giovedì 20 ottobre 2022

Iperwriters - Leggende in estinzione

Photo: Athanasios Papazacharias on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 8 - Leggende in estinzione

Venerdì, ore 13. Siamo sempre alla biblioteca comunale, a perdere la vita. Ma non inattivi: ci formiamo da soli, senza maestri e senza direzioni. Io leggo e scrivo, riempiendo a mano larghi quaderni. Max legge e traduce opere che oggi non sembrano esistere più.
Eravamo immersi in una Francia degli anni Cinquanta in cui la scrittura riscattava dalle sofferenze di una nascita infelice e perfino dalla povertà. Avevamo scoperto l'ultimo grande (e “maledetto”) genio francese: Jean Genet. In seguito sarebbe stato ristampato dal gruppo Saggiatore-Tropea-Pratiche nel periodo in cui con Marco Tropea iniziavo a pubblicare per le librerie: cosa che mi avrebbe resa euforica. Il Saggiatore aveva già pubblicato il saggio di Jean Paul Sartre dedicato a Genet: Saint Genet comedien et martyr.
Di Genet Max traduceva Notre Dame des Fleurs, allora non disponibile in italiano. Dovrei avere ancora i suoi quaderni pieni della sua grafia aerea ed elegante. Pubblicherei quella traduzione, se i diritti di Genet fossero liberi. Il romanzo faceva paura per la sua bellezza, e l'autore era una leggenda (ancora) vivente.
Prima della mattanza epocale, negli anni Settanta, almeno una compagnia teatrale alternativa su dieci metteva in scena Les Bonnes. Poi è arrivato lo spettacolo di Lindsay Kemp Flowers, ispirato da Nostre DameRicordo molto bene la scena in cui la protagonista Divine muore tisica, inondandosi di sangue e facendolo sgocciolare fino a terra. Che Flowers fosse una sacra rappresentazione non mi ha stupita affatto: così doveva essere.
Quello che mi ha lasciata sbalordita è stato vedere degli italiani venerare Divine e chinarsi fino a toccarle i piedi, come avrebbero fatto un secolo prima con una statua della Madonna. Bisogno del sacro?
Troppo bisogno. Occorreva svaporarlo al più presto possibile.
Non è un caso che gli scrittori francesi della generazione successiva a quella di Genet non lo abbiano mai ammirato, preso a modello, citato, copiato. Al contrario, dagli anni Ottanta e Novanta si sono moltiplicati attacchi e ridimensionamenti.
Ma tutto questo, direte, che c'entra con la letteratura italiana?
C'entra.




domenica 9 ottobre 2022

Everything, everywhere, all at once


Recensione di Andrea Carlo Cappi
 
Come dicono gli stessi sceneggiatori-registi Daniel Kwan e Daniel Scheinert (alias "i Daniels"), ecco dieci film al prezzo di uno: fantascienza nel multiverso, commedia orientale bilingue, sfondo sociale asiatico-americano, meta-film con assortimento di parodie, riflessione filosofica, vicenda strappalacrime, azione, kung-fu, un tocco di Douglas Adams (il Woody Allen del fantastico, autore di Guida galattica per gli autostoppisti) e, se vogliamo, il remake alternativo di una pellicola degli anni Duemila di cui vi dico più avanti. Non tutte le componenti sono dosate alla perfezione, ma il risultato è singolare.
In primo luogo funziona il cast, in cui Michelle Yeoh – nel ruolo della protagonista Evelyn – assurge al ruolo di... diva assoluta. Bellissima sessantenne, l’attrice sino-malese resa celebre dal cinema di Hong Kong anni Ottanta (anche al fianco di Jackie Chan) e in seguito da 007-Il domani non muore mai e La tigre e il dragone, è apparsa di recente in un paio di film Marvel, in particolare in Shang-Chi, dove mostrava una volta di più la sua eleganza marziale. Versatilità in scena e agilità nell’azione ne fanno una figura senza pari nel cinema.
Ma – oltre a una sorprendente Jamie Lee Curtis, agente delle tasse magnificamente detestabile – reggono il confronto l’ultranovantenne caratterista James Hong (il severo padre di Evelyn), la trentenne Stephanie Hsu (la figlia adolescente Joy) e il cinquantenne Ke Huy Quan (il marito), che qualcuno ricorderà nei suoi ruoli giovanili in Indiana Jones e il tempio maledetto e I Goonies. Tutti devono interpretare, cosa per nulla facile, differenti incarnazioni dei propri personaggi nel multiverso.


Per chi avesse poca familiarità con l’argomento, l'ipotesi del multiverso implica l’esistenza di un numero esteso di realtà alternative, coesistenti con quella in cui viviamo ma non sempre simili. Il concetto risale più o meno ad Anassimandro di Mileto (VI secolo a.C.) ma è divenuto popolare nella fiction più o meno sessant’anni fa con i fumetti di Flash; la DC Comics ha poi adottato l’espediente per risolvere le incoerenze tra varie versioni dei propri personaggi e oggi, al pari della Marvel Comics, per far convivere i propri vari adattamenti sullo schermo: se qualcosa era diverso... era in un altro universo. Al cinema la Marvel ci ha giocato ultimamente con Spiderman e il Dottor Strange.
Ma la vera domanda è: qualcuno ricorda The One?
Diretto nel 2001 da James Wong (anche co-sceneggiatore al fianco di Glen Morgan, con cui ha firmato parecchi episodi di The X-Files), quel film vedeva come comprimari Carla Gugino, Delroy Lindo e Jason Statham, e come protagonista Jet Li. Il celebre interprete di arti marziali, all’epoca in prestito al cinema USA, raffigurava varie versioni dello stesso personaggio nel multiverso; tra costoro, da una parte un viaggiatore interdimensionale che intende eliminare tutti gli altri "sé" per assorbirne le energie diventando un superuomo (l’Unico del titolo); e dall'altra l’ultimo ignaro alter ego superstite, costretto a confrontarsi con il sé-avversario.


Qui le cose cambiano: in uno degli altri universi, Evelyn Quan è un genio della scienza che ha scoperto come collegarsi con i mondi paralleli, facoltà che ora qualcun altro usa in modo distruttivo. Nella nostra realtà, invece, Evelyn non è riuscita in niente e, come emigrata cinese negli USA, gestisce stressata la lavanderia aperta con il marito, senza rendersi conto che questi ormai vuole il divorzio; ma intanto lei deve aggiustare i rapporti con la figlia adolescente e cercare il plauso del padre in visita dalla patria, un uomo all’antica che non ha mai accettato le sue scelte; anzi, non ha mai accettato di avere una figlia femmina, quindi difficilmente potrebbe mandar giù una nipote non solo americana, ma anche tatuata e lesbica.
Mentre la nostra Evelyn affronta un serio problema fiscale da cui dipende la sopravvivenza della lavanderia, da un’altra realtà una diversa incarnazione del marito occupa temporaneamente il corpo di quest’ultimo e le spiega che l’intero multiverso sta per essere assorbito da un immenso buco nero a forma di bagel. Solo lei, quella che ha avuto meno successo nella vita fra tutte le sue versioni possibili, può salvare ogni dimensione. Alla nostra Evelyn non resta dunque che collegarsi con altre proprie incarnazioni e mutuarne le tecniche di sopravvivenza... cosa possibile solo attuando eventi a elevata improbabilità.
Da questo momento il film diventa assolutamente imprevedibile, cambiando registro di continuo e raggiungendo paradossi assoluti, momenti grotteschi, assurdità geniali. Per dirla tutta, il lieto fine, un po’ troppo dilatato e disneyano, non tiene ben conto dei disastri che intanto sono avvenuti nelle varie realtà alternative. Ma i buoni sentimenti prevalgono e tutto si risolve con un invito alla comprensione reciproca, che vuol essere il messaggio del film. Il risultato diverte e persino a tratti commuove, oltre a mostrare una grandissima prova di Michelle Yeoh, senza la quale nessuno degli universi narrati potrebbe reggere un solo istante.

Nota del 13 marzo 2023: il film ha ricevuto i seguenti premi Oscar: miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura originale, miglior montaggio, migliore colonna sonora, miglior attrice protagonista (Michelle Yeoh), miglior attrice non protagonista (Jamie Lee Curtis), miglior attore non protagonista (Ke Huy Quan).

giovedì 6 ottobre 2022

Iperwriters - La sformazione

Photo: Tyler Casey on Unsplash


Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 7 - La sformazione

Venerdì, ore 13. Sono, con Max, alla biblioteca comunale a perdere tre anni di vita. Alla deriva, lasciandomi trasportare dalle onde, e sperando che mi conducano da qualche parte sulla terraferma.
Ma a questo punto, se continuate a seguirmi, vi chiederete qual è la mia formazione, fra tante influenze che tendevano a sformarmi. Che cosa ho letto? Me lo hanno domandato spesso. Soprattutto gli scrittori con pedigree, scandalizzati che una come me, invece di fare la donna delle pulizie, potesse lavorare (orrore!) al loro livello.
Ecco qua: Giovanni Verga letto a tredici anni. Non era nel programma scolastico; me lo ha messo nelle mani la mia insegnante: io non dovevo perdere tempo con letture sciocche.
Alessandro Manzoni. La sua scrittura è fisica: te lo fa vedere, Don Abbondio che percorre quella stradina che costeggia il lago. Una scrittura che ti mangia e si fa mangiare.
Con Manzoni ho sentito per la prima volta quello che si può fare con le parole. Dai tempi delle scuole medie ho sognato di riuscire un giorno a compiere qualcosa che potesse avvicinarsi a una simile magia.
Poi, alle superiori, Eugenio Montale (di cui ricordo ancora versi a memoria) e tanto, tanto Pirandello. Che non era nei programmi scolastici, ma che ho divorato tutto. Grazie a Pirandello ho passato l'esame di maturità spensieratamente e senza dolore. Godendo ancora di un po' di credito di stima che era arrivato ai membri della commissione, ho dovuto rispondere a una sola domanda (che non chiedeva risposta):
“Se per Pirandello siamo tante persone quanti sono gli occhi che ci guardano, in quanti siamo in questa stanza?”
Dopo? Dopo sono arrivati gli stranieri. Wilde, Bronte, Shelley, Poe, Melville. Un innamoramento pazzo per Arthur Rimbaud. Lettrice onnivora, passavo da uno stimolo ricevuto da una lettura ad altre letture. All'Università ho letto À rebours, di Huysmans, un libro di cui uno dei docenti non conosceva neppure l'esistenza (per questo mi avrà cacciata al suo esame, sicuramente).
Eravamo approdati, Max e io, alla Francia, la terra delle leggende letterarie.

mercoledì 5 ottobre 2022

Operazione Kazan: le radici del presente


Recensione di Andrea Carlo Cappi

È uscito da Salani un interessante romanzo del giornalista televisivo spagnolo Vicente Vallés – noto in particolare come commentatore delle elezioni negli USA – già autore di non-fiction su argomenti che qui sono trattati con pari competenza in chiave di narrativa spionistica e fantapolitica.
La vicenda si apre con l'acclamazione alle primarie del Partito Democratico statunitense della candidata Nathalie Brooks, dopo che l'anziano presidente in carica ha deciso di non ripresentarsi alle elezioni del 2024. Con il suo curriculum politico e il suo prestigio personale, la Brooks ha ottime probabilità di diventare la prima donna alla Casa Bianca.
Ma la sua probabilissima vittoria porterà a compimento un piano dei servizi segreti sovietici cominciato oltre un secolo prima e che ai tempi di Stalin fu denominato Operazione Kazan. Ora ne sono a conoscenza solo due ex-agenti del KGB, uno dei quali, però, è l'attuale presidente della Federazione Russa, che entro pochi mesi avrà modo di influenzare a suo piacimento la politica americana.
L'altro ex-agente è il veterano Kovalev, ormai in pensione. Ma durante la Guerra Fredda questi, insieme a due colleghi dello spionaggio americano e svizzero, aveva creato un gruppo segreto per lo scambio di informazioni, in modo da evitare equivoci tra le grandi potenze. Temendo le disastrose conseguenze dell'operazione, Kovalev rispolvera parole d'ordine vecchie di quarant'anni e riprende i contatti.
Tra incontri clandestini e doppi giochi, intanto, qualche indizio arriva anche a Madrid, dove operano due giovani agenti: Pablo Perkins, che funge da collegamento tra servizi segreti americani e spagnoli, e la sua referente nel CNI, Teresa Fuentes. Tocca a loro ricostruire un secolo di vicende segrete e, soprattutto, fermare l'Operazione Kazan. Sempre che sia possibile riuscirci.
L'autore si muove con agilità tra un luogo e l'altro, e tra passato e presente, raccontando tutto in modo accessibile anche a chi non abbia familiarità con la narrativa di spionaggio. Se per i personaggi storici utilizza i nomi veri, a quelli contemporanei ne attribuisce di fittizi, anche se dalla Casa Bianca al Cremlino sono ben riconoscibili le figure reali a cui alcuni si ispirano. Ho letto il romanzo per la casa editrice poco dopo la sua pubblicazione in Spagna e mi sono immediatamente proposto per tradurlo, data la sua vicinanza per temi e struttura narrativa a buona parte della mia produzione.


Vallés e il traduttore, Noir in Festival, 2022




venerdì 30 settembre 2022

Ôgon Batto (Il ritorno di Diavolik)


Recupero di Andrea Carlo Cappi

Grazie a Bloodbuster e a case di distribuzione video, come in questo caso la Sinister Film, che riportano alla luce pellicole scomparse da decenni, si scopre sempre qualcosa di nuovo. Per esempio il dvd del 2020 di un film del 1966 il cui titolo sembrava dire una cosa, l’immagine di copertina un’altra, ma credits e quarta di copertina di questa attenta edizione ne svelano subito le origini nipponiche e gli inganni della distribuzione italiana, accendendo un’immediata curiosità. L’ottima pubblicazione, con audio italiano e giapponese sottotitolato, trailer nelle due lingue e galleria fotografica, contiene anche un poster double-face dei manifesti italiani. Il protagonista del film altri non è che il personaggio noto in Italia come Fantaman, precursore di Superman e Batman, e tra gli interpreti appare un giovane Shin’ichi ‘Sonny’ Chiba, futuro attore di culto voluto da Tarantino in ‘Kill Bill’.
Ma nel 1968 un titolo come ‘Il ritorno di Diavolik’ poteva indurre uno spettatore distratto ad aspettarsi il seguito del ‘Diabolik’ di Mario Bava, dai fumetti delle sorelle Giussani inaugurati con successo nel 1962. Manifesti e fotobuste dell’epoca mostravano scene (disegnate) tra poliziesco e action che non esistono nel film e un protagonista stile ‘Kriminal’, il fumetto di Magnus & Bunker nato nel 1964 sull’onda di ‘Diabolik’ e portato sullo schermo da Umberto Lenzi (1966) e Fernando Cerchio (1968). Ciliegina sulla torta: sulle locandine sono accreditati il regista Terence Marvin Jr. e gli interpreti Thomas Lee, Peter Conway e Deborah Scott, quest’ultima probabilmente la bionda dai vestiti laceri avvinghiata alle gambe del protagonista. Ma neanche loro sono mai esistiti: un tipico esempio di pubblicità ingannevole, per inserire il film in un filone quando apparteneva a tutt’altro.
Perché, una volta in sala, lo spettatore si trovava di fronte una pellicola giapponese in bianco e nero datata 1966, su un quantomeno bizzarro protosupereroe che ha davvero una faccia da teschio come quella di Kriminal... ma non è una maschera, è proprio la sua, con qualche dente mancante. Lo dicevano qualche settimana fa in streaming i Manetti Bros. e i ragazzi di Bloodbuster: negli anni Sessanta-Settanta molte pellicole venivano distribuite con titoli improbabili, deliranti e, soprattutto, truffaldini, per attirare al cinema spettatori ignari sfruttando i successi del momento. Su MyMovies ‘Il ritorno di Diavolik’ risulta distribuito nel 1968 e si riporta una stroncatura di ‘Segnalazioni cinematografiche’ del 1974. All’epoca nessuno poteva sapere quanto oggi si apprende in pochi minuti su Internet.


Il lungo preambolo serve ad arrivare alla vera storia di Fantaman, che ho appena scoperto indagando su Internet. Il personaggio (vedi sopra) è considerato il primo supereroe della letteratura disegnata. Nacque nel 1931, ma non per i fumetti: ai tempi e fino al dopoguerra, per il Giappone vagavano ancora i cantastorie, detti ‘kamishibaiya’ (da ‘kamishibai’, teatro di carta) che anziché accompagnarsi con la musica si servivano di un corredo di illustrazioni. A realizzare testi e disegni erano specialisti, tra cui figuravano i giovani Ichiro Suzuki e Takeo Nagamatsu, creatori di un personaggio chiamato Ôgon Batto, un essere sovrannaturale dal teschio dorato, con un ampio mantello che anticipa di otto anni quello di Batman.
Il nome è la traduzione nipponica dell’inglese ‘Golden Bat’, marca di sigarette economiche diffusa all’epoca in Giappone, su cui figura un pipistrello d’oro: pare che i due autori sperassero di ottenerne una sponsorizzazione, ma non ebbero successo. Peraltro, se Ôgon nella pronuncia richiama casualmente Ogoun, divinità voodoo, ‘batto’ in giapponese non si riferisce a ‘bat’ nel senso di pipistrello (che, apprendo, si dice ‘koumori’) bensì a ‘bat’ nel senso americano di ‘mazza da baseball’, sport che giusto a quell’epoca stava conoscendo una particolare diffusione in Giappone, arrivando ai primi campionati negli anni Trenta. In realtà l’arma di Ôgon Batto è più simile a un bastone da passeggio. Il personaggio è un superuomo volante, immune ai raggi laser e ultimo superstite di una civiltà perduta, al pari di Superman che vedrà la luce nel 1938; ma è originario di Atlantide e riappare dopo diecimila anni... parlando perfettamente il giapponese moderno, beninteso. Detto fra noi, al pubblico occidentale uno zombie con la testa a teschio che si preannuncia con una risataccia malefica non fa pensare immediatamente a un protettore dell’umanità.
Nel 1950 il protosupereroe approda al cinema con ‘Ôgon Batto: Matenrô no Kaijin’ (il titolo contiene, credo, le parole ‘fantasma’ e ‘grattacielo’) su cui non trovo molte informazioni. Nel 1964 la saga viene convertita in una corposa serie manga (edita nel 2006 anche in Italia), non so quanto fedele alla versione degli anni Trenta. Dai riassunti vedo che la storia comincia quando la piccola Maria Corallo, figlia di un archeologo italiano alla ricerca di Atlantide e unica superstite della spedizione di questi, viene salvata da una squadra di scienziati; ritrovato un sarcofago atlantideo, il gruppo risveglia la creatura che vi giace e che instaurerà un rapporto protettivo soprattutto con la bambina. Nel 1966 esce il film che dà origine a questo articolo, mentre nel 1967-68 viene realizzata la serie a cartoni animati che, esportata in tutto il mondo, rende noto fuori dal Giappone il personaggio come Phantaman, Phanta Man o, in Brazile... Fantomas! In Italia approda con il titolo ‘Fantaman’ nel 1981, nell’ondata di anime e telefilm, fino a quel momento inediti da noi, che trovano spazio sulle televisioni private.


E dopo quest’altra lunghissima premessa, occupiamoci del film live action del 1966. Il giovane scienziato Akira scopre che la traiettoria del planetoide Icarus è cambiata e prevede un disastroso impatto contro la Terra, ma i suoi colleghi ridono di lui. Mentre torna a casa angosciato, viene caricato su un’auto da quattro ‘uomini in nero’ che senza dare spiegazioni lo portano fino a un laboratorio segreto. Questo si rivela una struttura delle Nazioni Unite gestita dal professor Pearl (unico attore occidentale, tale Andrew Hughes, di origine australiana, divenuto caratterista nel cinema nipponico) e dal dottor Yamatone (Sonny Chiba), in cui operano anche la bella e rassicurante Naomi e la nipotina di Pearl, Emily. Tutti costoro si rendono ben conto della minaccia e hanno realizzato un cannone laser in grado di distruggere Icarus prima dell’impatto. Senonché si sono persi i contatti con la spedizione inviata alla ricerca del quarzo da cui ricavare la lente per generare il raggio.
Raggiunte le ultime coordinate della spedizione scomparsa con un veicolo volante – che, come quello dei cattivi, ricorda in modo non disprezzabile gli effetti speciali di ‘Thunderbird’ – il gruppo scopre che corrispondono a un’isola sconosciuta, su cui i ricercatori sono stati decimati. Tra le rovine similelleniche, alcuni geroglifici (in realtà, a occhio, lettere greche e scarabocchi) fanno riferimento al profeta Johannes (se stiamo parlando dell'autore dell'Apocalisse, c’è qualche anacronismo di fondo), indicando che si tratta di una porzione di Atlantide misteriosamente riemersa per poche ore dopo dieci millenni. Ma spunta dal mare una torre-trivella-astronave, da cui il cattivo comunica di essere responsabile, chissà come e per pura malvagità, di avere deviato la traiettoria di Icarus per distruggere il pianeta.
Per portarsi avanti, manda una squadra di paraninja e uccidere i buoni, ma durante la sparatoria a colpi di laser questi si rifugiano in una cripta in cui trovano il sarcofago (egizio) di Ôgon Batto, con opportune iscrizioni per risvegliarlo, messe in atto dalla piccola Emily. Sarà quindi, nel corso del film, l’antico eroe redivivo a risolvere quasi tutti i problemi, fino a quando la trivella spunta con effetti distruttivi in centro a Tokyo perché il cattivo possa godersi in prima fila lo spettacolo dell’apocalisse, prima di fuggire nello spazio. O almeno questo è il suo piano.


Pittoreschi i sicari malvagi: Piranha, avvenente assassina in grado di smaterializzarsi e assumere sembianze altrui; Keroid (Keloid), del quale basta guardare metà faccia per capire l’origine del nome, psicopatico fuori controllo che può a sua volta trasformarsi in altri personaggi mediante un’apposita macchina; e Jackal, una sorta di Wolverine ante litteram.
Il meno convincente nel film è proprio il cattivo, l’umanoide Nazo, con orecchie da pipistrello e quattro occhi (uno dei quali emette raggi mortali), probabile vittima di un orrido incidente perché ha una tenaglia al posto della mano sinistra e un supporto tecnologico in luogo delle gambe; ma il costume di scena lo fa sembrare solo una specie di mostruoso orsacchiotto; per fortuna, dato che gli alieni di solito parlano inglese, lui invece parla giapponese e forse per questo sceglie Tokyo anziché New York come fanno i suoi colleghi.
Ma tutto finisce bene (be’, i danni alla Luna urtata da Icarus prima di essere distrutto causeranno di certo sconvolgimenti sulla Terra, ma nel film non li vediamo) ed Emily saluta con «Sayonara, Ôgon Batto» l’eroe che decolla verso le montagne al termine di un B-movie di fantascienza per un pubblico di ragazzini. Ma, visto con la giusta prospettiva, è persino piacevole.



venerdì 23 settembre 2022

Iperwriters - Nati alternativi

Photo: Nishan Jain on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 6 - Nati alternativi

Venerdì, ore 13. Sono fuori corso, a navigare nell'oceano Alternativo.
Ero, come Max e poche altre persone, alternativa a tutto. Non avrei voluto esserlo: per temperamento sono una conservatrice. Ma la mia condizione mi poneva nell'alternatività. Non c'era posto per noi.
Quando, molti anni dopo, ho deciso di recuperare gli esami già dati (non butto mai via niente che possa ancora servire) e laurearmi, sono stata più che alternativa.
Santa Caterina da Siena è il personaggio più alternativo della storia d'Italia: non piace a nessuno. E' patrona d'Italia ma gli italiani la odiano. Odiano la chiesa cattolica, odiano le donne (soprattutto quelle di talento) e provano una santa ripugnanza per una che raccoglie fra le mani la testa di un decapitato. Un'anoressica psicopatica sessualmente frustrata.
Ma si dà il caso che Caterina Benincasa sia anche una grande scrittrice italiana. Se lo stile fosse stato davvero prioritario nella nostra editoria (come proclamavano allora), avrebbero dovuto ristampare e vendere lei al posto dei capolavoristi costruiti e spammati sul mercato.
Ho sempre amato i più odiati: è un mio tratto distintivo. Come la fascinazione per le donne autorevoli.
Per circa tre anni abbiamo vissuto nella biblioteca comunale, leggendo, scrivendo e traducendo. Perdendo gli anni che non abbiamo mai perso dalle elementari alla maturità, quando essere bocciati pareva una tragedia.
Ma che fare da grandi?
Ancora negli ultimi tempi della sua vita Max mi diceva che gli sarebbe piaciuto essere un insegnante. Alla fine dell'Ottocento, o al più tardi quando lo era Pirandello.
Avete letto (o vi hanno letto) Cuore di De Amicis? Ricordate la scena in cui il padre del muratorino entra nella casa signorile del maestro di suo figlio, umile e rispettoso, timoroso di sporcare di calce le poltrone?
Bene, ho visto con le mie fosche pupille una maestra strisciare (trattata da pezzente) davanti al tipo che le ristrutturava la casa (in abiti firmati).
Saremmo stati insegnanti con felicità nostra e dei nostri allievi, anche da schiavi sottopagati, se solo avessimo potuto conservare rispetto e dignità.
Max ha lasciato l'Università al primo anno e non si è mai laureato.

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venerdì 9 settembre 2022

Iperwriters - Nati fuori corso

Photo: Ian Taylor on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 5 - Nati fuori corso

Venerdì, ore tredici. Ora sto navigando al primo anno di Università.
Non sapevo che la Facoltà di Lettere fosse l'ascensore per l'inferno. Come potevo saperlo, a meno di vent'anni?
Avevo letto di Oxford e Cambridge e della Sorbonne (per restare in Europa), e mi ritrovo insieme a centinaia di persone in un'aula di Letteratura Italiana che pare una sommossa popolare.
A dare esami insieme ad altri sei o sette per passare senza aver studiato perché parlano gli altri. A dare esami avendo letto solo le quarte di copertina dei libri, perché basta dire due cazzate. A frequentare insulsi e odiosi corsi monografici utili a tutti tranne che a me.
La carriera? L'insegnamento, naturalmente. Che mi incuteva un sacro terrore.
Perché avevo visto i miei insegnanti alle medie superiori, brava gente che si sforzava onestamente di rendere stimolante quello che lo era già. Li avevo visti ridicolizzati, sghignazzati, sputtanati in disegni e scritti osceni. Ne ricordo uno, che veniva letto collettivamente, in latino maccheronico: Eius pater volebat masculum, eius mater volebat feminam, postea naquit id, et fuerunt entrambi contenti.
La sventurata qui descritta era la prof di matematica. L'hanno bombardata con cancellini sporchi e calzini da ginnastica puzzolenti. Lei con l'abito nero coperto di macchie di gesso spiraliformi e un calzino penzolante da una spalla. La scena pareva quella di Carrie quando le lanciano addosso gli assorbenti nella doccia: sconvolgente.
La sola idea di entrare in una classe di liceo mi gettava nel panico. Mi vedevo coperta di calzini, o peggio, di stronzi.
Max, il mio futuro marito (che avevo appena conosciuto), era convinto che avrei dovuto insegnare all'Università. In seguito un amico accademico mi avrebbe confessato che per avere una cattedra vicino a casa sarebbero dovute morire otto persone, come nella monarchia inglese.
Per i posti da ricercatore c'erano liste d'attese lunghe quanto cortei di protesta. Decine, forse centinaia di persone più belle, preparate, brillanti, popolari di noi.
Anche noi, in potenza, lo eravamo, ma crescere senza scopo negli alloggi degli schiavi sfigura la bellezza, avvilisce la cultura, spegne lo scintillio, schiaccia talmente tanto nel popolo da rendere impossibile la popolarità.

Stefano Di Marino, il Prof della narrativa

Stefano Di Marino in una foto di A. C. Cappi Ricordo di Andrea Carlo Cappi "Scrivere tutti i giorni", rispondeva, quando gli si ch...