare, allora?
Bene, quello che può fare è rompere la quarta parete teatrale e parlare alla macchina da presa, a tutti e a nessuno, cioè a noi. Come un attore di teatro che si stacca dall'azione, avanza un po' sul proscenio e bisbiglia a parte per informare il pubblico di quello che succede veramente.
Episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, ci parla raggiungendo le nostre solitudini, svelandoci quello che siamo, come siamo diventati. Con i suoi occhi tristi, in cui la gentilezza traspare sempre più raramente, in cui le lacrime che spesso ha versato si sono congelate.
Parla come un re che confida i segreti del suo potere, come un criminale legittimato dalla guerra di tutti contro tutti; e come una persona comune, in un flusso inarrestabile di logorrea (il suo personaggio ne I soliti sospetti si chiamava Verbal), raccontando la sua vita come se fosse una serie televisiva.
Ma lui ribalta la serie televisiva e la racconta come se fosse (ed è) la vita, la vita di tutti noi, con la nostra patetica presunzione di essere re, i nostri piccoli atti criminali, la nostra invidia e la nostra ipocrisia, e la nostra rinuncia alla pietà.
Di chi sia stata l'idea di farlo commentare quello che sta facendo nella fiction, se sua o di uno degli ideatori e registi della serie, non sappiamo. Sappiamo che lui è consapevole, e la cosa in sé sarebbe già un valore da preservare.
Anche se è prevista a luglio l'uscita americana di Billionaire Boys Club, di James Cox, l'ultimo film in cui ha recitato tra il 2015 e il 2016, Kevin Spacey forse non potrà più lavorare.
Le coscienze pensanti, con la capacità e la volontà di comunicare, si stanno estinguendo come le tigri siberiane, per questo la sua scomparsa, come hanno osservato le poche persone di buon senso, sarebbe una perdita incalcolabile.
Senza di lui saremo ancora più soli, muti e sordi.
E gli specchi già da tempo non ci riflettono più.



I film citati nel testo:

(1) Theatre of Blood, regia di Douglas Hickox (1973)
(2) The Haunted Palace, regia di Roger Corman (1963)
(3) The Keys of the Kingdom, regia di John M. Stahl (1944)
(4) The Ten Commandments, regia di Cecil B. DeMille (1956)
(5) Nefertite, regina del Nilo, regia di Fernando Cerchio (1961)
(6) House of Wax, regia di André De Toth (1953)
(7) The Abominable Dr. Phibes, regia di Robert Fuest (1971)
(8) Edward Scissorhands, regia di Tim Burton (1990)
(9) House of the Long Shadows, regia di Pete Walker (1983)
(10) Dr. Goldfoot and the Bikini Machine, regia di Norman Taurog (1965)
(11) Le spie vengono dal semifreddo, regia di Mario Bava (1966)
(12) Hitchcock, regia di Sacha Gervasi (2012)
(13) Psycho, regia di Alfred Hitchcock (1960)
(14) Goodbye Again, regia di Anatole Litvak (1961)
(15) La décade prodigieuse, regia di Claude Chabrol (1971)
(16) The last of Sheila, regia di Herbert Ross (1973)
(17) Lucky Stiff, regia di Anthony Perkins (1988)
(18) Psycho II, regia di Richard Franklin (1983)
(19) Psycho III, regia di Anthony Perkins (1986)
(20) Winter Kills, regia di William Richert (1979)
(21) Crimes of Passion, regia di Ken Russell (1984)
(22) Edge of Sanity, regia di Gérard Kikoïne (1989)
(23) Le procès, regia di Orson Welles (1962)
(24) The Usual Suspects, regia di Bryan Singer (1995)
(25) Seven, regia di David Fincher (1995)
(26) American Beauty, regia di Sam Mendes (1999)
(27) Hurlyburly, regia di Anthony Drazan (1998)
(28) Glengarry Glen Ross, regia di James Foley (1992)
(29) The United State of Leland, regia di Matthew Ryan Hoge (2003)
(30) Pay It Forward, regia di Mimi Leder (2000)
(31)The Life of David Gale, regia di Alan Parker (2003)
(32) Baby Driver, regia di Edgar Wright (2017)
(33) Albino Alligator, regia di Kevin Spacey (1996)
(34) Beyond the Sea, regia di Kevin Spacey (2004)
(35) K-PAX, regia di Iain Softley (2001)
(36) Superman Returns, regia di Bryan Singer (2006)
(37) Ordinary Decent Criminal, regia di Thaddeus O'Sullivan (2000)
(38) Nine Lives, regia di Barry Sonnenfeld (2016)
(39) House of Cards - serie TV (2013-cinque stagioni)



Le lacrime di Kevin Spacey - seconda parte




Considerazioni di Claudia Salvatori


È il 1960. Qualcosa sta cambiando nel mondo e nell'immaginario collettivo: un nuovo modo di percepire il Male. Ora non arriva più da lontananze tenebrose e infernali al di fuori di noi, ma da abissi oscuri (ma forse non insondabili) all'interno di noi. Cominciamo a sapere che ogni persona ha una parte buona e una cattiva, e che spesso le due parti si mescolano inestricabilmente.
I mostri siamo noi: la psicanalisi regna ovunque sulla terra, entra nel discorrere quotidiano dei salotti, nelle pieghe più riposte della cultura e del linguaggio. Fa il suo ingresso a vele spiegate nella fiction.
Tutto è cominciato con Ed Gein, un assassino del Wisconsin attivo negli anni Cinquanta. Sorvoliamo sulle sue imprese, ma diciamo che ha ispirato Psycho di Robert Bloch e una miriade di altri scrittori e cineasti fino ad American horrror story.
Il film del 2012 Hitchcock (12) mostra il regista impegnato nell'ideazione e nella realizzazione di Psycho. Stanco di intrecci giallo-rosa spionistici, sente il bisogno di cambiare, di dare una nuova svolta al suo lavoro, di rischiare. Si appassiona al romanzo di Robert Bloch e al suo protagonista Norman Bates, che alla Paramount definiscono (sic nella traduzione in lingua italiana) un finocchio ammattito che uccide la gente negli abiti di sua madre.
La genialità di Hithcock consiste soprattutto nella sua scelta del protagonista, che è quella che i tempi gli richiedono e che lui sa cogliere nell'aria.
Perché, per interpretare Norman Bates, l'assassino schizofrenico con due personalità – una delle quali è la mamma dissepolta e mummificata in cantina – sceglie un delicato e sensibile attore che fino allora è stato sugli schermi il miglior figlio, il miglior fratello, il migliore amico, il miglior ragazzo.



Ciascuno di noi è stretto in una trappola. Mordiamo e graffiamo soltanto l'aria, soltanto chi ci sta vicino. E non ci muoviamo di un millimetro.
(Psycho)

Anthony Perkins, nato nel 1932, talento musicale (che ha trasmesso a uno dei suoi figli), poco prima di calarsi nella doppia personalità di Norman Bates ha recitato al cinema e in commedie musicali a Broadway, e inciso tre lp come cantante. Un suo singolo è stato ventiquattresimo nella top 100 dei dischi più venduti. Possiamo sentirlo, su Youtube, cantare Moonlight Swim: con voce dolcissima.
Troppo dolce.
Tanta dolcezza deve celare qualcosa di molto cattivo, no? E se non c'era nulla da celare, tanto meglio: la via è libera per scatenare invenzioni e proiezioni.
Strana carriera, quella di Anthony Perkins.
Iniziata per trasmettere tenerezza e “normalità”, viene ribaltata più volte, e lui è precipitato in un incubo, suo (dall'interno di lui) e collettivo (dall'interno di noi proiettati su di lui), costretto a rappresentare l'io diviso, la follia, la duplicità, la “femminilità” e infine la sventura: tutto quello che temiamo di ospitare in noi stessi, tutto quello che potrebbe scappare fuori da noi, tutto quello che preghiamo di non essere.
La sua interpretazione in Psycho (13) è indimenticabile: misuratissima, ma attraversata da tutte le scariche del suo corto circuito interno.
Anthony non ride come Vincent: non può. Il suo Mamma, sangue, sangue! lo agghiaccia e ci agghiaccia. Anthony sorride, a labbra chiuse, come le antiche statue delle divinità, ma la luce di pazzia nello sguardo ci proietta in un mondo in cui dobbiamo temere la nostra ombra (o piuttosto il nostro inconscio).
Quel sorriso criminale, perduto, che non rinuncia alla sua soavità, è uno dei cartelli indicatori sulla via del nuovo millennio.



Svegliatevi. Questo è il mondo che avete voluto. È questo il mondo in cui dovete vivere.
(Rebus per un assassinio)

Da Psycho in poi, come sappiamo, Anthony è segnato da Norman Bates, come se lo avessero spinto a un punto di non ritorno.
È nuovamente un tenero amante in Le piace Brahms? (14), ma presto diventa l'equivalente maschile della donna ragno: il ragazzo sbagliato, “cattivo” o malato o troppo debole perché la protagonista femminile possa appoggiarsi a lui.
Ritorna al musical e fa altri film, ma è inseguito da quel Male, da quella Morte che le platee di tutto il mondo hanno visto in sovraimpressione sul suo viso.
Guardiamolo in Dieci incredibili giorni (15), tratto dal capolavoro degli Ellery Queen. Sono passati dieci anni da Psycho, e la somatizzazione di Norman Bates è arrivata a compimento. I tic, le smorfie del nevrotico spossessato si muovono sotto la pelle, deformano la faccia sempre più scavata e atterrita che gli conosceremo da ora in poi.
Anthony tenta di difendersi, sicuramente: prendendo la parola. Scrive insieme al compositore Stephen Sondheim la sceneggiatura di un giallo, Un rebus per l'assassino (16), con il quale vince un Edgar nel ʻ74. Smonta il meccanismo dello show-biz e ne mostra il funzionamento: alcuni cineasti usano una serie di crimini prima come gioco di società, e in seguito come materiale per un film: chi sono i veri cattivi?
Il suo umorismo vira sempre al nero: dirige Una fortuna da morire (17), una black comedy in cui un ragazzo, sentendosi fortunato perché invitato a cena dalla ragazza dei suoi sogni, ignora di essere lui stesso la cena.
Si può immaginare che Anthony si sia sentito dato in pasto a Hollywood e al pubblico delle sale.
Vuole prendere la fuga da Norman Bates, poi cambia idea e cerca giustamente di assumermene il controllo, accettando di interpretare Psycho II (18) e dirigendo Psycho III (19).
L'assassino malato di mente va protetto e rieducato, perciò nei sequel di Psycho un Norman Bates guarito cerca di riprendersi la propria vita, ma viene risospinto nella follia dalle malefatte di altri. Ed è tragico che la sua innocenza non valga a salvarlo e riportarlo fra i vivi. (Intelligentemente, la serie Bates Motel, un prequel di fantasia di Psycho, mostra un Norman diciassettenne con la sua mamma ancora viva, disturbati e fragili ma distrutti dalla marcia “normalità” dell'ambiente).
Sembra che la stessa sorte sia toccata all'attore in carne e ossa, che pur lottando per tornare a ruoli “normali” non riesce più a districare carne e ossa dall'identità dello psicopatico, dello spostato, del borderline.
Un film con un titolo italiano simile a quello del giallo da lui scritto, Rebus per un assassinio, (20) lo mostra ancora una volta come un criminale, al contempo banale e surreale. È un piccolo funzionario megalomane e masochista che vive in una topaia ma possiede un potere immenso smistando un flusso di immagini, documenti e intercettazioni da tutto il mondo: informazioni, buchi neri di informazioni, galassie di informazioni. Manovra il presidente degli Stati Uniti ma è a sua volta manovrato da poteri forti invisibili e ineffabili.
In questa interpretazione, interessante in quanto segnale dell'inizio della civiltà contemporanea (o della fine della civiltà), il suo volto è ulteriormente devastato, diventato di sasso. Anche il corpo è come disarticolato, da insetto, da automa, da essere disumanizzato e non più comprensibile.
Così anche nella vita reale: c'è una frattura tangibile fra le sue interviste giovanili e quelle tarde. Il sorriso è scomparso, gli occhi sono accesi da una fissità vitrea. Una maschera di dissoluzione, caos e decadenza.



Uccidimi!... Rendi la mia vita degna di essere vissuta, dà un senso alla mia morte. Io sono te. Uno di noi due deve morire perché l'altro possa vivere.
(China blue)

Così dice Anthony alla prostituta ninfomane di China Blue (21), dove interpreta un reverendo predicatore ossessionato dal sesso (armato di un vibratore-pugnale), una nuova ed estrema versione di Norman Bates, con un sogghigno pietrificato sul volto scavato, che pare divorato dall'interno.
Nella scena climax, dopo averci fatto crepare dal ridere suonando il piano e cantando, morirà infilzato dal suo stesso vibratore. Ovviamente indossando i vestiti di China Blue e pronunciando le sue ultime parole con la voce di lei.
Da Psycho in poi sono usciti film con emuli di Norman Bates muniti di tre, cinque, otto personalità; ora la schizofrenia è globale, la centrifuga delle identità inarrestabile, e la psicanalisi la fa da padrona nei programmi televisivi di cronaca nera.
Una delle ultime apparizioni di Anthony è nel doppio ruolo del Dottor Jekyll e Mister Hyde sull'orlo della follia (22), il padre e la madre di tutti i personaggi duplici della fiction. Jekyll è stato traumatizzato da bambino (poteva essere altrimenti?) e Hyde ritrova il sorriso di Psycho esaltato da un incisivo trucco punk. Double the terror, double the fun, recita la locandina del film, che mostra i due volti dell'attore nelle sue due identità. Doppio il terrore, doppio il divertimento.
Ma alla fine il cattivo, in quanto folle, posseduto da sua madre o da un filtro o trauma che lo altera, è un non colpevole, e il ruolo che gli rende più giustizia è quello di Joseph K. ne Il processo (23) di Orson Wells. La vittima di un vivere e un morire resi insensati non da una condanna metafisica, ma dalla caduta libera nel vuoto.
Giustizia, ma non glorificazione per Anthony Perkins, rimasto caso esplicativo di un bignamino di psicologia uso famiglia.
In aggiunta alle difficoltà e alle sofferenze della sua vita privata, questo attore è stato meno amato di quanto avrebbe meritato. Non ci amiamo più molto, né in noi stessi né negli altri, e non c'è più gloria per nessuno.
Anthony Perkins muore nel 1992 e un anno dopo se ne va anche Vincent Price.
Sta per iniziare il terzo millennio, e abbiamo già cominciato a chiederci il giorno e l'ora della fine del mondo.



Ma c'è un'altra rivoluzione antropologica in corso. Negando il Bene e il Male assoluti, il bianco e il nero, abbiamo esagerato col grigiore e ora questo colore è onnipervasivo. La società ha aperto tutte le gabbie alle peggiori pulsioni della natura umana, e non sa gestire le belve che ne sono uscite. Occorre difendersi, eleggendo questo grigio unico a norma ed espellendo i mostri.
Il risultato è un mondo (e uno stile di vita) dominato da un satanismo molle, ignaro, sempre più robotizzato e idiotizzato, con un suicidio di adolescente a colazione, un femminicidio a pranzo e uno stupro di gruppo a cena, e bullismo reale e virtuale a ogni ora del giorno ogni giorno. Non è esattamente che siamo adoratori di Satana, ma ci comportiamo come se lo fossimo, senza saperlo o fingendo di non saperlo.
Siamo divisi ora fra persone grigie “comuni” e persone “orribili”. Il Male, dopo essere passato attraverso di noi, è tornato fuori. Fuori, ma non in un altrove mitico, fantastico, piacevolmente orribile. Fuori in senso fisico. Nella strada di fronte, sullo stesso ballatoio, ma fuori.
E fuori in senso psichico, emotivo, caratteriale: non lo si comprende. L'assassino è sì l'assassino della porta accanto, ma se non è recuperabile e messo in riabilitazione diventa un enigma, è quello che chi l'avrebbe mai detto. In definitiva, l'escluso sociale, perché nessuno vuole esserlo o esserne coinvolto.
E in un certo modo, paradossalmente, il Bene e il Male tornano a essere valori assoluti: lo si vede dagli tsunami di odio che si alzano contro le persone “orribili” e dall'aria di linciaggio che tira quando arrestano un presunto colpevole. Ma sono fanatismi assoluti di una macchina impazzita e del tutto viscerale.
Ora, per rappresentare tutto questo, occorre un nuovo tipo di attore. Qualcuno che sia in grado di raccogliere l'eredità dei precedenti villain dello schermo ed essere l'assassino della porta accanto, il male (ormai non ha più la lettera maiuscola) che in alcune condizioni si rovescia nel bene (idem) e sa agire da santo, e anche da uomo comune. Impossibile? No. Quel qualcuno è già lì.