giovedì 26 luglio 2018

Le lacrime di Kevin Spacey - seconda parte




Considerazioni di Claudia Salvatori


È il 1960. Qualcosa sta cambiando nel mondo e nell'immaginario collettivo: un nuovo modo di percepire il Male. Ora non arriva più da lontananze tenebrose e infernali al di fuori di noi, ma da abissi oscuri (ma forse non insondabili) all'interno di noi. Cominciamo a sapere che ogni persona ha una parte buona e una cattiva, e che spesso le due parti si mescolano inestricabilmente.
I mostri siamo noi: la psicanalisi regna ovunque sulla terra, entra nel discorrere quotidiano dei salotti, nelle pieghe più riposte della cultura e del linguaggio. Fa il suo ingresso a vele spiegate nella fiction.
Tutto è cominciato con Ed Gein, un assassino del Wisconsin attivo negli anni Cinquanta. Sorvoliamo sulle sue imprese, ma diciamo che ha ispirato Psycho di Robert Bloch e una miriade di altri scrittori e cineasti fino ad American horrror story.
Il film del 2012 Hitchcock (12) mostra il regista impegnato nell'ideazione e nella realizzazione di Psycho. Stanco di intrecci giallo-rosa spionistici, sente il bisogno di cambiare, di dare una nuova svolta al suo lavoro, di rischiare. Si appassiona al romanzo di Robert Bloch e al suo protagonista Norman Bates, che alla Paramount definiscono (sic nella traduzione in lingua italiana) un finocchio ammattito che uccide la gente negli abiti di sua madre.
La genialità di Hithcock consiste soprattutto nella sua scelta del protagonista, che è quella che i tempi gli richiedono e che lui sa cogliere nell'aria.
Perché, per interpretare Norman Bates, l'assassino schizofrenico con due personalità – una delle quali è la mamma dissepolta e mummificata in cantina – sceglie un delicato e sensibile attore che fino allora è stato sugli schermi il miglior figlio, il miglior fratello, il migliore amico, il miglior ragazzo.



Ciascuno di noi è stretto in una trappola. Mordiamo e graffiamo soltanto l'aria, soltanto chi ci sta vicino. E non ci muoviamo di un millimetro.
(Psycho)

Anthony Perkins, nato nel 1932, talento musicale (che ha trasmesso a uno dei suoi figli), poco prima di calarsi nella doppia personalità di Norman Bates ha recitato al cinema e in commedie musicali a Broadway, e inciso tre lp come cantante. Un suo singolo è stato ventiquattresimo nella top 100 dei dischi più venduti. Possiamo sentirlo, su Youtube, cantare Moonlight Swim: con voce dolcissima.
Troppo dolce.
Tanta dolcezza deve celare qualcosa di molto cattivo, no? E se non c'era nulla da celare, tanto meglio: la via è libera per scatenare invenzioni e proiezioni.
Strana carriera, quella di Anthony Perkins.
Iniziata per trasmettere tenerezza e “normalità”, viene ribaltata più volte, e lui è precipitato in un incubo, suo (dall'interno di lui) e collettivo (dall'interno di noi proiettati su di lui), costretto a rappresentare l'io diviso, la follia, la duplicità, la “femminilità” e infine la sventura: tutto quello che temiamo di ospitare in noi stessi, tutto quello che potrebbe scappare fuori da noi, tutto quello che preghiamo di non essere.
La sua interpretazione in Psycho (13) è indimenticabile: misuratissima, ma attraversata da tutte le scariche del suo corto circuito interno.
Anthony non ride come Vincent: non può. Il suo Mamma, sangue, sangue! lo agghiaccia e ci agghiaccia. Anthony sorride, a labbra chiuse, come le antiche statue delle divinità, ma la luce di pazzia nello sguardo ci proietta in un mondo in cui dobbiamo temere la nostra ombra (o piuttosto il nostro inconscio).
Quel sorriso criminale, perduto, che non rinuncia alla sua soavità, è uno dei cartelli indicatori sulla via del nuovo millennio.



Svegliatevi. Questo è il mondo che avete voluto. È questo il mondo in cui dovete vivere.
(Rebus per un assassinio)

Da Psycho in poi, come sappiamo, Anthony è segnato da Norman Bates, come se lo avessero spinto a un punto di non ritorno.
È nuovamente un tenero amante in Le piace Brahms? (14), ma presto diventa l'equivalente maschile della donna ragno: il ragazzo sbagliato, “cattivo” o malato o troppo debole perché la protagonista femminile possa appoggiarsi a lui.
Ritorna al musical e fa altri film, ma è inseguito da quel Male, da quella Morte che le platee di tutto il mondo hanno visto in sovraimpressione sul suo viso.
Guardiamolo in Dieci incredibili giorni (15), tratto dal capolavoro degli Ellery Queen. Sono passati dieci anni da Psycho, e la somatizzazione di Norman Bates è arrivata a compimento. I tic, le smorfie del nevrotico spossessato si muovono sotto la pelle, deformano la faccia sempre più scavata e atterrita che gli conosceremo da ora in poi.
Anthony tenta di difendersi, sicuramente: prendendo la parola. Scrive insieme al compositore Stephen Sondheim la sceneggiatura di un giallo, Un rebus per l'assassino (16), con il quale vince un Edgar nel ʻ74. Smonta il meccanismo dello show-biz e ne mostra il funzionamento: alcuni cineasti usano una serie di crimini prima come gioco di società, e in seguito come materiale per un film: chi sono i veri cattivi?
Il suo umorismo vira sempre al nero: dirige Una fortuna da morire (17), una black comedy in cui un ragazzo, sentendosi fortunato perché invitato a cena dalla ragazza dei suoi sogni, ignora di essere lui stesso la cena.
Si può immaginare che Anthony si sia sentito dato in pasto a Hollywood e al pubblico delle sale.
Vuole prendere la fuga da Norman Bates, poi cambia idea e cerca giustamente di assumermene il controllo, accettando di interpretare Psycho II (18) e dirigendo Psycho III (19).
L'assassino malato di mente va protetto e rieducato, perciò nei sequel di Psycho un Norman Bates guarito cerca di riprendersi la propria vita, ma viene risospinto nella follia dalle malefatte di altri. Ed è tragico che la sua innocenza non valga a salvarlo e riportarlo fra i vivi. (Intelligentemente, la serie Bates Motel, un prequel di fantasia di Psycho, mostra un Norman diciassettenne con la sua mamma ancora viva, disturbati e fragili ma distrutti dalla marcia “normalità” dell'ambiente).
Sembra che la stessa sorte sia toccata all'attore in carne e ossa, che pur lottando per tornare a ruoli “normali” non riesce più a districare carne e ossa dall'identità dello psicopatico, dello spostato, del borderline.
Un film con un titolo italiano simile a quello del giallo da lui scritto, Rebus per un assassinio, (20) lo mostra ancora una volta come un criminale, al contempo banale e surreale. È un piccolo funzionario megalomane e masochista che vive in una topaia ma possiede un potere immenso smistando un flusso di immagini, documenti e intercettazioni da tutto il mondo: informazioni, buchi neri di informazioni, galassie di informazioni. Manovra il presidente degli Stati Uniti ma è a sua volta manovrato da poteri forti invisibili e ineffabili.
In questa interpretazione, interessante in quanto segnale dell'inizio della civiltà contemporanea (o della fine della civiltà), il suo volto è ulteriormente devastato, diventato di sasso. Anche il corpo è come disarticolato, da insetto, da automa, da essere disumanizzato e non più comprensibile.
Così anche nella vita reale: c'è una frattura tangibile fra le sue interviste giovanili e quelle tarde. Il sorriso è scomparso, gli occhi sono accesi da una fissità vitrea. Una maschera di dissoluzione, caos e decadenza.



Uccidimi!... Rendi la mia vita degna di essere vissuta, dà un senso alla mia morte. Io sono te. Uno di noi due deve morire perché l'altro possa vivere.
(China blue)

Così dice Anthony alla prostituta ninfomane di China Blue (21), dove interpreta un reverendo predicatore ossessionato dal sesso (armato di un vibratore-pugnale), una nuova ed estrema versione di Norman Bates, con un sogghigno pietrificato sul volto scavato, che pare divorato dall'interno.
Nella scena climax, dopo averci fatto crepare dal ridere suonando il piano e cantando, morirà infilzato dal suo stesso vibratore. Ovviamente indossando i vestiti di China Blue e pronunciando le sue ultime parole con la voce di lei.
Da Psycho in poi sono usciti film con emuli di Norman Bates muniti di tre, cinque, otto personalità; ora la schizofrenia è globale, la centrifuga delle identità inarrestabile, e la psicanalisi la fa da padrona nei programmi televisivi di cronaca nera.
Una delle ultime apparizioni di Anthony è nel doppio ruolo del Dottor Jekyll e Mister Hyde sull'orlo della follia (22), il padre e la madre di tutti i personaggi duplici della fiction. Jekyll è stato traumatizzato da bambino (poteva essere altrimenti?) e Hyde ritrova il sorriso di Psycho esaltato da un incisivo trucco punk. Double the terror, double the fun, recita la locandina del film, che mostra i due volti dell'attore nelle sue due identità. Doppio il terrore, doppio il divertimento.
Ma alla fine il cattivo, in quanto folle, posseduto da sua madre o da un filtro o trauma che lo altera, è un non colpevole, e il ruolo che gli rende più giustizia è quello di Joseph K. ne Il processo (23) di Orson Wells. La vittima di un vivere e un morire resi insensati non da una condanna metafisica, ma dalla caduta libera nel vuoto.
Giustizia, ma non glorificazione per Anthony Perkins, rimasto caso esplicativo di un bignamino di psicologia uso famiglia.
In aggiunta alle difficoltà e alle sofferenze della sua vita privata, questo attore è stato meno amato di quanto avrebbe meritato. Non ci amiamo più molto, né in noi stessi né negli altri, e non c'è più gloria per nessuno.
Anthony Perkins muore nel 1992 e un anno dopo se ne va anche Vincent Price.
Sta per iniziare il terzo millennio, e abbiamo già cominciato a chiederci il giorno e l'ora della fine del mondo.



Ma c'è un'altra rivoluzione antropologica in corso. Negando il Bene e il Male assoluti, il bianco e il nero, abbiamo esagerato col grigiore e ora questo colore è onnipervasivo. La società ha aperto tutte le gabbie alle peggiori pulsioni della natura umana, e non sa gestire le belve che ne sono uscite. Occorre difendersi, eleggendo questo grigio unico a norma ed espellendo i mostri.
Il risultato è un mondo (e uno stile di vita) dominato da un satanismo molle, ignaro, sempre più robotizzato e idiotizzato, con un suicidio di adolescente a colazione, un femminicidio a pranzo e uno stupro di gruppo a cena, e bullismo reale e virtuale a ogni ora del giorno ogni giorno. Non è esattamente che siamo adoratori di Satana, ma ci comportiamo come se lo fossimo, senza saperlo o fingendo di non saperlo.
Siamo divisi ora fra persone grigie “comuni” e persone “orribili”. Il Male, dopo essere passato attraverso di noi, è tornato fuori. Fuori, ma non in un altrove mitico, fantastico, piacevolmente orribile. Fuori in senso fisico. Nella strada di fronte, sullo stesso ballatoio, ma fuori.
E fuori in senso psichico, emotivo, caratteriale: non lo si comprende. L'assassino è sì l'assassino della porta accanto, ma se non è recuperabile e messo in riabilitazione diventa un enigma, è quello che chi l'avrebbe mai detto. In definitiva, l'escluso sociale, perché nessuno vuole esserlo o esserne coinvolto.
E in un certo modo, paradossalmente, il Bene e il Male tornano a essere valori assoluti: lo si vede dagli tsunami di odio che si alzano contro le persone “orribili” e dall'aria di linciaggio che tira quando arrestano un presunto colpevole. Ma sono fanatismi assoluti di una macchina impazzita e del tutto viscerale.
Ora, per rappresentare tutto questo, occorre un nuovo tipo di attore. Qualcuno che sia in grado di raccogliere l'eredità dei precedenti villain dello schermo ed essere l'assassino della porta accanto, il male (ormai non ha più la lettera maiuscola) che in alcune condizioni si rovescia nel bene (idem) e sa agire da santo, e anche da uomo comune. Impossibile? No. Quel qualcuno è già lì.


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