lunedì 28 settembre 2020

Le spie di Treviso Giallo 2020


Cronaca di Andrea Carlo Cappi


Treviso Giallo, sabato 26 settembre 2020: per la prima volta in un convegno pubblico in Italia – come sottolinea il conduttore e organizzatore dell’evento Pierluigi Granata, criminologo e specialista di open source intelligence – la questione dello spionaggio viene esaminata su tutti i possibili fronti: non solo quelli contrapposti della realtà e della finzione, ma anche quelli solitamente separati dell’università e della narrativa. Non potrebbe essere altrimenti dato che il festival Treviso Giallo ha come ispiratore il professor Elvio Guagnini, già artefice per anni della manifestazione Grado Giallo. 


L’evento intitolato Giallo: spie e spionaggio si è tenuto tra le 15.00 e le 16.30 al Museo Bailo di Treviso, dove già il giorno prima si era celebrato l’incontro su Diabolik presentato da me, con la partecipazione dal vivo del disegnatore Giuseppe Palumbo e in collegamento video degli storici fumettisti Mario Gomboli e Alfredo Castelli, seguito dall’inaugurazione della mostra Diabolik – Una vita in nero (aperta sino al 4 ottobre). Gli ospiti accademici dell’appuntamento del 26 settembre dedicato al mondo dei servizi segreti sono stati, in ordine di apparizione, i professori Francesco Sidoti, Vittoria Feola e Paolo Bertinetti. In rappresentanza della narrativa italiana di spionaggio c’ero io. 

L'inaugurazione della mostra

Il professor Sidoti ha provveduto innanzitutto a chiarire l’equivoco linguistico tra i termini spionaggio e intelligence: se il primo è relativo a figure non sempre nobilissime che vendono informazioni a una potenza straniera, il secondo è un’attività di importanza fondamentale per un paese e per la sua difesa da minacce esterne e dal terrorismo, che giusto in questi giorni sta facendo di nuovo sentire la sua presenza. Né bisogna credere che il mondo dei servizi segreti – volendo usare questa definizione – sia totalmente deviato, come potrebbe farci pensare la triste stagione delle stragi in Italia. Il docente ha citato figure ligie al loro compito, come l’ammiraglio Fulvio Martini e Carlo Mosca, direttori rispettivamente del SISMI e del SISDE, che non ha esitato a definire galantuomini. 

F. Walshingham ritratto da J De la Cruz

Il concetto di servizio di informazioni può sembrare un’invenzione recente, ma la professoressa Feola ne ha raccontato le origini risalenti all’Inghilterra del XVI secolo, dove la regina Elisabetta I – divenuta bersaglio del terrorismo di matrice cattolica su istigazione del pontefice in persona – affidò a sir Francis Walshingham la creazione del primo intelligence service. Gli agenti dell’epoca (compreso il drammaturgo Christopher Marlowe, che probabilmente perse la vita in servizio, come poi ha ricordato il professor Bertinetti), non solo tutelarono l’incolumità della sovrana, ma applicarono i metodi di ricerca ed elaborazione delle informazioni riguardo all’Armada spagnola, che per la prima volta non fu più così invencible. La docente ha dimostrato che, se gli attori sono diversi, le situazioni non sono molto cambiate nel corso dei secoli. 

Sun Tzu

Non deve stupire, ho commentato io, che le origini dell’intelligence siano così antiche. Si può andare molto più indietro nel tempo, al generale cinese Sun Tzu, che già intorno al 500 a.C. teorizzava l’importanza degli esploratori, di fatto gli agenti segreti. Ne L’arte della guerra esponeva tutto ciò che era necessario a un generale per vincere la battaglia prima ancora di scendere in campo: non solo la raccolta di informazioni (mediante indagini dirette o fonti in territorio nemico) ma anche la disinformazione attiva nei confronti degli avversari. 


Quest’ultimo è un metodo impiegato tuttora attraverso web magazines che dietro la facciata di notizie indipendenti forniscono propaganda e fake news all’ignaro pubblico di Internet, che poi le condivide sulle reti sociali. Ma, ha precisato il dottor Granata, a disinformazione e la propaganda utilizzano varie forme che vanno anche oltre Internet. Questo però è il territorio su cui si muove lo spionaggio economico e industriale, oggi una delle minacce principali da cui ci dobbiamo guardare.

Graham Greene

Il professor Bertinetti, curatore delle più recenti edizioni di Graham Greene e John Le Carré, ha esposto il percorso di questi due autori tra letteratura e spionaggio. Il primo, con le sue opere, è stato sotto certi aspetti un riflesso della posizione del Regno Unito a cavallo della Seconda guerra mondiale: se fino a questo spartiacque storico le storie di Greene erano ambientate perlopiù in Inghilterra – il luogo in cui accadevano gli eventi più importanti, in seguito le ambientazioni si sono estese, arrivando sino all’Indocina, Haiti e Cuba. Lo scrittore ormai era conscio che il destino del mondo si basava sulla contrapposizione USA-URSS. Le Carré, la cui carriera nello spionaggio si è svolta proprio in epoca di Guerra Fredda, è nato come autore di gialli (a sfondo spionistico ma non solo, ricordando Un delitto di classe) basati sulle sue esperienze personali per poi arrivare con La spia perfetta – in parte autobiografico – che lo ha consacrato, al pari di Greene, come romanziere senza etichette. 

John Le Carré

Il professor Bertinetti ha poi raccontato un aneddoto riguardante un suo amico britannico che solo dopo quarant’anni di conoscenza si lasciò sfuggire che il padre, durante la guerra, aveva lavorato in un ufficio all’Ammiragliato di Londra in cui operava Ian Fleming (all’epoca stratega della Naval Intelligence Division, il servizio segreto della Royal Navy, in seguito creatore di James Bond). Nella cultura inglese esiste una forte componente di discrezione che ben si adatta al mondo dell’intelligence, ha osservato il professor Bertinetti; dopodiché ha rievocato la vicenda dei Cinque di Cambridge, le talpe sovietiche (Kim Philby in testa) che, su basi ideologiche e per motivazioni storiche passarono all’URSS segreti dall’interno dei servizi britannici.

Ian Fleming

A me è toccato il compito di rivelare l’esistenza di una scuola italiana di spy-story. È emersa dalle pagine di Segretissimo, la collana di spionaggio edita da Mondadori fin dal 1960, che soprattutto negli ultimi vent’anni ha dato spazio crescente agli autori nazionali; ma è presente anche in pubblicazioni in ebook come la serie Spy Game-Storie della Guerra Fredda di Delos Digital o – per quanto mi riguarda – in una collezione personale di Oakmond Publishing



Ci dichiariamo romanzieri di avventure e di intrattenimento e siamo figli non solo di maestri come Greene, Le Carré e Fleming, ma anche di autori dichiaratamente commerciali, compresi quelli della scuola francese come Jean Bruce o Gérard De Villiers, quest’ultimo di fatto l’autore di spionaggio più venduto del mondo, nonostante non scrivesse in inglese. In ciò che scriviamo c’è decisamente una quota di intelligence, non solo perché intendiamo fare intrattenimento intelligente, ma perché ci ispiriamo a tecniche, modalità, eventi e tensioni internazionali riprese dal mondo reale, che raccontiamo in diretta o, a volte, con un lieve anticipo: mi sono permesso di citare il fatto che nel 2013 in un romanzo ho menzionato come minaccia imminente l’ISIS, di cui il mondo si sarebbe reso conto solo nel 2015.

Gérard De Villiers

Per quale motivo, a fronte dell’oggettivo successo commerciale degli scrittori italiani di spionaggio (ho citato in particolare Alan D. Altieri e Stefano Di Marino) non si parla mai di loro? A questa domanda di Pierluigi Granata ho risposto provocatoriamente che in Italia si pensa che il giallo debba essere perlopiù la narrativa che riguarda i commissari e vanno considerati solo gli scrittori che si definiscono noir. Tutto ciò che esce da tali etichette non viene compreso.
 

Quel che è peggio, c’è anche una sorta di disinformazione sotterranea: agli autori di spy-story viene applicata un’erronea etichetta ideologica che potremmo definire fascio-maschilista, dipingendo ciò che scriviamo – per citare il Thomas Mann de La montagna incantata – come politicamente sospetto. Gli intellettuali impegnati a sinistra se ne devono pertanto tenere lontani, così come le lettrici in toto, laddove gli uni e le altre sono stati in passato avidi consumatori di questo tipo di letteratura. Quindi, malgrado il nostro vasto pubblico, a livello mediatico i nostri libri rimangono oggetti ignoti. E, come dico sempre, l’uomo ha paura dell’ignoto. 

Devo ringraziare allora Treviso Giallo, in particolare Lisa Marra e Pierluigi Granata per avermi invitato: questo incontro ha portato per la prima volta la spy-story italiana a stretto contatto con i più profondi conoscitori delle tematiche di intelligence a livello accademico, a dispetto dell’inerzia dell’informazione e della critica italiane.

(Foto dell'evento: Giaco. Nella foto di apertura: John Le Carré)

venerdì 25 settembre 2020

Diabolik a Treviso Giallo 2020


Venerdì 25 settembre 2020 a Treviso, Museo Bailo, Borgo Cavour 24, un doppio evento dedicato a Diabolik nell'ambito del festival Treviso Giallo 2020.

Ore 18.30:
Andrea Carlo Cappi, scrittore, autore dei romanzi di Diabolik & Eva Kant, presenta l'incontro Giallo a fumetti: Diabolik
Ospiti:
Mario Gomboli, fumettista, storico sceneggiatore di Diabolik, direttore della casa editrice Astorina
Alfredo Castelli, fumettista e critico, storico sceneggiatore di Diabolik, creatore di Martin Mystère
Giuseppe Palumbo: fumettista, illustratore, disegnatore per le serie Il Grande Diabolik e DK.

Ore 19.30:
Inaugurazione della mostra Diabolik - Una vita in nero, aperta fino al 4 ottobre.
Segue aperitivo.

giovedì 17 settembre 2020

Premio Torre Crawford - Crawford, l'uomo sulla Torre


Sabato 19 settembre 2020 dalle 19.00 al Belvedere (via Villa) di San Nicola Arcella (Cosenza) si celebra la serata del Premio Torre Crawford, in onore dello scrittore americano Francis Marion Crawford, che proprio nella località del cosentino e ai piedi della torre che ora porta il suo nome ambientò il suo racconto più celebre, Perché il sangue è la vita del 1905, pietra miliare nella letteratura sui vampiri. Al titolo di questo racconto si ispira l'antologia ufficiale del Premio - intitolata appunto Perché il sangue è la vita - che non tratta solo di vampiri, ma declina il tema del sangue in varie forme di horror e thriller. Di seguito lo scrittore Andrea Carlo Cappi, curatore del volume, racconta la vita e la visione letteraria di F. M. Crawford.


Crawford, l'uomo sulla Torre
di Andrea Carlo Cappi

Era il suo destino diventare uno scrittore di genere e sui generis. Suo padre era lo scultore americano Thomas Crawford, una cui statua adorna il Campidoglio a Washington DC. Trasferitosi a Roma nel 1835, nel 1844 l'artista sposò la connazionale Louisa Ward, sorella della poetessa antischiavista Julia Ward, autrice del testo di Battle Hymn of the Republic, canto patriottico su musica tradizionale (qualcuno ne ricorderà il celebre ritornello Glory, glory, hallelujah). Dai Crawford nacquero quattro figli, tre dei quali si sarebbero dedicati alla letteratura: Anne Crawford von Rabe, del 1846; Mary Crawford Fraser, del 1851; e Francis Marion Crawford, che vide la luce a Bagni di Lucca nel 1854.

Quest’ultimo ebbe un’educazione internazionale: studiò negli Stati Uniti, poi a Cambridge, a Heidelberg e a Roma, presso La Sapienza. Benché di famiglia protestante, nel 1880 si convertì al cattolicesimo e nel 1884 sposò Elizabeth Berdan in una chiesa francese a Istanbul. Nel frattempo aveva vissuto per due anni in India e al suo ritorno, nel 1882, sulla base di questa esperienza aveva pubblicato il suo primo romanzo, Mr. Isaacs. Il successo lo indusse a perseverare nella narrativa, anche dopo che nel 1883 si stabilì in Italia: prima a Sorrento, quindi a Sant’Agnello (Napoli), presso Villa Crawford. In seguito acquisì la torre spagnola di San Nicola Arcella, che in suo onore sarebbe stata ribattezzata Torre Crawford. Di tanto in tanto tornava in America per tenere conferenze. Fu durante una di queste trasferte che contrasse una malattia polmonare che avrebbe minato la sua salute per sempre.

All’apice della sua carriera si calcola che avesse venduto oltre seicentomila copie dei suoi libri, il che faceva di lui un autore bestseller della sua epoca. La sua visione della narrativa era quella dell’intrattenimento intelligente e persino istruttivo. Non si vergognava di raccontare storie di avventura, amore e mistero. Considerava le opere di narrativa come teatri tascabili, per usare una sua definizione. La sua produzione nel campo del sovrannaturale avrebbe influenzato anche H. P. Lovecraft, che era suo lettore. Nella bibliografia di Crawford figurano romanzi storici e molti libri ambientati in Italia, al punto da essere considerato affine al verismo e persino un precursore di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Morì nel 1909, lasciando un’eredità di oltre cinquanta libri e quattro testi teatrali.

Uno dei suoi racconti più noti è quello che scrisse e ambientò a San Nicola Arcella nel 1905: Perché il sangue è la vita, titolo ricavato dalla Bibbia. È una delle storie di vampiri più famose al mondo, più esattamente una storia di vampire. È interessante notare che un altro dei più celebri racconti del filone è opera di sua sorella Anne Crawford, che nel 1891 aveva pubblicato A Mystery of the campagna (tradotto come Un mistero della campagna romana).

Se nella vicenda narrata da Anne, come già in Carmilla di Le Fanu (1872) la vampira ha origini antiche, in quella di Francis Marion si assiste alla nascita della creatura, che prima di diventare predatrice è lei stessa vittima, di un delitto perpetrato per nascondere un furto: un aspetto che si fonde con altri elementi di critica sociale presenti nel racconto. Non è da escludere che, mentre descriveva le regole dell’Italia rurale – tra matrimoni combinati ed emarginazione economica – Crawford avesse in mente qualche analogia con quelle della borghesia americana che avrebbe letto la sua storia.

Come accade di frequente nei racconti gotici, Perché il sangue è la vita si svolge su due piani narrativi, quello del narratore e quello del narrato: il presente, in cui lo stesso Crawford spiega con nonchalance a un ospite il misterioso fenomeno cui assistono dalla sommità della Torre; e il passato, fino alla storia d’amore innaturale tra Angelo, ormai estraneo nel suo stesso paese, e Cristina, una ragazza indipendente, fuori dalle convenzioni, che diviene dannata suo malgrado ma rimane in qualche modo innocente. Il sottofondo sessuale è evidente, ma sottinteso, con un pudore tra il cattolico e il vittoriano, il che non toglie alla storia una valenza estremamente moderna. Come del resto accade per tutti i classici.

Leggi anche gli altri post del Premio Torre Crawford:

-Il programma

-l'intervista a Giada Trebeschi

-l'intervista a Cristiana Astori

-l'intervista ad Andrea Carlo Cappi

-il mito del vampiro raccontato da Andrea Carlo Cappi

-i vincitori dell'edizione 2020


mercoledì 16 settembre 2020

Premio Torre Crawford - Giada Trebeschi


Sabato 19 settembre 2020 dalle 19.00 al Belvedere (via Villa) di San Nicola Arcella (Cosenza) si celebra la serata del Premio Torre Crawford, in onore dello scrittore americano Francis Marion Crawford, che proprio nella località del cosentino e ai piedi della torre che ora porta il suo nome (nella foto) ambientò il suo racconto più celebre, Perché il sangue è la vita del 1905, pietra miliare nella letteratura sui vampiri. Al titolo di questo racconto si ispira l'antologia ufficiale del Premio - intitolata appunto Perché il sangue è la vita - che non tratta solo di vampiri, ma declina il tema del sangue in varie forme di horror e thriller. Alla premiazione dei vincitori farà seguito lo spettacolo Sulla pelle del diavolo, di cui è protagonista Giada Trebeschi, una delle ospiti d'onore dell'evento.

Scrittrice e saggista, traduttrice, autrice e attrice teatrale, Giada Trebeschi è ora anche una videomaker, seguitissima online con la sua Rubrica delle parole desuete. Già al suo esordio, con Gli Ezzelino, è stata finalista al Premio Campiello. Ha pubblicato poi in Spagna e in Italia (da Mondadori) il romanzo La Dama Rossa. Presso Oakmond Publishing sono usciti i saggi In principio era Kaos ed Essere o non essere Shakespeare, e i romanzi storici, vincitori di numerosi premi, Il vampiro di Venezia, L’autista di Dio, L’amante del diavolo, Undici passi e La bestia a due schiene. Dal 2019 porta in tour con il musicista (e artista molteplice) Giorgio Rizzo lo spettacolo teatrale-musicale Sulla pelle del diavolo, di cui alla serata del Premio Torre Crawford, sabato 19 settembre, verrà proposta un'edizione speciale. Le abbiamo rivolto qualche domanda.


Nei suoi romanzi storici evoca spesso figure spaventose. a volte reali, a volte frutto di superstizioni, dal vampiro alla strega fino a Jack lo Squartatore. Come definisce la paura?

La paura è quel sentire che non solo ci accomuna agli altri animali, ma che ci ha permesso di sopravvivere fino ad ora. La più profonda e atavica è, com'è noto, quella della morte o di un evento che possa provocarla. Della morte conosciamo l'esistenza, ma non sappiamo niente se non che il corpo marcisce fino a scomparire. Dunque, per evitarla il più a lungo possibile, la parte più preistorica e istintiva del nostro cervello ci spinge ad aver paura. Accade esattamente lo stesso per gli animali: immaginate se la gazzella non avesse paura del leone o se la lepre non cercasse rifugio dall'aquila. È la paura che li spinge a scappare per cercare di restare in vita e a continuare la specie; ed è la nostra medesima reazione quando assumiamo ci sia un pericolo, immaginario o reale, che possa mettere a rischio la nostra esistenza.

Quindi la paura è utile?

La paura crea un'allerta maggiore, stimola i nostri sensi o li impietrisce e solo chi saprà utilizzare a proprio vantaggio l'adrenalina che ne deriva potrà riuscire a sopravvivere. Per questo motivo da secoli la letteratura e l'arte in generale raccontano proprio la paura, cercano di insinuarla in chi legge o ascolta per stimolare quelle corde che creano uno stato alterato, adrenalinico che piace soprattutto se non siamo noi a dover affrontare in prima persona i pericoli raccontati e pur abbiamo la possibilità di viverli in una sorta di transfert che ci vede però partecipi dal divano di casa.

Allora l'horror, anziché essere 'diseducativo' come è stato spesso definito, ha una sua funzione importante.

La letteratura thriller e horror non smetterà mai di esistere e di essere ricercata, poiché vi è congiunta la speranza di poter vivere emozioni che, nella realtà dei fatti, non vorremmo mai dover provare sulla nostra pelle ma che pur aneliamo, forse per sfida o forse per mettere alla prova noi stessi, seppur solo in potenza.

Da "Sulla pelle del diavolo"

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martedì 15 settembre 2020

A proposito di Max



Ricordo a più voci per Massimo Caviglione

Ci sono persone che nella vita hanno fatto poco o nulla, ma a lungo e rumorosamente, tant'è che è difficile scordarsi di loro. Viceversa, ci sono persone che hanno fatto moltissimo, ma con eleganza e silenzio. Giustamente (?) la gente non si è mai accorta di loro, troppo impegnata a seguire gli inutili e chiassosi. Giustamente (?) certuni non si ricordano di loro, a meno che non ci sia qualche pretesto per usarli a proprio vantaggio, mettendosi in mostra come "miglior amico" del defunto del momento. Per questo oggi, nel giorno del suo primo compleanno negato, Borderfiction Zone ospita i ricordi di coloro che hanno conosciuto Massimo Caviglione. (Noi ci rivediamo in fondo, per tirare le somme. A.C.C.).


Max era un uomo raro. Di pochissime parole, non faceva nulla per apparire simpatico al mondo. Eppure lo era, privilegio degli autentici amabili che non cercano il consenso come strategia sociale.
Sarà che ho vissuto a lungo in Liguria, per tutto il tempo dei miei studi universitari, e di liguri veraci tra Balbi e De Ferrari ne ho conosciuti a bizzeffe, e francamente di primo acchito si mostravano tutti burberi, un po' scostanti, avari di sorrisi. In verità non era mai così: quella sorta di maschera bisognava gestirla e scalfirla col tempo e, dopo l'inevitabile e necessario periodo di rodaggio (che pareva quasi un corteggiamento), arrivavano amicizie indimenticabili, autentiche. Che poi non siano durate nel tempo, ci metto la mia parte di responsabilità – purtroppo la distanza geografica ha un suo notevole peso specifico.
Sono convinto che Max facesse parte di questa categoria. Purtroppo la crudeltà fulminea del tempo incombente e gli eventi della vita hanno avuto un pessimo sopravvento. Sono riuscito soltanto a “intravedere” un uomo divertente, colto e un grande professionista. Ci siamo, per così dire, sfiorati. Di sicuro poteva andare meglio. Ma io credo nell'eterno ritorno degli spiriti e da qualche parte, in un'altra epoca, ci “ribeccheremo” (passatemela...), inanellando interminabili discussioni sul Male, sul capitalismo e sulle donne creative. 
Max era Massimo Caviglione. 
Danilo Arona 



Di Max ricordo innanzitutto la capacità di ascoltare, di mettersi in sintonia. I silenzi riempiti dalla sua voce, e lui, attento che valuta, ti consiglia, ti solleva. 
Max, un fratello maggiore, comprensivo, dolce e ironico. Poi penso alla casa con il bovindo ombreggiato di piante, e al giardino profumato dov’era bello chiacchierare con lui e Claudia, in un angolo il gatto Abel. I libri dappertutto, a creare un nido accogliente e rassicurante. Max si ritagliava da quel giardino segreto come un intellettuale fervido e appassionato. Mi ricordo il suo gusto della ricerca che lo portava a scoprire misteriosi testi gotici e non solo. Ti faceva appassionare con entusiasmo e competenza. Era un amante della parola, un traduttore raffinato che non si accontentava ma sapeva rendere un testo qualcosa di unico.

Cristiana Astori



Ho avuto troppo poco tempo per conoscerlo, Max, e anche questo significa la sua morte per me: la perdita di una persona che avrei voluto continuasse a essere qui, presente in questo presente, a farsi conoscere. Da me, e da altre persone. Da più persone possibili. Perché avrei voluto che diffondesse il più possibile quello che, con il suo semplice esistere, ha donato a me in pochissimo tempo. Lo ricordo e ricorderò passeggiare lungo un viale alberato. Forse aveva un braccio dietro la schiena, o forse è stato il suo incedere tranquillo, pacato eppure pensieroso, leggero e grave al contempo, a farmelo dipingere così.
Parlavamo di non so bene che cosa. Di libri, forse, o della lingua francese da cui lui traduceva, o di ricordi vecchi di decenni riportati al presente con una freschezza lucida, distaccata ma piena di compassione - quell´affetto verso ciò che si è stati che è prerogativa di chi ha la pazienza, il coraggio, l´umiltà di mettersi a tavolino davanti a se stesso per comprendersi senza giudizio. 
Max parlava, mi parlava, della sua conoscenza con Claudia, del suo percorso e di quello di lei, di idee e progetti e forse speranze e ideologie, visioni che tutt´oggi sarebbero viste come radicali, folli, utopie che vanno bene giusto nei libri, eppure erano state lì - con lui, con Claudia, decenni prima, e io cercavo di capire grazie a lui come possa accadere questa strana cosa, dove finiscano la eclatanti rivoluzioni di ieri, dove vadano a nascondersi idee che, ai tempi, promettevano di non poter essere dimenticate.
E lui me ne parlava, passeggiando quieto come un reduce di una guerra ideologica conclusa prima di poter essere vinta o persa - o così la vedevo io allora, non concependo una terza via, non avendo ancora intuito che alcune strade non smettono mai di essere percorse, di decennio in decennio e di generazione in generazione, e anche per questo la sua morte ha scavato un buco dentro di me: per quello che Max, con il suo modo di essere, rappresentava. 
Leggo e rileggo l´ultima lunga e goffa frase e mi domando come epurarla da ogni tono eclatante preservandone l´intensità. 
Quel che di Max ho conosciuto è il contrario dell´eclatanza: non urla né slogan, non il tono carico di promesse delle grandi affabulazioni storiche, non l´impianto spettacolare dei sogni narcisisti. Neanche la non meno solipsistica autocommiserazione di chi è invecchiato vedendo il proprio credo venire maliziosamente relegato tra i trafiletti meno rilevanti. 
(Non so se fosse ottimista o pessimista, Max, ma vorrei dirglielo, oggi, che le cose per molti versi stanno migliorando. Che cammino in una società che penso potrebbe piacergli, e di cui vorrei mostrargli i germi - Guardali, Max, sono lì, non sono più soltanto nei discorsi e nei libri.) 
Quel che di Max ho conosciuto era l´esatto opposto: rivelare i grandi eventi con i piccoli gesti - e me lo immagino, ora, come un amanuense che, con movimenti sciolti e precisi, compila preziosi scrigni di testimonianze. 
Lo ricordo e ricorderò mentre, passeggiando lungo quel viale alberato tra un accenno di discorso e l´altro, ha fatto un passo più breve e si è fermato. Non si parlava più, a quel punto, di libri o lingua francese o lotte o visioni o quel che rimane, ma di lui. Lui solo, lui nudo, spogliato da ogni interpretazione e significato e in ciò disarmato - non so se ci sia qualcosa che trovo più coraggioso, quando si tratta di rappresentarsi - solo per condividere con me un frammento microscopico e pesantissimo di sé, evocandolo con un gesto che, in qualsiasi altro frangente, non avrebbe lasciato in me nessuna impressione - ma Max era Max, e quel suo disarmarsi ha disarmato anche me, facendomi finire sul palco in cui stava rimettendo in scena quel frammento del proprio vissuto, imprimendomelo dentro. 
E così, ogni volta che mi capita d´inciamparvi - in quell'apparentemente innocuo, per niente eclatante, gesto - penso a Max. Al coraggio necessario non tanto a esporsi così a una semisconosciuta con cui stai passeggiando in paese, ma a realizzarsi con tale dolorosa precisione - a quanta brutale lucidità serva per mostrarsi così a se stessi. 
Non avrei scritto queste parole se Claudia non mi avesse chiesto di commemorare Max. Non sono capace di fare delle condoglianze senza che un acuto senso di vanità, horror vacui, distorca le mie parole, tantomeno di trasformare una morte nell'occasione di un discorso celebrativo, d´ispirazione, motivazionale - ma è quello che in questo caso vorrei. 
Vorrei che Max continuasse a riverberare - quella sua capacità di darsi, dicendosi, così intensamente, e per quel che mi ha detto e dato. 

Serena Bertogliatti 




Ricordo Massimo Caviglione come una persona autenticamente libera, prima di tutto. Aveva un’indipendenza di giudizio, uno spirito critico, una capacità di attingere a un patrimonio cospicuo di letture, esperienze, approfondimenti nei vari campi della cultura che ne facevano un interlocutore sempre stimolante e originale. Un uomo così chiaramente disdegnava le maschere, le ipocrisie, i compromessi del vivere sociale, a costo anche di muovere contro i propri interessi. Integro, dunque, e tenace nella difesa dei propri principi. 
Non si può parlare di Massimo senza ricordare il suo lungo sodalizio di vita e artistico con Claudia Salvatori, scrittrice eclettica e fuori dagli schemi, che nel corso della sua carriera ha contaminato e attraversato i generi, in alcuni casi arrivando a riformularne i paradigmi. Il mio ricordo più vivido è legato a lunghe chiacchierate con loro, durante le quali avevo l’impressione di entrare in una sorta di cenacolo, di laboratorio culturale in servizio permanente effettivo. Le parole e i momenti vissuti con loro mi hanno fatto crescere come persona, come lettore, come autore. 
Vorrei, però, che non venissero trascurate le traduzioni dalla lingua francese curate da Massimo, quelle che me lo hanno fatto enormemente apprezzare come intellettuale; in particolare, ricordo come particolarmente curate e raffinate quelle legate ai romanzi di Eliette Abécassis, penso ad esempio a Qumran o a L’oro e la cenere, di cui conservo gelosamente una copia autografata proprio da lui. Lo considero il ricordo prezioso di un’amicizia che ha conosciuto alti e bassi, come spesso accade alle vicende umane, ma che ha lasciato il segno di un incontro importante, ricco, capace di imprimere un segno importante.

Daniele Cambiaso 



Sono diventata amica di Massimo e Claudia durante la decade dei miei venti anni, che è coincisa con l`inizio del Millennio. 
Come molti giovani della mia generazione, non sapevo da che parte iniziare a scegliere, a farmi strada. A me piacevano le Lettere, le Lingue, la psicologia, l`introspezione, l`arte. Mia mamma, che non sapeva come consigliarmi, mi disse che Claudia e Massimo magari avrebbero potuto. Un giorno li vidi camminare per il paese e decisi di fermarli, chiacchierammo, mi diedero il loro numero di telefono fisso e poi venni invitata a un dopo-cena nella loro casa isolese con vista fiume Scrivia. 
Volevo sapere come si fa a diventare uno scrittore: se ci fosse una ricetta da seguire. 
Ma, a parte l`inclinazione, è una questione di determinazione nel continuare a seguire la propria vocazione. E allora ricordo molti discorsi fatti su questo punto. Mi spiego meglio: quando in età post-adolescente si insinua in noi il tarlo di volere fare ciò che ci piace, ma che non è in campo medico, né edile, né commerciale, ecco innescare un circolo mortale nel parentado e nelle conoscenze che iniziano a tempestarci di domande e cercano di farci cambiare idea. Allora ineffabilmente ci attacchiamo al gruppo giovanile filo-artistico di turno, che nel mio caso di allora era quello genovese. Claudia e Massimo mi raccontarono dei loro ricordi giovanili e dei tempi universitari. 
Per me Massimo e` stato un grande amico, paziente, buon ascoltatore, colto e fidato.  Credo abbia notato come io a quei tempi fossi in difficoltà nella ricerca di un equilibrio di vita e forse alle volte incerta sul da farsi.  E mi ha sempre spinto a continuare la ricerca di un mio mondo, una mia dimensione. 
Per cui ricordo che letteralmente mi diceva di “non mollare mai !” Poi a volte mi diceva che io gli nascondevo qualcosa; intendeva che potevo anche incazzarmi con lui, come dire che ero troppo educata. Pero` dico io: incazzarmi di cosa? Di sicuro non con Massimo, ma con la gente magari, boh? 
Andammo a Milano con Claudia e Massimo e anche a Genova a delle presentazioni letterarie. Diciamo che sono stata un pochino come una “nipote” virtuale. 
Io ora abito da dieci anni all`estero e in tutto questo termpo ho rivisto Claudia e Massimo una sola volta, cinque o sei anni fa, nella loro nuova casa ad Arquata. In quell`occasione Massimo si lamento di come la crescita esponenziale di internet con tutte le sue app e derivati abbia svalorizzato le traduzioni fatte dai professionisti. Credo che Massimo avrebbe voluto e meritato di piu` dalla sua professione. 
Durante il lockdown Claudia mi ha contattato per rendermi noto della scomparsa di Massimo avvenuta qualche mese prima: sono rimasta di stucco alla notizia. 
Mi rattrista ampiamente la perdita di un caro amico, che di sicuro sara` sempre ricordato. 
Mia figlia e` nata il 16 Settembre e quando avevo comunicato la notizia a Claudia e Massimo, con molto entusiasmo Massimo disse che lo stesso giorno era nato lui. 
Mi dispiace molto sapere che non ci rincontreremo più e che non potrò farti conoscere la mia bambina. Riposa in pace. 

Emanuela Casella



Massimo Caviglione. Una voce artistica e letteraria

Il bello delle serigrafie è che i colori sono assolutamente veri e che tutto in esse sembra permanere. 
La sentinella dell’arte: quale consolazione poter pensare spesse volte a quell’opera che lui amava e che anche a distanza era capace di farti vedere e contemplare. Opera che rappresenta l’uccello-garante dell’arte vera. Così come erano pure e incommensurabilmente uniche la sua umanità e la sua sensibilità, garanti del vero artistico e letterario, ma non solo.
Erano generosità intellettuale e dialogica a caratterizzarlo anche mentre contemplava l’opera di Concetto Pozzati; contemplazione che secondo lui serviva anche da difesa in caso di eccessivo risucchio concettuale; (mentre manteneva sempre dubbi sull’eventuale non riproducibilità delle opere, soprattutto nell’epoca attuale, ma viveva la cromia sempre come assolutamente vera).
Per lui il titolo del quadro concettuale, che mostra qualcosa per dire qualcos’altro, poteva essere importante ma era già successivo alla contemplazione, chiedendosi se, non a conoscenza della concezione, il primo piano enorme di un uccello gli avrebbe comunicato parimenti il concetto. Il fenomeno contemplativo nel suo primo livello di trance per lui non c’entrava infatti con quello che il quadro voleva e vuole rappresentare, ma era il fascino figurativo in quanto tale ad esercitarsi. Nel momento in cui il suo occhio si fissava sul dettaglio, ogni dettaglio era un reticolo di altro. Mentre come ben sapeva, l’opera sfugge per definizione a tutti i significati.
Quest’oggi, rivolgendo ancora una volta l’attenzione alla Sentinella dell’Arte, non possono non affiorare alla memoria le sue parole sulla medesima opera, consegnate con generosa fraternità un grigio pomeriggio di pioggia, trascritte allora su un non grande foglio di carta riciclata.
“Voglio descrivertela brevemente affinché anche tu possa averne visione come in presenza. È un primo piano enorme, sarà novanta per novanta, un quadrato, quasi tutto occupato da questo primissimo piano d’uccello. Lo sfondo è blu poroso, quasi a indicare una sorta di cielo notturno, in alto a destra la luna quasi dorata. Poi tutto risulta occupato dall’uccello bianco con la cresta nera, e sotto il collo c’è una striscia dorata che fa da pendant alla luna. A prima vista dà l’impressione di una specie di collage. Evoca una sorta di sovrapposizione tra i quattro piani: cielo, luna, uccello, striscia. In realtà è tutto stampato perché è una serigrafia. All’interno di questo primo piano, ci sono però alcune parti dipinte a mano, è questa la cosa rilevante. È simbolo della verifica, notturna, legata all’elemento oscuro primordiale, fondo; fa da richiamo questo uccello al vero valore artistico, schernendo o ridicolizzando tutto ciò che artistico non è? È davvero la simbolizzazione del vero artistico? Sentinella appunto. L’elemento notturno rappresenta sia l’elemento ctonio, sia il fatto che si tratta di un animale mitologico: non è un uccello di specie riconoscibile. Cresta e becco neri, le altre parti della testa bianche; e dal collo dipinte a mano: righe del pennello sovrapposte a mano. Nel momento in cui la contempli è come se ti addormentassi e ti risvegliassi in un mondo perfettamente sconosciuto, ti addormenti e ti svegli in un’altra dimensione, come in certe favole ti trovi in un altro mondo quasi di colpo.” 

Erika Dagnino


Ricordo di Max

Poche parole, scarne, dure, in un tiepido pomeriggio di gennaio. 
Freddo e sgomento, le gambe che cedono, il vuoto che si apre gelido dentro la pancia, mentre il volto avvampa e la gola si fa arida. 
A quasi otto mesi di distanza da quel giorno, le sensazioni riescono a tornare prepotentemente, come fossero ancora attuali. 
Il dolore lo è e continuerà a esserlo sempre. 
Avverto un senso di colpa profondo. 
L’ultimo appuntamento mancato a dicembre, la tua influenza – apparentemente un normale male di stagione – poi il ricovero per accertamenti, il pensiero che tutto dovesse risolversi in pochi giorni, senza problemi, il pensiero di venirti a trovare appena rientrato a casa, per non darti ulteriore incomodo in quel momento e in quella circostanza fastidiosa. 
Poi quella notizia. 
Inattesa e devastante. 
E il senso di colpa. 
Avrei sicuramente potuto fare di più. 
È sempre così. È la storia che si ripete. 
Rimane di te il ricordo di un amico delicato, attento, che non dimentica i dettagli, che dà importanza ai dettagli, che racconta e insegna con la leggerezza di un professore antico, che nasconde un sorriso sincero dietro quella barba ispida e quel volto apparentemente burbero. 
Ora posso dirtelo: mi hai sempre indotto un po’ di soggezione. O forse sarebbe meglio dire timore reverenziale. Sì, lo ammetto, la tua cultura, la tua memoria e il tuo piglio mi hanno sempre fatto sentire al cospetto di una commissione d’esame, alla fine sempre benevola e conciliante, ma che al principio di ogni nostro incontro pareva una parete impossibile da scalare. 
Complicato e pragmatico al tempo stesso, come un ossimoro, custodivi in te qualcosa di insondabile, qualcosa di arcano e arcaico a cui forse solo una persona poteva avere accesso. L’unica persona che ha condiviso con te l’essenza stessa della vita e che ti ha accompagnato lungo tutto il cammino, dai giorni spensierati dell’adolescenza fino all’ultimo sofferto passaggio. Sono certo che dobbiate essere entrambi grati del vostro incontro e di tutto ciò che ne è seguito. 
Mi sarebbe piaciuto avere la possibilità di lavorare con te, confrontarci sui temi a noi cari, mettere alla prova la mia narrativa con le tue competenze. Purtroppo il tempo non è mai stato dalla nostra parte. E poi non c’è stato più. 
Mi manca, colpevolmente mi manca, il saluto che non ci siamo dati. 
Sono certo che avresti trovato le parole per rendere tutto più lieve e sdrammatizzare il momento. 
Resta il dolore della terra, quella nuda terra che ti ha accolto e quella fredda che mani aliene hanno posto sul tuo ultimo giaciglio. 
Restano i discorsi interrotti, quelli che, presi e ripresi, avremmo potuto continuare a fare… 
Manchi e mancherai. 
Spero di essere stato all’altezza della tua amicizia. 
Un grande e affettuoso abbraccio, Max, ovunque tu sia… 

Gianluca D'Aquino



Il mio ricordo più antico di Massimo risale a quindici anni fa, quando l'ho conosciuto a Genova, la nostra città natale. A quel tempo collaboravo con un'associazione culturale e dovevo curare la presentazione di un libro di cui proprio Massimo era il relatore. Quella conversazione ha dato tanto ad entrambi perché fin da subito è nata un'intesa, un'affinità di anime che abbiamo percepito subito; è stato uno di quei momenti in cui il tempo si ferma e ci si trova catapultati in una dimensione speciale fatta di letteratura, scrittura e amicizia, le nostre opinioni si fondevano magicamente e alla fine abbiamo deciso come fanno i bambini, perché Massimo aveva una parte infantile da fanciullino pascoliano che non si vergognava di mostrare alle persone di cui si fidava; abbiamo deciso di diventare migliori amici. Purtroppo ci vedevamo poco, abitando lontani, ma tutte le volte che lui e Claudia venivano a Genova io ero alla stazione sull'attenti ad aspettarli. 
Le telefonate con Massimo erano infinite anche se rare e negli ultimi anni sempre più rare, perché io ho avuto la bambina e il tempo era sempre meno, purtroppo. 
Quelle telefonate svisceravano tutti gli argomenti che ci stavano a cuore al momento e poi c'era sempre quel terreno comune fatto di belle lettere che ci rendeva felici, a volte ci divertivamo a non andare d'accordo su alcuni autori classici ma sempre nel rispetto reciproco perché Massimo nell'amicizia metteva sempre al centro la persona con una delicatezza commuovente. 
Massimo correggeva i miei racconti e mi pungolava a scrivere, non sempre gli piaceva quello che leggeva ed io apprezzavo la sua sincerità. Aveva una visione particolare molto angolata nel raccontarmi alcuni suoi aneddoti di vita come uno scrittore surrealista, ma lui era un traduttore puro e mi parlava di questa sua affascinante attività nei particolari. 
Ricordo anche i pranzi tutti insieme e l'emozione quando presentavamo un nuovo libro della nostra adorata Claudia, che tanto assomiglia a Massimo in alcune espressioni e movenze, perché le anime gemelle spesso si assomigliano dopo una vita passata insieme. 
Addio Amico, ci hai lasciati in un silenzio invernale che ci ha lasciati attoniti, inaspettatamente presto, ti ricordo col sorriso dei tuoi occhi azzurri. 

Francesca Galleano 



La nostra amicizia è cresciuta nel tempo ... iniziata in un incontro a piazza della Annunziata quando avevo circa diciotto anni e si è trasformata in un amore fraterno. Max era mio fratello davvero e la sua sensibilità ha colmato buchi affettivi di tante persone. La dolcezza e la comprensione misurata in ore di attenzioni e parole e carezze verbali non hanno avuto eguali nella mia vita ed è per questo che Max ha lasciato un vuoto, un profondo e doloroso buco che solo i ricordi, e solo in parte, riescono a colmare.
L'attenzione che metteva a disposizione per chi ne aveva bisogno andava oltre il semplice ascolto. Siamo tutti capaci di ascoltare, ma è nel passaggio successivo, nella capacità empatica di capire l'altro che si trova la differenza tra le due modalità. Max era questo: non l'orecchio che ti ascoltava, ma il cuore che sentiva e capiva e sapeva riconoscere dal tono di voce il tuo stato d'animo. 
La presenza costante di un affetto grande e la conoscenza profonda del sentire femminile erano la sua forza e mostravano un livello di apertura mentale e di rispetto che rasentano l'unicità di un uomo che conosceva il sapore del sale e cercava in ogni modo di adattare il suo essere ad un mondo che non era e non è abituato a tale forma di profondità e di emotività verso gli altri. 
La sua sofferenza nel non essere talvolta capito nell'espressione della sua amicizia ed essere altrettanto misconosciuto nell'ambito lavorativo lo mortificano ma non lo hanno mai reso diffidente.... nella sua fragilità era nascosta una forza incredibile che lo ha migliorato anno dopo anno e di tutto questo amore ne era consapevole, grato alla vita di aver avuto al suo fianco Claudia, moglie, ma soprattutto compagna in un percorso angusto, ma agevole se teneva stretta la sua mano.
Ti vorrò sempre bene Max e sono sicura che troverai il modo di farci sentire ancora il tuo bene e la tua vicinanza, come sono certa che il mondo che ti ha accolto dopo il tuo ultimo respiro sia migliore di questo e ti riconosca il merito e il privilegio del tuo valore. 

Maura Grosso 


Si dice che le persone dall’animo sensibile abbiano voce bassa, sguardi tenui, forse tratti gentili. Sono idiozie, credo, perché ho conosciuto nerboruti maschiacci straordinariamente delicati, o donne dall’aspetto di vecchie iene con cuori di zucchero. 
Max era una persona dall’animo sensibile, certamente una persona gentile. Io l’ho visto solo una volta di persona, ma non certo dal suo aspetto ho potuto dedurre che fosse deluso, che fosse una persona piena di voglia di dare amore incappata nei meandri pericolosi della vita. Era un’anima candida e ferita. 
Mi è stato vicino, con amicizia fraterna, in un momento difficile per me. Mi scriveva, con Claudia, degli sms (che non cancellerò mai) così intrisi di affetto e bontà da lasciarmi sgomenta. 
Ovunque sia, io lo ringrazio di aver sfiorato la mia vita con il suo affetto e la sua vicinanza. In quei giorni bui i suoi messaggi erano per me un grande conforto, la forza con cui mi esortava a non abbattermi era commovente e nello stesso tempo contagiosa. 
Grazie Max. Amico. 

Michela Martignoni 


Ciao Massimo, Buon Compleanno! Che poi oggi è anche il mio di compleanno e quindi auguri ad entrambi. 
Sei stato proprio dispettoso ad andartene così. 
Quanti ricordi! Eravamo compagni di classe e tu eri un buon compagno. 
Comunque la nostra lunga amicizia è iniziata il quinto anno di scuola superiore, quando con noi è arrivata Claudia.
Abbiamo iniziato ad uscire insieme. Insieme abbiamo pranzato, passeggiato nella pineta di Pegli,insieme siamo andati in discoteca. 
Poi il lavoro, la vita di tutti i giorni, l'amicizia e...il tuo amore per Claudia eterno, inalterato fino alla fine.
Ecco cosa mi manca: le nostre conversazioni di persone ormai anziane.
Parlavamo di tutto senza falsi pudori o retorica: religione, politica, letteratura, i tempi della scuola, i miei nipoti e , come ho detto, prima del tuo bene grande, grandissimo per la tua Claudia con la quale sei stato ancora più dispettoso perché l'hai lasciata sola. 
Addio Massimo o meglio arrivederci. 

Erminia Pastorino 



Le stampe di Max 

L’ultima traduzione di Massimo Caviglione apparsa in stampa è quella, curatissima come sempre e giustamente divertita, offerta a un gioiellino nero/ironico dell’Ottocento, La città vampira di Paul Féval, nel volume da edicola Cerimonie nere (luglio 2017): il canto del cigno della collana Urania Horror finiva col prefigurare due congedi ben più seri e tristi, il primo di Giuseppe Lippi (dicembre 2018) – che lì regalava una delle sue ultime curatele gotiche – e il secondo appunto di Max, pochi mesi fa.
In realtà per me il primo incontro con le sue raffinate capacità di traduttore era stato su Qumran di Eliette Abécassis, un romanzo affascinante con connotazioni insieme di genere e letterarie, dove davvero la squisita eleganza nel confronto col francese aveva avuto modo di brillare. In questo ricordo parto volutamente dal fronte del lavoro di Max, delle sue tante traduzioni, perché mi pare un sacrosanto ancorché minimo tributo a un grande professionista: un uomo che del mondo editoriale ha potuto conoscere aspetti interessanti, coinvolgenti, diciamo pure appassionanti, come pure altri molto più amari. Un professionista e insieme un gentiluomo incapace di sgomitare come altri farebbero, incapace di fare il cortigiano, e che – diciamo – non ha avuto sempre fortuna con gli interlocutori. Et de hoc satis.
Solo in seguito avrei conosciuto – in realtà pochi incontri, ma affettuosi – anche l’uomo Max: un signore barbuto, garbato e coltissimo, incontrato assieme a Claudia, sua compagna di una vita, una volta ad Arquata Scrivia e tre a Torino. Quasi sempre per parecchie ore di chiacchiere vivaci: piacevolissimo conversatore, Max mostrava panorami di letture da cui emergevano gusto, intelligenza e genuino piacere intellettuale. Un curiosus – non soltanto di libri, ma di film e arti varie – di animo limpido, con una vena di malinconia profonda da sapiente antico. Nell’imbattermi in certi busti classici mi sarà caro pensare al suo profilo. 
Max era affascinato da stampe e acqueforti: ne aveva in casa, ne parlava con entusiasmo. Da uomo di cultura con esperienze editoriali, il tema della riproducibilità dell’arte poteva affascinarlo intellettualmente: ma era puro piacere quello che si avvertiva in lui davanti alle tavole. Profili di città, mappe, architetture fantastiche… Girando con mia moglie per il centro di Torino, davanti a qualche negozio o bancarella con stampe esposte, è immediato pensare a lui. Ecco, mi piace ricordare quest’uomo buono alla luce delle sue gioie. E tra le pieghe delle sue traduzioni, in certi guizzi, in alcune soluzioni del passaggio tra una lingua e l’altra che denotano non solo professionalità e soddisfazione artigianale ma un piacere più intimo, non sarà una forzatura anche per noi individuarne qualche traccia. 

Franco Pezzini


Dietro ogni grande donna c'è un grande uomo. Di solito si dice viceversa, ma per la par condicio dovrebbe essere vero anche il contrario. Specie se la coppia è composta da due persone inimitabili che sono una persona senza confronti. Ho conosciuto per prima il volto più pubblico di quest'entità, ancorché schivo e più dedito a questioni serie - per esempio scrivere e pubblicare splendidi romanzi e racconti - che all'apparenza, da qualche decennio molto di più importante della sostanza. Quando in un incontro pubblico le ho chiesto come facesse a scrivere tanto bene sia la soggettiva femminile, sia quella maschile, Claudia Salvatori rispose: Perché io sono un uomo.
Del resto ogni scrittrice/scrittore (quant'è scomodo essere politicamente corretti in una lingua in cui in realtà scrittore è anche neutro ma se lo usi ti dicono che è maschile e discriminatorio) ha il diritto di essere nel contempo di ogni sesso, razza, età, religione e universo, a seconda di quale voce decida di assumere, a patto che abbia la capacità di interpretarla. Ma nel caso di Claudia, l'interconnessione artistica con Massimo Caviglione le ha sempre consentito di essere anche uomo. Ergo, lui era anche moglie: tant'è che rilevava con la sua consueta ruvida ironia di essere chiamato il signor Salvatori. Noncurante della stupidità delle convenzioni.
Vedere questa coppia, in realtà un unico essere con due teste (bizzarro, per l'autrice che ha esordito con La donna senza testa), due corpi e una doppia possibilità di percezione, per me rappresentava la realtà di una perfetta macchina bio-intellettuale, impossibile da progettare ma realizzata dal destino. Metà scrittrice, metà traduttore, entrambi con la capacità di accedere al doppio di stimoli e al doppio di letture e interpretazioni. Ora, in apparenza, Max ci ha lasciati. Ma io non credo. Max vive non solo nel ricordo di chi, come avete visto, lo ha amato, apprezzato, stimato e ascoltato. Max vive in una coppia indissolubile, in ciò che insieme hanno dato alla cultura italiana finora e in quello che entrambi potranno continuare a dare in futuro. Superman non muore mai, il titolo di un romanzo di Claudia, vale anche per i superpoteri della cui esistenza il fumetto ancora non ha preso atto.

Andrea Carlo Cappi

domenica 13 settembre 2020

Premio Torre Crawford - Il programma


Sabato 19 settembre dalle 19.00 al Belvedere (via Villa) di San Nicola Arcella (Cosenza) si celebra la serata del Premio Torre Crawford 2020, in onore dello scrittore americano Francis Marion Crawford. Nato a Bagni di Lucca nel 1854, visse in India e negli Stati Uniti per poi tornare in Italia, dove abitò nella sua villa a Sant'Agnello (Napoli) e a San Nicola Arcella nella torre spagnola del XVI secolo che oggi porta il suo nome. Proprio nella località del cosentino ambientò il suo racconto più celebre, Perché il sangue è la vita, pietra miliare nella letteratura sui vampiri. Morì a Sant'Agnello nel 1909.

Nel corso della serata, condotta da Andrea Carlo Cappi:

-la premiazione dei vincitori e la presentazione dell'antologia ufficiale

-lo spettacolo teatral-musicale Sulla pelle del diavolo di e con Giada Trebeschi e Giorgio Rizzo

-la conversazione Paura, ieri oggi e domani con Cristiana Astori, Rosario De Sio, Ferdinando Romito, Giada Trebeschi. Sarà presente l'esperto di F. M. Crawford e membro della Pro Loco Giuseppe Solano.

-in conclusione, la performance di danza con AlmaDance e il duo musicale Carmelina Colantonio & Luca Longo

Leggi anche gli altri post del Premio Torre Crawford:

-l'intervista a Giada Trebeschi

-l'intervista a Cristiana Astori

-l'intervista ad Andrea Carlo Cappi

-F.M. Crawford raccontato da Andrea Carlo Cappi

-il mito del vampiro raccontato da Andrea Carlo Cappi

-i vincitori dell'edizione 2020




sabato 12 settembre 2020

Premio Torre Crawford - Vampiri tra noi!

Vampiri tra noi! di Andrea Carlo Cappi

Sabato 19 settembre 2020 dalle 19.00 al Belvedere (via Villa) di San Nicola Arcella (Cosenza) si celebra la serata del Premio Torre Crawford, in onore dello scrittore americano Francis Marion Crawford, che proprio nella località del cosentino ambientò il suo racconto più celebre, Perché il sangue è la vita del 1905 (qui sopra un'illustrazione d'epoca), pietra miliare nella letteratura sui vampiri. Di seguito Andrea Carlo Cappi, curatore dell'antologia ufficiale del Premio - intitolata appunto Perché il sangue è la vita - vi racconta il mito del vampiro e della sua storia nella cultura di massa.

I vampiri sono tra noi. Da sempre. Se ne trovano tracce in civiltà antichissime. Dopotutto incarnano alcune delle paure ataviche dell’uomo. Sono nosferatu, nachzehrer, esseri umani morti eppure non-morti, portatori malsani di un’immortalità a rovescio che, come gli zombie dei miti voodoo, fuoriescono nottetempo dalla tomba per cibarsi dei vivi. Probabilmente la nascita del mito è legata al fraintendimento dei fenomeni di decomposizione, che provocano alterazioni del cadavere e persino suoni misteriosi dall'interno della bara, da cui l'ipotesi ascientifica dei masticatori di sudari. Possono essere generati da morti violente - come racconta F. M. Crawford - e in particolare dal suicidio. Sono associati alle pestilenze, che non a caso producono una grande quantità di corpi da smaltire, e anzi, ne sono ritenuti responsabili. Si legga in proposito il romanzo storico Il vampiro di Venezia di Giada Trebeschi, anche lei ospite del Premio Torre Crawford.

Si attribuisce loro la capacità di trasformarsi in animali: originariamente in lupi, poi – forse per evitare il conflitto giurisdizionale con i licantropi – in pipistrelli; è probabile che la scoperta da parte dei conquistadores dei pipistrelli succhiasangue del Nuovo Mondo abbia qualcosa a che fare con l’introduzione del mammifero volante nel mito. Ma, se l’immortalità e le metamorfosi possono in qualche modo accomunare i vampiri agli dèi della mitologia, la loro abitudine di nutrirsi di sangue, anche e preferibilmente umano, e la loro possibilità di contaminare le proprie vittime trasformandole in altri non-morti, fanno di loro l’incarnazione del terrore che ci attende quando ignari e indifesi cadiamo preda del sonno. I vampiri non si possono esporre alla luce del sole, quindi è di notte che vivono la loro non-vita e vanno a caccia di prede.

Con la letteratura gotica del XIX secolo – da Il vampiro di John Polidori al Dracula di Bram Stoker – il non-morto assume le caratteristiche che lo rendono uno dei principali cattivi della narrativa. Il primo adattamento cinematografico di Dracula è del 1922, venticinque anni dopo la pubblicazione del romanzo di Stoker, quando senza pagare i diritti d’autore il regista tedesco Murnau cambia il nome del personaggio in Orlok e gira Nosferatu. Altri nove anni e il conte approda a Hollywood, dove, prima del suo celebre Freaks, Tod Browning dirige Bela Lugosi in un Dracula ufficiale che apre la stagione dei mostri della Universal Pictures. E voilà, il vampiro è servito: da quel momento e per decenni (soprattutto nei film della casa di produzione britannica Hammer, che recluta l'impeccabile Christopher Lee nel ruolo del conte) eleganti succhiasangue di nobili natali addentano il collo di giovani fanciulle.

In realtà, sottolinea il saggista Paul Barber nel suo Vampiri, sepoltura e morte, secondo la tradizione slava un vampiro autentico dovrebbe avere l'aspetto di un contadino grassottello e rubizzo, con gli umili vestiti ancora sporchi di terriccio. Niente pallidi nobiluomini seduttori in mantello nero. E poi, perché dovrebbero essere per forza di sesso maschile? Può essere una donna-vampiro a sedurre amanti malcapitati, come nel racconto di Crawford. E non è neppure detto che le prede debbano per forza essere di sesso opposto, come sottolinea Joseph Sheridan Le Fanu nel suo celebre Carmilla del 1872 (sotto un'illustrazione d'epoca) che avrebbe generato il ricco filone delle vampire lesbiche.


Ormai nel mito è incastonata anche una componente erotica più o meno riconoscibile, che si proietterà nei romanzi di Anne Rice come in quelli di Laurell K. Hamilton. C’è anche chi, per emulare Dracula o Lestat, cerca di imitare i vampiri nella vita reale: si legga in proposito l’interessantissimo
Bloodlust - Conversations with Real Vampires di Carol Page. Senza contare i serial killer più o meno cannibali che dalla cronaca nera passano a infestare letteratura e cinema, usurpando i tradizionali territori del vampiro. Questa, tra l'altro, è la tematica della novelette di Cristiana Astori all'interno dell'antologia ufficiale del festival.

Nel frattempo i fumetti anni Settanta della Marvel Comics (che oltre ad adattare Dracula danno vita anche al cacciatore di vampiri Blade e allo scienziato vampiro mutato Morbius) hanno generato i vampiri-supereroi: una nuova tipologia che, oltre che nella corrente stagione dei cinecomics, sullo schermo è stata rivisitata anche nella saga di Underworld, dove li abbiamo visti in guerra contro i licantropi, confratelli proletari e molto meno trendy nell’abbigliamento. Ogni tanto qualcuno si ricorda delle origini di predatore del vampiro, ed ecco le feroci creature della trilogia Dal tramonto all’alba di Rodriguez & Tarantino.

Mentre al cinema il non-morto nella sua accezione originale ha popolato le pellicole di zombie contaminati - da George Romero a Resident Evil - alle nuove generazioni del XXI secolo il vampiro è stato invece presentato come un teenager tenebroso che non si può esporre al sole perché luccica di lustrini (mi rendo conto: chiunque si vergognerebbe a uscire di giorno con la pelle glitter). Così, mentre le adolescenti di mezzo secolo fa ancora temevano le visite notturne del Conte transilvano, le twilighters del 2010 spalancavano gioiose le finestre sognando timidi giovanotti palliducci, senza sapere quali orrori le attendessero. Molto meglio l'affermazione del vampiro nero negli anni Settanta - un'epoca in cui non c'era bisogno di imporre l'inclusione per legge, bastava già il cinema blaxploitation - con i film di BlaculaE, a proposito di inclusione, ora porto l'acqua - anzi, il sangue, notoriamente più denso - al mio mulino e riprendo il discorso sulle vampire lesbiche.

Qualcuno ricorderà come il filone sia stato ripreso al cinema alla fine degli anni Sessanta e almeno fino agli anni Ottanta da registi come lo spagnolo Jess Franco (autore tra l'altro del classico Vampyros Lesbos/Las vampiras) o il francese Jean Rollin (a partire da La vampire nue). Inutile nascondere che l'elemento sessuale del mito vampiresco fosse un ottimo pretesto per esibire nudità femminili, ancora insolite per il grande schermo... in una parola, sexploitation. Ma va rammentato assolutamente il contesto storico di ribellione post-Sessantotto in cui venivano distribuiti questi film. In particolare, per Franco - che casualmente aveva lo stesso cognome del dittatore al potere nel suo paese - raccontare una storia di lesbiche nude e sessualmente libere era una sfida aperta alla repressiva mentalità vetero-cattolica, in un'epoca in cui un cinema come quello di Pedro Almodovar non poteva essere neanche minimamente immaginato.

Nello stesso periodo però anche nel nostro fumetto nazionale si avvertivano esigenze analoghe: libertà espressiva, ribellione alle convenzioni e alle censure di un'Italia democristiana e, s'intende, sfruttamento commerciale delle pulsioni erotiche adolescenziali. Dopo la stagione criminale dei fumetti 'con la K' sul filone inagurato da Diabolik & Eva Kant, arrivò quella del fumetto esplicitamente sexy, di cui le vampire (preferibilmente lesbiche) erano le protagoniste principali: Zora, Jacula, Sukia, per citare le testate più famose. Nel tempo sull'abbinamento eros & thanatos avrebbe prevalso l'elemento più esplicitamente porno, prima del tramonto del fumetto sexy, sopraffatto dalle più immediate videocassette hardcore.

Nondimeno, a mio avviso, il filone meritava una rilettura più consona ai nostri tempi, non necessariamente finalizzata a un fugace consumo onanistico. Non a caso il pubblico che più ha gradito i miei romanzi di Danse Macabre - pur dichiaratamente ispirata a quel cinema e a quei fumetti - non è costituito da maschietti arrapati ma da lettrici che, a giudicare dalle lusinghiere recensioni, vi hanno trovato una carica erotica e - forse - una visione del mondo a loro più prossima; inaspettatamente considerando che l'autore è di sesso maschile.

Ora i primi due romanzi del ciclo Danse Macabre, ovvero Le vampire di Praga e Sangue freddo, sono disponibili in un volume doppio edito da Excalibur, con doppia copertina, su entrambi lati con un'immagine della protagonista, interpretata dalla modella Délice la Rouge. Lo trovare in vendita nelle librerie Mondadori (dove lo potete ordinare, anche se alcuni vi racconteranno il contrario) e online su IBS, Mondadori Store, e Amazon. Chi passasse da San Nicola Arcella la sera di sabato 19 potrà acquistarlo sul posto: sarò lieto di fare una dedica.

Ma intanto non abbassate la guardia. Non lasciatevi ingannare o sedurre da vampiri o vampire al di fuori della letteratura o del cinema: in qualsiasi epoca, sono sempre belve pericolose dall’aspetto falsamente umano, che si nutrono del nostro sangue. Fenomeni di un baraccone che ancora ci spaventa e ci affascina, dopo tanti secoli. O dovrei dire millenni?

Leggi anche gli altri post del Premio Torre Crawford:

-l'intervista a Giada Trebeschi

-l'intervista a Cristiana Astori

-l'intervista ad Andrea Carlo Cappi

-F.M. Crawford raccontato da Andrea Carlo Cappi

-il mito del vampiro raccontato da Andrea Carlo Cappi

-i vincitori dell'edizione 2020