venerdì 30 settembre 2022

Ôgon Batto (Il ritorno di Diavolik)


Recupero di Andrea Carlo Cappi

Grazie a Bloodbuster e a case di distribuzione video, come in questo caso la Sinister Film, che riportano alla luce pellicole scomparse da decenni, si scopre sempre qualcosa di nuovo. Per esempio il dvd del 2020 di un film del 1966 il cui titolo sembrava dire una cosa, l’immagine di copertina un’altra, ma credits e quarta di copertina di questa attenta edizione ne svelano subito le origini nipponiche e gli inganni della distribuzione italiana, accendendo un’immediata curiosità. L’ottima pubblicazione, con audio italiano e giapponese sottotitolato, trailer nelle due lingue e galleria fotografica, contiene anche un poster double-face dei manifesti italiani. Il protagonista del film altri non è che il personaggio noto in Italia come Fantaman, precursore di Superman e Batman, e tra gli interpreti appare un giovane Shin’ichi ‘Sonny’ Chiba, futuro attore di culto voluto da Tarantino in ‘Kill Bill’.
Ma nel 1968 un titolo come ‘Il ritorno di Diavolik’ poteva indurre uno spettatore distratto ad aspettarsi il seguito del ‘Diabolik’ di Mario Bava, dai fumetti delle sorelle Giussani inaugurati con successo nel 1962. Manifesti e fotobuste dell’epoca mostravano scene (disegnate) tra poliziesco e action che non esistono nel film e un protagonista stile ‘Kriminal’, il fumetto di Magnus & Bunker nato nel 1964 sull’onda di ‘Diabolik’ e portato sullo schermo da Umberto Lenzi (1966) e Fernando Cerchio (1968). Ciliegina sulla torta: sulle locandine sono accreditati il regista Terence Marvin Jr. e gli interpreti Thomas Lee, Peter Conway e Deborah Scott, quest’ultima probabilmente la bionda dai vestiti laceri avvinghiata alle gambe del protagonista. Ma neanche loro sono mai esistiti: un tipico esempio di pubblicità ingannevole, per inserire il film in un filone quando apparteneva a tutt’altro.
Perché, una volta in sala, lo spettatore si trovava di fronte una pellicola giapponese in bianco e nero datata 1966, su un quantomeno bizzarro protosupereroe che ha davvero una faccia da teschio come quella di Kriminal... ma non è una maschera, è proprio la sua, con qualche dente mancante. Lo dicevano qualche settimana fa in streaming i Manetti Bros. e i ragazzi di Bloodbuster: negli anni Sessanta-Settanta molte pellicole venivano distribuite con titoli improbabili, deliranti e, soprattutto, truffaldini, per attirare al cinema spettatori ignari sfruttando i successi del momento. Su MyMovies ‘Il ritorno di Diavolik’ risulta distribuito nel 1968 e si riporta una stroncatura di ‘Segnalazioni cinematografiche’ del 1974. All’epoca nessuno poteva sapere quanto oggi si apprende in pochi minuti su Internet.


Il lungo preambolo serve ad arrivare alla vera storia di Fantaman, che ho appena scoperto indagando su Internet. Il personaggio (vedi sopra) è considerato il primo supereroe della letteratura disegnata. Nacque nel 1931, ma non per i fumetti: ai tempi e fino al dopoguerra, per il Giappone vagavano ancora i cantastorie, detti ‘kamishibaiya’ (da ‘kamishibai’, teatro di carta) che anziché accompagnarsi con la musica si servivano di un corredo di illustrazioni. A realizzare testi e disegni erano specialisti, tra cui figuravano i giovani Ichiro Suzuki e Takeo Nagamatsu, creatori di un personaggio chiamato Ôgon Batto, un essere sovrannaturale dal teschio dorato, con un ampio mantello che anticipa di otto anni quello di Batman.
Il nome è la traduzione nipponica dell’inglese ‘Golden Bat’, marca di sigarette economiche diffusa all’epoca in Giappone, su cui figura un pipistrello d’oro: pare che i due autori sperassero di ottenerne una sponsorizzazione, ma non ebbero successo. Peraltro, se Ôgon nella pronuncia richiama casualmente Ogoun, divinità voodoo, ‘batto’ in giapponese non si riferisce a ‘bat’ nel senso di pipistrello (che, apprendo, si dice ‘koumori’) bensì a ‘bat’ nel senso americano di ‘mazza da baseball’, sport che giusto a quell’epoca stava conoscendo una particolare diffusione in Giappone, arrivando ai primi campionati negli anni Trenta. In realtà l’arma di Ôgon Batto è più simile a un bastone da passeggio. Il personaggio è un superuomo volante, immune ai raggi laser e ultimo superstite di una civiltà perduta, al pari di Superman che vedrà la luce nel 1938; ma è originario di Atlantide e riappare dopo diecimila anni... parlando perfettamente il giapponese moderno, beninteso. Detto fra noi, al pubblico occidentale uno zombie con la testa a teschio che si preannuncia con una risataccia malefica non fa pensare immediatamente a un protettore dell’umanità.
Nel 1950 il protosupereroe approda al cinema con ‘Ôgon Batto: Matenrô no Kaijin’ (il titolo contiene, credo, le parole ‘fantasma’ e ‘grattacielo’) su cui non trovo molte informazioni. Nel 1964 la saga viene convertita in una corposa serie manga (edita nel 2006 anche in Italia), non so quanto fedele alla versione degli anni Trenta. Dai riassunti vedo che la storia comincia quando la piccola Maria Corallo, figlia di un archeologo italiano alla ricerca di Atlantide e unica superstite della spedizione di questi, viene salvata da una squadra di scienziati; ritrovato un sarcofago atlantideo, il gruppo risveglia la creatura che vi giace e che instaurerà un rapporto protettivo soprattutto con la bambina. Nel 1966 esce il film che dà origine a questo articolo, mentre nel 1967-68 viene realizzata la serie a cartoni animati che, esportata in tutto il mondo, rende noto fuori dal Giappone il personaggio come Phantaman, Phanta Man o, in Brazile... Fantomas! In Italia approda con il titolo ‘Fantaman’ nel 1981, nell’ondata di anime e telefilm, fino a quel momento inediti da noi, che trovano spazio sulle televisioni private.


E dopo quest’altra lunghissima premessa, occupiamoci del film live action del 1966. Il giovane scienziato Akira scopre che la traiettoria del planetoide Icarus è cambiata e prevede un disastroso impatto contro la Terra, ma i suoi colleghi ridono di lui. Mentre torna a casa angosciato, viene caricato su un’auto da quattro ‘uomini in nero’ che senza dare spiegazioni lo portano fino a un laboratorio segreto. Questo si rivela una struttura delle Nazioni Unite gestita dal professor Pearl (unico attore occidentale, tale Andrew Hughes, di origine australiana, divenuto caratterista nel cinema nipponico) e dal dottor Yamatone (Sonny Chiba), in cui operano anche la bella e rassicurante Naomi e la nipotina di Pearl, Emily. Tutti costoro si rendono ben conto della minaccia e hanno realizzato un cannone laser in grado di distruggere Icarus prima dell’impatto. Senonché si sono persi i contatti con la spedizione inviata alla ricerca del quarzo da cui ricavare la lente per generare il raggio.
Raggiunte le ultime coordinate della spedizione scomparsa con un veicolo volante – che, come quello dei cattivi, ricorda in modo non disprezzabile gli effetti speciali di ‘Thunderbird’ – il gruppo scopre che corrispondono a un’isola sconosciuta, su cui i ricercatori sono stati decimati. Tra le rovine similelleniche, alcuni geroglifici (in realtà, a occhio, lettere greche e scarabocchi) fanno riferimento al profeta Johannes (se stiamo parlando dell'autore dell'Apocalisse, c’è qualche anacronismo di fondo), indicando che si tratta di una porzione di Atlantide misteriosamente riemersa per poche ore dopo dieci millenni. Ma spunta dal mare una torre-trivella-astronave, da cui il cattivo comunica di essere responsabile, chissà come e per pura malvagità, di avere deviato la traiettoria di Icarus per distruggere il pianeta.
Per portarsi avanti, manda una squadra di paraninja e uccidere i buoni, ma durante la sparatoria a colpi di laser questi si rifugiano in una cripta in cui trovano il sarcofago (egizio) di Ôgon Batto, con opportune iscrizioni per risvegliarlo, messe in atto dalla piccola Emily. Sarà quindi, nel corso del film, l’antico eroe redivivo a risolvere quasi tutti i problemi, fino a quando la trivella spunta con effetti distruttivi in centro a Tokyo perché il cattivo possa godersi in prima fila lo spettacolo dell’apocalisse, prima di fuggire nello spazio. O almeno questo è il suo piano.


Pittoreschi i sicari malvagi: Piranha, avvenente assassina in grado di smaterializzarsi e assumere sembianze altrui; Keroid (Keloid), del quale basta guardare metà faccia per capire l’origine del nome, psicopatico fuori controllo che può a sua volta trasformarsi in altri personaggi mediante un’apposita macchina; e Jackal, una sorta di Wolverine ante litteram.
Il meno convincente nel film è proprio il cattivo, l’umanoide Nazo, con orecchie da pipistrello e quattro occhi (uno dei quali emette raggi mortali), probabile vittima di un orrido incidente perché ha una tenaglia al posto della mano sinistra e un supporto tecnologico in luogo delle gambe; ma il costume di scena lo fa sembrare solo una specie di mostruoso orsacchiotto; per fortuna, dato che gli alieni di solito parlano inglese, lui invece parla giapponese e forse per questo sceglie Tokyo anziché New York come fanno i suoi colleghi.
Ma tutto finisce bene (be’, i danni alla Luna urtata da Icarus prima di essere distrutto causeranno di certo sconvolgimenti sulla Terra, ma nel film non li vediamo) ed Emily saluta con «Sayonara, Ôgon Batto» l’eroe che decolla verso le montagne al termine di un B-movie di fantascienza per un pubblico di ragazzini. Ma, visto con la giusta prospettiva, è persino piacevole.



venerdì 23 settembre 2022

Iperwriters - Nati alternativi

Photo: Nishan Jain on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 6 - Nati alternativi

Venerdì, ore 13. Sono fuori corso, a navigare nell'oceano Alternativo.
Ero, come Max e poche altre persone, alternativa a tutto. Non avrei voluto esserlo: per temperamento sono una conservatrice. Ma la mia condizione mi poneva nell'alternatività. Non c'era posto per noi.
Quando, molti anni dopo, ho deciso di recuperare gli esami già dati (non butto mai via niente che possa ancora servire) e laurearmi, sono stata più che alternativa.
Santa Caterina da Siena è il personaggio più alternativo della storia d'Italia: non piace a nessuno. E' patrona d'Italia ma gli italiani la odiano. Odiano la chiesa cattolica, odiano le donne (soprattutto quelle di talento) e provano una santa ripugnanza per una che raccoglie fra le mani la testa di un decapitato. Un'anoressica psicopatica sessualmente frustrata.
Ma si dà il caso che Caterina Benincasa sia anche una grande scrittrice italiana. Se lo stile fosse stato davvero prioritario nella nostra editoria (come proclamavano allora), avrebbero dovuto ristampare e vendere lei al posto dei capolavoristi costruiti e spammati sul mercato.
Ho sempre amato i più odiati: è un mio tratto distintivo. Come la fascinazione per le donne autorevoli.
Per circa tre anni abbiamo vissuto nella biblioteca comunale, leggendo, scrivendo e traducendo. Perdendo gli anni che non abbiamo mai perso dalle elementari alla maturità, quando essere bocciati pareva una tragedia.
Ma che fare da grandi?
Ancora negli ultimi tempi della sua vita Max mi diceva che gli sarebbe piaciuto essere un insegnante. Alla fine dell'Ottocento, o al più tardi quando lo era Pirandello.
Avete letto (o vi hanno letto) Cuore di De Amicis? Ricordate la scena in cui il padre del muratorino entra nella casa signorile del maestro di suo figlio, umile e rispettoso, timoroso di sporcare di calce le poltrone?
Bene, ho visto con le mie fosche pupille una maestra strisciare (trattata da pezzente) davanti al tipo che le ristrutturava la casa (in abiti firmati).
Saremmo stati insegnanti con felicità nostra e dei nostri allievi, anche da schiavi sottopagati, se solo avessimo potuto conservare rispetto e dignità.
Max ha lasciato l'Università al primo anno e non si è mai laureato.

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venerdì 9 settembre 2022

Iperwriters - Nati fuori corso

Photo: Ian Taylor on Unsplash

Iperwriters, editoriale di Claudia Salvatori

Letteratura italiacana - 5 - Nati fuori corso

Venerdì, ore tredici. Ora sto navigando al primo anno di Università.
Non sapevo che la Facoltà di Lettere fosse l'ascensore per l'inferno. Come potevo saperlo, a meno di vent'anni?
Avevo letto di Oxford e Cambridge e della Sorbonne (per restare in Europa), e mi ritrovo insieme a centinaia di persone in un'aula di Letteratura Italiana che pare una sommossa popolare.
A dare esami insieme ad altri sei o sette per passare senza aver studiato perché parlano gli altri. A dare esami avendo letto solo le quarte di copertina dei libri, perché basta dire due cazzate. A frequentare insulsi e odiosi corsi monografici utili a tutti tranne che a me.
La carriera? L'insegnamento, naturalmente. Che mi incuteva un sacro terrore.
Perché avevo visto i miei insegnanti alle medie superiori, brava gente che si sforzava onestamente di rendere stimolante quello che lo era già. Li avevo visti ridicolizzati, sghignazzati, sputtanati in disegni e scritti osceni. Ne ricordo uno, che veniva letto collettivamente, in latino maccheronico: Eius pater volebat masculum, eius mater volebat feminam, postea naquit id, et fuerunt entrambi contenti.
La sventurata qui descritta era la prof di matematica. L'hanno bombardata con cancellini sporchi e calzini da ginnastica puzzolenti. Lei con l'abito nero coperto di macchie di gesso spiraliformi e un calzino penzolante da una spalla. La scena pareva quella di Carrie quando le lanciano addosso gli assorbenti nella doccia: sconvolgente.
La sola idea di entrare in una classe di liceo mi gettava nel panico. Mi vedevo coperta di calzini, o peggio, di stronzi.
Max, il mio futuro marito (che avevo appena conosciuto), era convinto che avrei dovuto insegnare all'Università. In seguito un amico accademico mi avrebbe confessato che per avere una cattedra vicino a casa sarebbero dovute morire otto persone, come nella monarchia inglese.
Per i posti da ricercatore c'erano liste d'attese lunghe quanto cortei di protesta. Decine, forse centinaia di persone più belle, preparate, brillanti, popolari di noi.
Anche noi, in potenza, lo eravamo, ma crescere senza scopo negli alloggi degli schiavi sfigura la bellezza, avvilisce la cultura, spegne lo scintillio, schiaccia talmente tanto nel popolo da rendere impossibile la popolarità.