lunedì 28 settembre 2020

Le spie di Treviso Giallo 2020


Cronaca di Andrea Carlo Cappi


Treviso Giallo, sabato 26 settembre 2020: per la prima volta in un convegno pubblico in Italia – come sottolinea il conduttore e organizzatore dell’evento Pierluigi Granata, criminologo e specialista di open source intelligence – la questione dello spionaggio viene esaminata su tutti i possibili fronti: non solo quelli contrapposti della realtà e della finzione, ma anche quelli solitamente separati dell’università e della narrativa. Non potrebbe essere altrimenti dato che il festival Treviso Giallo ha come ispiratore il professor Elvio Guagnini, già artefice per anni della manifestazione Grado Giallo. 


L’evento intitolato Giallo: spie e spionaggio si è tenuto tra le 15.00 e le 16.30 al Museo Bailo di Treviso, dove già il giorno prima si era celebrato l’incontro su Diabolik presentato da me, con la partecipazione dal vivo del disegnatore Giuseppe Palumbo e in collegamento video degli storici fumettisti Mario Gomboli e Alfredo Castelli, seguito dall’inaugurazione della mostra Diabolik – Una vita in nero (aperta sino al 4 ottobre). Gli ospiti accademici dell’appuntamento del 26 settembre dedicato al mondo dei servizi segreti sono stati, in ordine di apparizione, i professori Francesco Sidoti, Vittoria Feola e Paolo Bertinetti. In rappresentanza della narrativa italiana di spionaggio c’ero io. 

L'inaugurazione della mostra

Il professor Sidoti ha provveduto innanzitutto a chiarire l’equivoco linguistico tra i termini spionaggio e intelligence: se il primo è relativo a figure non sempre nobilissime che vendono informazioni a una potenza straniera, il secondo è un’attività di importanza fondamentale per un paese e per la sua difesa da minacce esterne e dal terrorismo, che giusto in questi giorni sta facendo di nuovo sentire la sua presenza. Né bisogna credere che il mondo dei servizi segreti – volendo usare questa definizione – sia totalmente deviato, come potrebbe farci pensare la triste stagione delle stragi in Italia. Il docente ha citato figure ligie al loro compito, come l’ammiraglio Fulvio Martini e Carlo Mosca, direttori rispettivamente del SISMI e del SISDE, che non ha esitato a definire galantuomini. 

F. Walshingham ritratto da J De la Cruz

Il concetto di servizio di informazioni può sembrare un’invenzione recente, ma la professoressa Feola ne ha raccontato le origini risalenti all’Inghilterra del XVI secolo, dove la regina Elisabetta I – divenuta bersaglio del terrorismo di matrice cattolica su istigazione del pontefice in persona – affidò a sir Francis Walshingham la creazione del primo intelligence service. Gli agenti dell’epoca (compreso il drammaturgo Christopher Marlowe, che probabilmente perse la vita in servizio, come poi ha ricordato il professor Bertinetti), non solo tutelarono l’incolumità della sovrana, ma applicarono i metodi di ricerca ed elaborazione delle informazioni riguardo all’Armada spagnola, che per la prima volta non fu più così invencible. La docente ha dimostrato che, se gli attori sono diversi, le situazioni non sono molto cambiate nel corso dei secoli. 

Sun Tzu

Non deve stupire, ho commentato io, che le origini dell’intelligence siano così antiche. Si può andare molto più indietro nel tempo, al generale cinese Sun Tzu, che già intorno al 500 a.C. teorizzava l’importanza degli esploratori, di fatto gli agenti segreti. Ne L’arte della guerra esponeva tutto ciò che era necessario a un generale per vincere la battaglia prima ancora di scendere in campo: non solo la raccolta di informazioni (mediante indagini dirette o fonti in territorio nemico) ma anche la disinformazione attiva nei confronti degli avversari. 


Quest’ultimo è un metodo impiegato tuttora attraverso web magazines che dietro la facciata di notizie indipendenti forniscono propaganda e fake news all’ignaro pubblico di Internet, che poi le condivide sulle reti sociali. Ma, ha precisato il dottor Granata, a disinformazione e la propaganda utilizzano varie forme che vanno anche oltre Internet. Questo però è il territorio su cui si muove lo spionaggio economico e industriale, oggi una delle minacce principali da cui ci dobbiamo guardare.

Graham Greene

Il professor Bertinetti, curatore delle più recenti edizioni di Graham Greene e John Le Carré, ha esposto il percorso di questi due autori tra letteratura e spionaggio. Il primo, con le sue opere, è stato sotto certi aspetti un riflesso della posizione del Regno Unito a cavallo della Seconda guerra mondiale: se fino a questo spartiacque storico le storie di Greene erano ambientate perlopiù in Inghilterra – il luogo in cui accadevano gli eventi più importanti, in seguito le ambientazioni si sono estese, arrivando sino all’Indocina, Haiti e Cuba. Lo scrittore ormai era conscio che il destino del mondo si basava sulla contrapposizione USA-URSS. Le Carré, la cui carriera nello spionaggio si è svolta proprio in epoca di Guerra Fredda, è nato come autore di gialli (a sfondo spionistico ma non solo, ricordando Un delitto di classe) basati sulle sue esperienze personali per poi arrivare con La spia perfetta – in parte autobiografico – che lo ha consacrato, al pari di Greene, come romanziere senza etichette. 

John Le Carré

Il professor Bertinetti ha poi raccontato un aneddoto riguardante un suo amico britannico che solo dopo quarant’anni di conoscenza si lasciò sfuggire che il padre, durante la guerra, aveva lavorato in un ufficio all’Ammiragliato di Londra in cui operava Ian Fleming (all’epoca stratega della Naval Intelligence Division, il servizio segreto della Royal Navy, in seguito creatore di James Bond). Nella cultura inglese esiste una forte componente di discrezione che ben si adatta al mondo dell’intelligence, ha osservato il professor Bertinetti; dopodiché ha rievocato la vicenda dei Cinque di Cambridge, le talpe sovietiche (Kim Philby in testa) che, su basi ideologiche e per motivazioni storiche passarono all’URSS segreti dall’interno dei servizi britannici.

Ian Fleming

A me è toccato il compito di rivelare l’esistenza di una scuola italiana di spy-story. È emersa dalle pagine di Segretissimo, la collana di spionaggio edita da Mondadori fin dal 1960, che soprattutto negli ultimi vent’anni ha dato spazio crescente agli autori nazionali; ma è presente anche in pubblicazioni in ebook come la serie Spy Game-Storie della Guerra Fredda di Delos Digital o – per quanto mi riguarda – in una collezione personale di Oakmond Publishing



Ci dichiariamo romanzieri di avventure e di intrattenimento e siamo figli non solo di maestri come Greene, Le Carré e Fleming, ma anche di autori dichiaratamente commerciali, compresi quelli della scuola francese come Jean Bruce o Gérard De Villiers, quest’ultimo di fatto l’autore di spionaggio più venduto del mondo, nonostante non scrivesse in inglese. In ciò che scriviamo c’è decisamente una quota di intelligence, non solo perché intendiamo fare intrattenimento intelligente, ma perché ci ispiriamo a tecniche, modalità, eventi e tensioni internazionali riprese dal mondo reale, che raccontiamo in diretta o, a volte, con un lieve anticipo: mi sono permesso di citare il fatto che nel 2013 in un romanzo ho menzionato come minaccia imminente l’ISIS, di cui il mondo si sarebbe reso conto solo nel 2015.

Gérard De Villiers

Per quale motivo, a fronte dell’oggettivo successo commerciale degli scrittori italiani di spionaggio (ho citato in particolare Alan D. Altieri e Stefano Di Marino) non si parla mai di loro? A questa domanda di Pierluigi Granata ho risposto provocatoriamente che in Italia si pensa che il giallo debba essere perlopiù la narrativa che riguarda i commissari e vanno considerati solo gli scrittori che si definiscono noir. Tutto ciò che esce da tali etichette non viene compreso.
 

Quel che è peggio, c’è anche una sorta di disinformazione sotterranea: agli autori di spy-story viene applicata un’erronea etichetta ideologica che potremmo definire fascio-maschilista, dipingendo ciò che scriviamo – per citare il Thomas Mann de La montagna incantata – come politicamente sospetto. Gli intellettuali impegnati a sinistra se ne devono pertanto tenere lontani, così come le lettrici in toto, laddove gli uni e le altre sono stati in passato avidi consumatori di questo tipo di letteratura. Quindi, malgrado il nostro vasto pubblico, a livello mediatico i nostri libri rimangono oggetti ignoti. E, come dico sempre, l’uomo ha paura dell’ignoto. 

Devo ringraziare allora Treviso Giallo, in particolare Lisa Marra e Pierluigi Granata per avermi invitato: questo incontro ha portato per la prima volta la spy-story italiana a stretto contatto con i più profondi conoscitori delle tematiche di intelligence a livello accademico, a dispetto dell’inerzia dell’informazione e della critica italiane.

(Foto dell'evento: Giaco. Nella foto di apertura: John Le Carré)

1 commento:

  1. Durante la bella intervista concessaci oggi, da Andrea Carlo Cappi, nel mio programma Racconti Urbani (radiocanale7), sul finire abbiamo discusso di editoria. È vero che autori importanti di Segretissimo sono spesso (per non dire sempre) snobbati dalla critica letteraria e dai programmi culturali. Eppure rappresentano ciò che una volta erano gli scrittori dei romanzi d'appendice. Romanzi non noiosi che si leggono dall'inizio alla fine. Vi garantisco che molti titoli vincitori di premi importanti non vengono digeriti già dopo le prime venti pagine. Forse quindici. E il lettore ripone il libro nel cassetto.

    Pierluigi Larotonda
    Radiocanale7

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