giovedì 7 marzo 2019

"Diabolik sono io": tra documentario e thriller


Annotazioni di Andrea Carlo Cappi


A quasi cinquantasette anni dalla nascita editoriale e a oltre mezzo secolo dalla pellicola che gli dedicò Mario Bava, Diabolik torna finalmente al cinema, ora e nel 2020. In attesa del film in lavorazione dei Manetti Bros, previsto per il prossimo anno, dall'undici al tredici marzo 2019 in duecentonovanta sale italiane si proietta Diabolik sono io. Scritto da Mario Gomboli (direttore dell'Astorina, la casa editrice di Diabolik) e da Giancarlo Soldi che ne è il regista, con le musiche di Teho Teardo, viene definito "docufilm", perché è qualcosa di diverso da un documentario convenzionale. E il titolo non è, s'intende, scelto a caso.
Ci sono due frasi essenziali nella vita di Diabolik, il personaggio dei fumetti di Angela e Luciana Giussani. La prima è "Diabolik, chi sei?", pronunciata dall'ispettore Ginko nell'albo che la porta come titolo e in cui il criminale rievoca ciò che sa delle proprie origini. L'altra è "Io sono Diabolik", che oltre a essere il titolo di una "autobiografia" del personaggio edita da Mondadori qualche anno fa, rappresenta un aspetto molto significativo: Diabolik, a differenza degli altri personaggi mascherati del fumetto (eroi e criminali che siano) non ha una vera identità da celare sotto la maschera. Non conosce il proprio nome, non sa chi siano i suoi genitori, né da dove venga. Diabolik ergo sum: la sua unica identità è quella che si è costruito da solo, con il nome che si è scelto; e la sua unica famiglia è costituita da Eva Kant.
Io invece so che, se cito i nomi di Diabolik, Eva Kant e Ginko, moltissimi in Italia - e anche altri in giro il mondo - sanno chi siano anche senza aver letto le loro avventure. Per riciclare una mia vecchia battuta, è il fenomeno del "fumetto passivo": Diabolik e i suoi comprimari sono parte della cultura popolare italiana, al punto da essere noti pure a chi non ha mai preso in mano un albo della serie.


Di documentari ben fatti su Diabolik ce ne sono già stati, ma ci sono ancora molte cose da scoprire. Una di queste l'ha ritrovata Giancarlo Soldi nelle teche RAI: una divertente intervista inedita alle sorelle Giussani che parlano del loro personaggio mentre bevono il tè, brani della quale punteggiano la parte non-fiction del film. Ci sono poi contributi realizzati appositamente, con Mario Gomboli e altri sceneggiatori storici di Diabolik quali Alfredo Castelli (creatore a sua volta di serie famose come Gli Aristocratici, L'Ombra e Martin Mystère) e Tito Faraci; e ancora si vedono il disegnatore Giuseppe Palumbo, il leggendario Milo Manara, due collaboratrici della redazione, esperti come il grande fumettologo Gianni Bono, il costumista Massimo Cantini Parrini, un paio di scrittori che hanno avuto a che fare con Diabolik (Carlo Lucarelli, che anni fa lavorò a un progetto di sceneggiatura cinematografica, e me, autore dei romanzi di Diabolik & Eva Kant). Ma la finzione si fa strada anche nella parte documentaristica, quando nei panni di un avvocato appare l'attrice Stefania Casini.
Perché questo film è anche una sorta di thriller basato su un vero mistero: che fine ha fatto Angelo Zarcone, il primo disegnatore di Diabolik, l'uomo che diede un volto al personaggio? Dopo avere consegnato le tavole del numero uno, scomparve per sempre senza lasciare traccia. E se riapparisse dopo tutto questo tempo, ipotizza Gomboli all'inizio del film, chi troverebbe? Se stesso o Diabolik?
Così la vicenda si dipana intorno al ritorno nella società di un uomo che soffre di amnesia e il cui volto assomiglia molto a quello di Diabolik (Luciano Scarpa). In mente lo smemorato ha proprio quel nome, Diabolik, e quegli occhi che spuntano da una maschera, immagine che si trova a disegnare ossessivamente. Seguendo gli indizi ricavati da Internet con l'aiuto di una ragazza che somiglia a Eva Kant (Claudia Stecher) il protagonista arriverà a una conclusione sorprendente.
Diabolik sono io si sviluppa su tre piani narrativi: quello delle interviste, quello della ricerca da parte dello smemorato e quello di un misterioso interrogatorio a cui il protagonista viene sottoposto. Ne risulta una storia dai contorni onirici in cui realtà e fantasia si confondono e persino i personaggi reali parlano di Diabolik come se esistesse veramente. Una formula molto originale per raccontare un mito che nei primi anni Sessanta, per citare la canzone Esci, Diabolik di Canciani & Covri, "cambia il fumetto e cambia l'Italia". 

Lunedì 11 marzo all'Arcadia di Melzo (Milano) Andrea Carlo Cappi alle 19.30 firmerà le copie dei suoi romanzi di Diabolik presso il Mondadori Bookstore e alle 20.30 sarà in sala a introdurre la proiezione.


lunedì 4 marzo 2019

Godzilla: l'alba dei Grandi Mostri - 2, Gojira!


Riscoperta di Andrea Carlo Cappi




Allarme nel Mar del Giappone! Il 13 agosto alle 19.05 il mercantile Eiko Maru della Nankai Shipping lancia un SOS prima di affondare in fiamme al largo dell'isola di Odo. Un'altra nave della stessa compagnia, la Bingo Maru, inviata in soccorso, segue lo stesso destino. Di lì a poco, affonda anche una barca di pescatori che ha raccolto alcuni superstiti. Un unico sopravvissuto riesce a tornare sull'isola, ma non a spiegare cosa sia successo. I vecchi di Odo, tuttavia, conoscono giá la risposta. Si tratta nientemeno che di Gojira: una creatura mostruosa che in tempi antichi era considerata una divinità, cui dedicare cerimonie e offrire di tanto in tanto una giovane donna in sacrificio per placarne la fame insaziabile. Perché, quando nel mare scarseggiano i pesci, Gojira viene sulla terraferma a caccia di uomini. E in una notte di uragano qualcosa di gigantesco devasta l'isola, distruggendo case e uccidendo nove persone. 
Il professor Yamane, insigne paleontologo chiamato in causa dal governo giapponese, organizza una spedizione a Odo. È accompagnato tra gli altri dalla figlia Emiko, dal giovane Ogata della Nankai Shipping e dal giornalista Hagiwara. Sull'isola si rileva un'intensa radioattività nei punti in cui sarebbe passata la creatura. In quella che potrebbe essere un'orma smisurata viene trovato un trilobite – artropode teoricamente estinto da milioni di anni – con tracce di sabbia di una formazione databile al periodo Giurassico.
Poi, finalmente, la creatura viene avvistata dall'altra parte dell'isola. 
Le caratteristiche sono quelle di un dinosauro sconosciuto, ma le proporzioni smisurate: l'altezza è stimata sui cinquanta metri (per la cronaca, un tirannosauro non avrebbe superato la dozzina di metri dalla testa alla coda). Le gambe a dire la verità sono piuttosto tozze, mentre le zampe anteriori si articolano curiosamente come braccia umane... ma questo più che all'evoluzione si deve al modo in cui sono stati realizzati gli "effetti creatura". La pericolosità di Gojira non si limita alle dimensioni, ma anche all'alito radioattivo dall'effetto incendiario, che lo rende una sorta di drago dell'era atomica. Gli abitanti di Tokyo lo scopriranno presto, quando il mostro prenderà per due volte terra seminando rovina e vittime al suo passaggio per la metropoli. Le armi convenzionali non possono sconfiggerlo. Lo scenario che l'orrida creatura si lascia dietro prima di rituffarsi in mare è di pura devastazione.


Il Gojira diretto da Ishiro Honda (talvolta accreditato in Occidente come Inoshiro Honda) segue il punto di vista dei personaggi umani: il professor Yamane, che soffre al pensiero di dover dirigere la commissione scientifico-militare destinata a eliminare la creatura anziché studiarla e scoprire come sia sopravvissuta alla contaminazione; Emiko Yamane, che ama Hideto Ogata anche se in passato era fidanzata con lo scienziato Daizuke Serizawa; quest'ultimo, che dopo aver perso un occhio in guerra si è chiuso in se stesso e nel proprio laboratorio. Qui lo scienziato confessa alla ragazza di avere scoperto accidentalmente un'arma terribile: una sostanza che ha battezzato – in inglese – Oxygen Destroyer.
Dal momento che questa sembra essere l'unico modo per distruggere il mostro, dietro l'insistenza di Emiko e Ogata, Serizawa acconsente a farne uso, dopo avere distrutto i propri appunti perché il segreto non possa cadere in mani sbagliate come già accaduto per la bomba H. 
Una spedizione in mare localizza il mostro grazie alla sua radioattività. Serizawa e Ogata si immergono con tutta la scorta di Oxygen Destroyer prodotto dallo scienziato. La sostanza, liberata nell'acqua, produce una reazione letale che distrugge la creatura. La minaccia cessa di esistere, anche se solo uno dei due uomini torna in superficie. Yamane però sospetta che, se continueranno gli esperimenti con armi nucleari, altri Gojira appariranno. 


Dal momento che una lavorazione con la tecnica di stop motion, usata tanto per gli effetti speciali di King Kong quanto per i celebri film realizzati a Hollywood da Ray Harryhausen negli anni Cinquanta (per esempio A trenta milioni di km dalla Terra, 1957), la casa di produzione Toho opta per una tecnica più povera: un costume indossato da un attore (da qui la configurazione del mostro) che dovrà muoversi su uno scenario in miniatura, con occasionali sovrapposizioni a riprese di attori e figuranti che corrono sulle colline di Odo o per le strade di Tokyo.
Forse oggi, con la consuetudine a sofisticati effetti in CGI, il Godzilla anni Cinquanta può sembrare primordiale... in tutti i sensi. Ma, provando a immaginarlo con gli occhi di quei tempi e su un grande schermo, tra paesaggi di distruzione molto simili a quelli fotografati a Hiroshima, riesce ancora a fare una certa impressione. 
Di sicuro ne fa quando esce nei cinema nipponici il 6 novembre del 1954. La pellicola ottiene un enorme successo in patria, tanto che la Toho ne mette presto in cantiere un seguito: la profezia di Yamane su un nuovo Gojira è destinata ad avverarsi in un secondo film, nel 1955. Nel frattempo il fenomeno non passa inosservato e nel 1956, attraverso gli Stati Uniti (sebbrene, come vedremo, in una versione riveduta e corretta) il mostro radioattivo conquisterà il mondo.

Godzilla: l'alba dei Grandi Mostri - 1, le origini



Riscoperta di Andrea Carlo Cappi

In vista dell'uscita imminente di un nuovo film su una delle icone della fantascienza, Godzilla, il re dei mostri, può essere interessante riscoprirne le origini e le varie interpretazioni nel corso dei decenni. In particolare il significato storico della scelta di qualcosa di enorme come un dinosauro mutante dalle dimensioni esagerate, quindi una minaccia in apparenza insormontabile per gli esseri umani, un'arma di distruzione di massa vivente sotto la quale si sbriciolano le nostre costruzioni più ardite, una forza della natura alterata dalla degenerazione della scienza. 

Gli anni Venti e Trenta videro approdare al cinema i mostri della letteratura gotica ovvero minacce di proporzioni umane, più o meno in grado di mimetizzarsi tra noi, a volte come predatori (Dracula, dal romanzo di Bram Stoker) a volte come esseri disadattati e persino discriminati (la creatura di Frankenstein, dal romanzo di Mary Shelley). Forse una metafora involontaria delle dittature nascenti in Europa, in cui singoli uomini avrebbero portato allo sterminio di altri uomini perché ritenuti diversi. Ma in quei decenni, in cui il cinema passa dal muto al sonoro, si avverte anche il primo impulso ad affrontare fenomeni di dimensioni superiori. 






Nel film Il mondo perduto (1925), tratto con qualche libertà da un romanzo di sir Arthur Conan Doyle – sì, il creatore di Sherlock Holmes – il professor Challenger scopre un'isola popolata da dinosauri superstiti e riesce nel finale a portare a Londra un brontosauro che, sfuggito al controllo, devasta la città: è il primo esempio di confronto diretto tra natura preistorica incontrollabile e mondo moderno governato dall'uomo. Otto anni dopo, nel 1933, il concetto viene ripreso da King Kong, con l'enorme gorilla idolatrato dalla popolazione di un'isola sconosciuta, anch'essa popolata da creature preistoriche; il gigante scimmiesco, trascinato a New York, avrà modo di creare scompiglio nella modernità occidentale rappresentata dalla città. 
Apprendo da Wikipedia che il successo di King Kong in Giappone produsse due curiosi effetti collaterali: una commedia di mezz'ora intitolata Wasei Kingu Kongu (ovvero "King Kong alla giapponese", 1933), in cui il protagonista è un uomo che indossa un costume da gorilla per replicare su un palcoscenico le gesta di King Kong su una città in miniatura, causando però equivoci quando esce per la strada; e un falso sequel apocrifo intitolato Edo ni arawareta Kingu Kongu (ovvero "King Kong appare a Tokyo", 1938) in cui ad avere tale nome è tuttavia una sorta di scimmia-killer ammaestrata di proporzioni "normali". Entrambi i film sono andati distrutti durante la guerra e vengono iscritti come prototipi del filone kaiju, "mostri", anche se non si tratta di "grandi" mostri. 


La vera nascita dei kaiju eiga (i film giapponesi di mostri, definizione divenuta popolare solo da alcuni anni anche in Occidente, dopo Pacific Rim) si ha negli anni Cinquanta. Si può dire che il genere sorga contemporaneamente a Hollywood e a Tokyo, in concomitanza con il crescente sviluppo delle armi nucleari e la percezione collettiva di una hybris della scienza, che potrebbe condurre l'umanità alla distruzione. Tra questo, gli avvistamenti UFO postbellici negli USA e le premesse della conquista russo-americana dello spazio, il cinema di fantascienza diventa un prodotto di attualità, oltre che di massa. Ma in Giappone tutto ciò assume un significato particolare. 
Nel 1954 quello del Sol Levante è un paese segnato in profondità dalla guerra. Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945, con le loro conseguente sia immediate sia protratte nel tempo, sono un ricordo ancora bruciante, testimoniato dai cheloidi sui corpi dei superstiti che ispireranno la pelle di Godzilla. Ma è anche l'epoca degli esperimenti nucleari nel Pacifico, le cui conseguenze si fanno sentire anche sulla popolazione nipponica: il primo marzo di quell'anno la Daigo Fukuryu Maru (nota anche come Lucky Dragon 5) attrezzata per la pesca del tonno, viene investita da una pioggia di cenere radioattiva prodotta dal test americano Castle Bravo sull'atollo di Bikini, pur trovandosi al di fuori dell'area indicata come a rischio; quasi tutto l'equipaggio si salverà, benché contaminato, e la vicenda sarà oggetto di un film giapponese del 1959. In Gojira, che esce il 6 novembre 1954, una donna fa riferimento proprio a «tonno all'idrogeno e pioggia radioattiva» ma in tutta la pellicola si avverte l'incubo delle armi nucleari e delle radiazioni misurate dai contatori Geiger. 


Lo stesso Godzilla viene giudicato dall'insigne paleontologo Yamane, personaggio che appare nei primi film, un rettile preistorico anfibio contaminato dalle radiazioni e mutato a seguito di queste; allontanatosi dal proprio habitat in fondo all'oceano a seguito degli esperimenti nucleari, il mostro va ora in cerca di un nuovo ambiente, grazie alla sua capacità di muoversi anche sulla terraferma. L'aspetto della creatura – un misto fra iguanodonte, tirannosauro e stegosauro – è il risultato finale di una lunga serie di ipotesi tra produttore e autori: si pensa inizialmente a un ibrido tra gorilla (gorira, dato che in giapponese la lettera l viene pronunciata r) e balena (in giapponese kujira), da cui il nome Gojira; dopo varie riflessioni, a Gojira viene data però la configurazione di un dinosauro. La versione inglese Godzilla inserisce la parola god, cioè dio, esaltando l'aspetto di divinità pagana del mostro ed evocando, seppure solo nel nome, la figura di King Kong.

domenica 24 febbraio 2019

Crocevia del destino

Paolo Brera in una foto di A. C. Cappi, 2011


Tributo a Paolo Brera
di Andrea Carlo Cappi

Ci sono giorni in cui si direbbe proprio che il Grande Sceneggiatore abbia oscuri disegni di cui potremmo quasi cogliere un filo... e, se solo ne fossimo capaci, forse le cose cambierebbero. I miei incontri con Paolo Brera ne sono la prova: neanche a farlo apposta, sono sempre stati un crocevia del destino. Fino all'ultimo.

Paolo Bera a un reading, foto di A. C. Cappi, 2011

La sera del 21 febbraio alla presentazione a "Ribs & Books" delle novità della casa editrice Clown Bianco, tra gli ospiti c'è Paolo Brera con il suo romanzo "Il futuro degli altri". In tale occasione racconto al pubblico che, quasi ogni volta che Paolo Brera e io ci incontriamo, si verificano eventi curiosi e importanti.
La primissima volta, credo nel 2006, ci incrociammo brevemente alla Libreria del Giallo di Milano, all'uscita del suo romanzo "Il veleno degli altri" (le parole "degli altri" nel titolo erano un suo marchio di fabbrica). Ma la conoscenza diretta nacque qualche tempo dopo, durante una manifestazione estiva sul giallo in Liguria: arrivarci, tra imprevisti meteorologici e automobilistici, era stato avventuroso, e l'evento a cui avremmo dovuto partecipare Brera e io - in una sala in cima a una scalinata vertiginosa - venne pure annullato (in effetti mi ero chiesto chi potesse voler assistere a una presentazione di libri in un luogo così impervio in un sabato sera d'estate: la risposta era nessuno). Così, dopo una telefonata dagli organizzatori, non ci alzammo neppure dal tavolo del ristorante. Tuttavia dalla nostra conversazione appresi innanzitutto che Paolo Brera, che conoscevo come scrittore, economista e giornalista per i suoi meriti, era figlio del leggendario Gianni Brera, di cui evidentemente aveva ereditato mestiere e talento. Avrei in effetti potuto notare un certa somiglianza anche fisica tra padre e figlio.
Inoltre scoprii che Paolo si era dedicato a raccogliere e tradurre vari testi sulla figura e il mito di Don Giovanni, elaborati nei secoli da vari autori: Zorrilla dallo spagnolo, Balzac dal francese, Pushkin dal russo, con in più suo padre con un testo teatrale e lui stesso con un racconto. Era un lavoro che avevo in mente da tempo e che avrei voluto (vorrei tuttora) completare anche con mie traduzioni di altre versioni; e in quel momento ero il direttore editoriale di una casa editrice con qualche ambizione culturale (poi devastata dall'incompetenza del marketing, ma questa è un'altra storia). Il viaggio in Liguria dunque era fallito sul piano delle presentazioni, ma permise la pubblicazione del bellissimo volume "Don Giovanni - Un progetto di Paolo Brera" (ora purtroppo fuori commercio). Non era la prima volta, del resto, che lui ideava un libro, poi incontrava un editore che voleva pubblicare proprio quel libro.
Paolo traduceva dal russo, dal francese, dallo spagnolo... da tutte le principali lingue europee, in effetti. Mi diceva che, una volta imparate quelle dei ceppi linguistici fondamentali, interpretare le altre diventava facile. Nel 2009 lo contattai persino da Praga per la curiosità di decifrare una scritta su una parete di un locale. Da profondo conoscitore dei classici, continuò nel tempo a comporre antologie tematiche di testi tradotti da lui: qualche anno fa lo ho messo in contatto con Algama Editore, casa editrice solo digitale, che ne ha pubblicati svariati in ebook, in pratica una collana tutta sua.
Ma nel 2008 era nato un altro progetto: in vista del 150° anniversario della nascita dello Stato Italiano del 2011, Paolo aveva in mente di scrivere un romanzo di intrighi politici ambientato durante il Risorgimento. Ma il suo progetto era ben più complesso: tutti i personaggi dovevano avere a loro modo dualità e contraddizioni (il capo dei servizi segreti austriaci che non è più del tutto viennese ed è quasi milanese; sua figlia, pure austriaca, che simpatizza tuttavia per i moti italiani...) mentre il protagonista, con le sue passioni, i suoi segreti e i suoi doppi o tripli giochi, era caratterizzato da una curiosa patologia all'epoca ancora ignota, a volte di ostacolo e a volte di aiuto nel suo "lavoro".
Paolo voleva che, da esperto di spy-story nella narrativa e nella realtà, lavorassi con lui al testo che lui aveva già in buona parte elaborato nel frattempo.

Paolo Brera e A. C. Cappi, foto di Emanuela Oliva, 2011

Sicché nel 2010, proprio mentre usciva il mio saggio "Le grandi spie" che mi aveva impegnato per metà dell'anno precedente, cominciai a occuparmi del "nostro" romanzo. Ricordo una sua telefonata cui non potei rispondere: il cellulare squillò mentre stavo correndo nell'aeroporto di Madrid per prendere una coincidenza verso Malpensa con l'urna delle ceneri di mia madre nel bagaglio a mano. Ma Paolo non si offese se non potei richiamarlo subito: a differenza di parecchia altra gente, comprendeva che una persona sempre indaffarata può anche... avere altro da fare.
Per quanto riguardava la parte medica, lui si era documentato sul testo autobiografico di un autore americano con cui - per caso - avevo collaborato a distanza a un libro successivo qualche anno prima. Io mi basai su un altro testo e alla fine diventai un esperto dell'argomento. Tanto da arrivare nel 2014 a riconoscere i sintomi di quella particolare patologia in una persona a me vicina: la mia preparazione in tal senso è stata determinante a indirizzarne la terapia verso nuovi orizzonti e, spero, verso la guarigione. Tutto grazie al romanzo, divenuto a sua volta un crocevia del destino.
A fine 2010 il libro era pronto e trovai l'editore, Sperling & Kupfer, che lo pubblicò nel settembre 2011 con il titolo "Il Visconte". Nel 2017, scaduto il contratto, è stato ripubblicato con un diverso montaggio dei capitoli e il titolo con cui lo avevamo proposto in origine, "La spia del Risorgimento", in un'edizione in volume ad alta tiratura in edicola e nel contempo in ebook da Algama, da cui è tuttora disponibile.
Giusto la sera del 21 febbraio scorso abbiamo parlato del nostro progetto di proseguire la serie, con Paolo Brera nel ruolo di autore principale e un mio ruolo più modesto come editor: era lui, con la sua cultura, il profondo conoscitore delle finezze storiche e linguistiche. Se non ha già scritto e non viene ritrovato un file con almeno parte del secondo romanzo, "Il Visconte tra le nuvole", temo che la vicenda del nostro eroe si fermerà al primo libro.
Ma i crocevia del destino sono continuati. Come organizzatore di eventi letterari, ho tra le varie sedi il Cafè Clubino di via Cosseria 1. Paolo Brera, che aveva incontrato un gruppo di lettrici a Tempo di Libri 2017, le invitò a partecipare a un paio di miei eventi al Clubino. Non riuscirono a organizzarsi per il primo, ma alcune si presentarono al secondo, il 17 giugno. Ricordo che Andrea G. Pinketts e io approfittammo dell'occasione per rendere omaggio ad Alan D. Altieri, morto all'improvviso quella settimana. Quando una delle amiche di Brera si fece fare una dedica su un mio romanzo, disse che lo avrebbe letto di lì a poco in una vacanza appena prenotata. Intuendo di essere a un nuovo crocevia, le chiesi dove fosse diretta. In effetti, due settimane dopo ci trovammo sullo stesso aereo per la Spagna che io avevo prenotato da tempo... e un'altra serie di coincidenze semplicemente romanzesche fece sì che lei diventasse la mia fidanzata e determinasse a sua volta una serie di eventi epocali nella mia vita.

Paolo Brera, al centro, 4/2/2019, foto di F. Giacomelli


Nell'autunno 2018 agli eventi al Clubino aggiunsi una serie parallela di incontri in un'altra sede, il Ribs and Beer di Lambrate, coprendo così un'altra zona di Milano. Approfitto sempre dei gestori di locali che amano la letteratura. Di lì a poco Clown Bianco Edizioni mi propose di presentarvi due sue novità... senza sapere dei miei rapporti pregressi con i due autori: dell'amico Riccardo Landini avevo fatto l'editing di un romanzo, ma l'altro autore era proprio Paolo Brera. La data venne fissata per giovedì 21 febbraio, dalle 18 alle 20. Una piacevole serata, anche se avrei voluto la sala piena come al solito; ma la Fashion Week, la partita dell'Inter delle 21 e un altro evento concomitante per il volume "Delitti alla milanese" forse hanno distolto i nostri potenziali seguaci. Paolo si è trattenuto a cena, moderandosi nel cibo e nel vino (era molto attento alla salute); parlammo del nostro Visconte e dell'incontro cui avrebbe dovuto partecipare a "Monsieur Le Pop" a Marina di Andora tra qualche mese, presentando sia il suo nuovo volume, sia una riedizione di un libro di suo padre. Poi lui si diresse alla metropolitana.
Dove sarebbe morto di infarto, probabilmente mezz'ora dopo. La notizia, incredibile e devastante, mi è arrivata il pomeriggio seguente, proprio mentre stavo lavorando all'editing del libro postumo di Andrea G. Pinketts, un altro comune amico scomparso da poco. Avevo parlato tutta la sera dei crocevia del destino e del fatto che ogni volta che Brera & Cappi si incontravano succedeva qualcosa. Ma che proprio quella sarebbe stata l'ultima sera, l'ultima cena, proprio non avrei potuto immaginarlo.


Paolo Brera, a destra, 21/2/2019 (foto: Clown Bianco Edizioni)

L'addio a Paolo Brera: domenica 24 febbraio 2019 dalle 16.00 alle 19.00 presso la casa funeraria San Siro in via Arcangelo Corelli 120, Milano; lunedi 25 febbraio 2019alle 11.00 alla chiesa San Bartolomeo di San Zenone Po (Pavia).

mercoledì 20 febbraio 2019

Gli anni della birra letteraria


Ricordi e promemoria di Andrea Carlo Cappi


Presentare libri in modo non convenzionale in un bar o ristorante-bar, fare intrattenimento culturale, parlare di letteratura e non solo senza annoiare il pubblico - anzi, divertendolo - di fronte a un bicchiere. La birra letteraria che prende il posto del caffè letterario. Non è una novità: a Milano è una tradizione che dura da ventisette anni.
Era il 1992 quando Andrea G. Pinketts ideò il Seminario per Giallo e Bar, mentre il giallo italiano cominciava a trovare posto nell'editoria e si scatenava lo scandalo di Tangentopoli. Divenni un assiduo frequentatore degli incontri settimanali nel 1993 e dal 1995 fui io ad affiancare Pinketts nella conduzione, quasi ogni giovedì per oltre vent'anni. Nel 2011 inaugurai all'Admiral Hotel gli appuntamenti paralleli di Borderfiction Eventi, che hanno visto spesso la partecipazione di Pinketts e ora continuano con "Borderfiction Clubino" al Cafè Clubino di via Cosseria 1 e con "Ribs & Books" al Ribs and Beer di via Pitteri 110.
Giovedì 21 febbraio, per esempio, al Ribs di Milano Lambrate è di scena una casa editrice indipendente, Edizioni Clown Bianco, che si presenta con due autori di tutto rispetto: Paolo Brera e Riccardo Landini, dei cui nuovi libri trovate le recensioni sulle pagine di Borderfiction Zone.
Come amo ricordare, è un'attività culturale in cui non è mai stato speso un centesimo di denaro pubblico, a ingresso libero (anche se i locali si finanziano con le consumazioni, che peraltro hanno prezzi più che accessibili), necessaria ora più che mai. Pinketts non è più tra noi, ma spero di poter continuare la sua tradizione con gli altri colleghi e amici che ci hanno affiancato nel tempo... e raggiungere quantomeno il traguardo dei trent'anni. Anche se gli appuntamenti non hanno più frequenza settimanale, il Seminario per Giallo e Bar continua. Ci vediamo giovedì.

Pinketts & Cappi, 2011; foto: Stefano Trovati/SGP


Cacciatore di...

Tecla e Cappi: rituale "Carvalho" alla Libreria del Giallo negli anni '90  


Racconto di Marcello Cimino

Negli anni Novanta a Milano la Libreria del Giallo in piazza San Nazaro in Brolo, fondata da Gian Franco Orsi de "Il Gialllo Mondadori", poi gestita e rilevata da Tecla Dozio, era un punto di riferimento per autori, cultori e lettori di narrativa di genere in Italia. Tanto quella sede quanto quella successiva in via Peschiera furono un vero e proprio salotto letterario che ospitò scrittori italiani e stranieri, e in cui nacquero diversi libri a partire dall'antologia della Scuola dei Duri, "Crimine Milano Giallo-Nera". Per diversi anni ci lavorai anch'io, prima di essere assorbito completamente dal lavoro nell'editoria.
In piazza San Nazaro erano di casa Renato Olivieri, Andrea G. Pinketts, Carlo Lucarelli; passarono di lì Evan Hunter e Manuel Vázquez Montalbán; tra i frequentatori più assidui figurava Marcello Cimino - apparso all'epoca anche in un mio racconto della serie "Cacciatore di Libri" - che oltre a essere un esperto di narrativa gialla si è dilettato più volte e con successo nella scrittura di genere.
Intorno al 1995 alcuni di noi scrissero racconti ambientati alla Libreria del Giallo e imperniati sui personaggi che la frequentavano. Marcello ne produsse uno in chiave sarcastica e vetrioleggiante che, riemerso in questi giorni dalle nebbie del giallo italiano, riporta alla memoria tanti amici, molti dei quali ormai assenti. (A. C. Cappi)



Piccola guida ai luoghi e ai personaggi principali:

La Sherlockiana, meglio nota come Libreria del Giallo, situata in piazza San Nazaro in Brolo, in un fondo di proprietà della Curia, adiacente alla omonima chiesa

Tecla Dozio proprietaria e animatrice della suddetta, nonché musa di molti giovani talenti
Andrea Carlo Cappi scrittore, traduttore, saggista, nonché cacciatore di libri per conto della Libreria. Grande appassionato di hardboiled ma dotato, ahilui, di un fisico da staccatore di biglietti sul tram
Andrea G. Pinketts scrittore, modello, sceriffo, ma soprattutto depositario di un ego spaventoso
Carlo Oliva scrittore, traduttore, saggista, ex-professore del Liceo Parini, grande affabulatore
Attilio Guardamacchia ispettore capo della Squadra Omicidi
(unico personaggio inventato)
Amici, parenti, scrittori, giornalisti…..


30 agosto 1995

Quella mattina, destandosi da sogni inquieti, Andrea Carlo Cappi si ritrovò nel suo letto completamente avvolto in un bagno di sudore.
L’improvvisa morte di Tecla Dozio, attivissima titolare della Libreria del Giallo, nonché sua datrice di lavoro, l’aveva ovviamente sconvolto.
Era stato lui a trovare il cadavere, due giorni prima. Il lunedì Tecla non lavorava e toccava a lui aprire la libreria al pomeriggio.
Puntuale come sempre, era arrivato in piazza San Nazaro poco prima delle sedici e si era diretto verso l’ingresso sul retro. Aveva inserito la chiave nella toppa e girato verso sinistra, ma non era riuscito a fare più di mezzo giro; allora aveva abbassato la maniglia e la porta si era aperta. Possibile che sabato sera Tecla si fosse dimenticata di chiudere a chiave?
Era entrato guardingo e, appena superato il bagno, l’aveva vista. Tecla era seduta con la testa rovesciata all’indietro e gli occhi sbarrati che puntavano un punto imprecisato sul soffitto. Le braccia ricadevano inerti lungo il corpo e solo lo scarso spazio tra la sedia e la scrivania aveva impedito al corpo di scivolare sul pavimento. I segni presenti sul collo sembravano indicare morte per strangolamento.
Cappi aveva cercato di non perdere la calma, anche se avrebbe voluto vomitare lì, sul posto. Ma così facendo avrebbe inquinato eventuali prove, e lui, noto Cacciatore di Gialli nonché giallista a sua volta, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Come si sarebbe comportato Archie Goodwin in un simile frangente? Certo non avrebbe vomitato davanti al cadavere di Nero Wolfe.
Confortato da tale riflessione, uscì di corsa e vomitò nel cortile dei preti.
La polizia, chiamata dal portiere dello stabile, informato dell’accaduto da Cappi stesso, era arrivata in pochi minuti. In pochissimo tempo la piazza si era riempita di gente: giornalisti, amici della vittima, curiosi e poliziotti, tanti poliziotti che tentavano di tenere tutti a debita distanza.
Il medico avrebbe stabilito che la morte doveva risalire a circa ventiquattr’ore prima e che probabilmente era stata causata da strangolamento. Mentre i poliziotti della Scientifica cospargevano di polverina bianca tutto ciò che era alla loro portata, l’ispettore Guardamacchia, incaricato delle indagini, aveva chiesto a Cappi di controllare se tutto, all’interno della libreria, apparisse in ordine.
Cappi aveva controllato la cassa, il cassetto dove venivano custoditi gli incassi dei giorni precedenti (i versamenti venivano fatti regolarmente ogni martedì mattina) e il resto della scrivania. A parte la tastiera del Mac che era caduta sul pavimento, probabilmente in seguito alla colluttazione tra la vittima e il suo assassino, tutto sembrava essere al suo posto. Tecla non doveva aver opposto molta resistenza. Eppure Cappi provava una strana sensazione, c’era qualcosa che non quadrava, lo sapeva, ma non riusciva a capire cosa.

Erano passati due giorni. Le indagini non avevano ancora portato a nulla. Tecla era benvoluta da tutti, non aveva nemici e certo non era la rapina il movente dell’omicidio. Dalla libreria sembrava non mancare niente, e poi, dove si era mai visto un rapinatore di libri?
Ma era un’altra la domanda a cui gli inquirenti volevano dare una risposta: cosa ci faceva Tecla Dozio in libreria in quell’ultima, caldissima e afosissima domenica di agosto?
Cappi si rigirò ancora un po' nel letto, poi, vinto dall’ansia, si decise ad alzarsi. Era sempre più convinto che la soluzione del mistero si trovasse in libreria, in qualcosa che lui aveva visto ma che non riusciva a mettere a fuoco.
I funerali erano fissati per le undici.
Il Comune di Milano, su richiesta dei familiari, aveva dato l’autorizzazione a tenere la cerimonia funebre, rigorosamente laica, nella piazza antistante la Libreria del Giallo. Quando Cappi arrivò erano da poco passate le dieci, eppure la piazza era già affollata di gente. C’erano i “bolognesi”, Lucarelli, Cacucci, Narciso, Bernardi, con quella sua faccia da John Belushi triste, Nerozzi e Rigosi nella loro solita divisa da funzionari del Partito Comunista Cecoslovacco, la Dhany Coraucci, che se la tirava come sempre.
C’era la Scuola dei Duri al completo: Ossola, Oliva, Riva, Pinardi e Pinketts. Marcello Cimino e Cesare Fiore con gli occhi gonfi di lacrime, forse per il dolore, o, molto più probabilmente perché Tea Vergani aveva deciso di raccontare loro, nei minimi dettagli, l’ultimo convegno che aveva organizzato. Romualdo Grande che, tanto per non smentirsi, aveva trovato il modo di attaccare discorso con un’addetta delle pompe funebri. Curtoni e Massaron che, essendosi vestiti per l’occasione come due bancari, salutavano tutti e non venivano riconosciuti da nessuno. E poi Orsi, Olivieri, Rizzoni e tantissima altra gente.
Alle undici in punto Carlo Oliva, con la voce rotta dall’emozione, iniziò la sua orazione funebre. Parlava dando le spalle all’ingresso della libreria e Cappi, nonostante si trovasse a pochi metri di fronte a lui, non lo sentiva. Stava fissando la vetrina, alla sinistra di Oliva, e in particolare stava guardando le tre file di libri dalla copertina rossa, tutti uguali, che occupavano l’intera scaffalatura.
E all’improvviso comprese.
Si guardò intorno, cercando di non dare nell’occhio, e individuò il suo uomo.
Doveva pensare in fretta.
Oliva stava parlando ormai da quindici minuti e Cappi sperò che, anche in quell’occasione, il mitico ex-professore del Parini tenesse fede alla sua fama di oratore facondo e ispirato, e magari anche un po' prolisso.
Gli servivano ancora dieci minuti.
Se conosceva bene il suo uomo, la sua idea avrebbe funzionato.
Non ci sarebbero state altre occasioni.
Ricacciando indietro i conati di vomito che gli venivano dal profondo della stomaco, si defilò dal mucchio e raggiunse l’ispettore Guardamacchia dentro il portone dello stabile.
Guardamacchia, come aveva visto fare nei telefilm di Derrick, era andato ai funerali sapendo che ci sarebbe stato anche l’assassino, ma non aveva la minima idea di come avrebbe fatto a identificarlo.
Cappi, al riparo dal portone, gli parlò brevemente all’orecchio e poi si diresse all’ingresso posteriore della libreria.
Oliva, fuori, stava ancora parlando quando qualcosa, dall’interno della vetrina, cominciò a muoversi, distraendo gli astanti. Cappi stava togliendo dagli scaffali i libri con la copertina rossa, sostituendoli tutti con le copie del nuovo romanzo di Olivieri con le gesta del commissario Ambrosio.
Oliva si voltò a guardare cosa stava accadendo.
Proprio in quel momento qualcuno, tra la folla, si mosse.
Mentre nella piazza rimbombò un “ORC...!!!“ un uomo in giacca rossa, pantaloni neri e camicia gialla con cravatta in tinta prese Oliva di peso tirandolo giù dallo scalino, sfondò con una spallata la porta della libreria e si lanciò su Cappi, tentando di strangolarlo.
Immediatamente un nugolo di poliziotti gli fu addosso e, seppure con una certa difficoltà, fu messo in condizioni di non nuocere.
Cappi si rialzò massaggiandosi la gola e guardò Pinketts negli occhi dicendogli: -Ho capito che eri stato tu quando ho visto la vetrina con tutte quelle copie de "Il senso della frase". Io stesso, venerdì scorso, l'avevo riempita con il libro di Olivieri e tu questo non hai potuto sopportarlo. Con una scusa hai attirato Tecla in libreria e, di fronte al suo rifiuto di cambiare la disposizione della vetrina, l’hai fatto tu, dopo averla strangolata.
Pinketts, che nonostante fosse stato pestato e strattonato da dieci poliziotti, aveva ancora il sigaro in bocca, lo guardò con tutto il disprezzo di cui era capace. - Cosa ne vuoi sapere tu, piccolo sgabello della natura, di ciò che prova un grande scrittore vedendo la sua opera estromessa proditoriamente dal suo ambito naturale, dal posto che le spetta di diritto? Sei un morto che cammina, Cappi. Sei come Salman Rushdie. Prima o poi ti prenderò!
Cappi sentiva su di sé gli occhi di tutti. Era un eroe, aveva risolto il caso rischiando la vita, aveva reso giustizia a Tecla. Il palcoscenico era suo, non doveva sbagliare la sua battuta.
Pinketts era davanti a lui, trattenuto da decine di mani.
Cappi gli si avvicinò.
Lo guardò dritto negli occhi.
E gli vomitò addosso.


Per quanti fiori ci siano


Lo scrittore Andrea G. Pinketts era così presente nella vita culturale milanese e nelle vite di chi lo ha conosciuto, che il tempo dalla scomparsa si misura ancora in mesi. Oggi ne sono passati due e Borderfiction lo ricorda, per cominciare, con la riflessione di Numa Echos - artista rock, scrittrice e autrice della celebre foto per la quarta di copertina dell'ultimo romanzo, "La capanna dello zio Rom" - scritta a caldo con le parole proprie e quelle dello stesso Pinketts.

Riflessione di Numa Echos

Non esistono parole adeguate per descrivere una perdita. Non ci sono lacrime sufficienti per smaltire il dolore. L’accezione del dolore come un distillato, l’assoluta perfezione del dolore che è la cosa peggiore che ci sia. Non ho mai pensato che esistesse la perfezione e che il dolore potesse essere talmente perfetto.
Le immagini prendono confusamente forma nel caotico vano neuronale. Andrea G. Pinketts esce in silenzio dal bar, mentre la fleboclisi di birra ora è un ricordo appeso a un supplizio di silenzio e il sigaro acceso rammenta effluvi d’incenso a una veglia funebre. S’incammina per le nebbiose e umide vie della Milano d’inverno, presentandoci il conto dell’ultima cena. Lui che aveva una relazione apparentemente stabile con la vita, ma una tresca con la morte, ora l’ha raggiunta per sempre ed è convolato a nozze. In silenzio. Lui che più di tutti aveva “il senso della frase” ora cede la parola ai devoti per lasciarli dolorosamente riflettere sul “senso della vita” che non si riesce ad afferrare, o al “senso della morte” che non si può evitare.
Impossibile non amare un maestro di luce e intelletto, non accorgersi della generosità di un uomo che donava se stesso disinteressatamente, per una giusta causa umana o intellettuale, nel nome della parola, del cuore e dell’evoluzione della letteratura. I ricordi sono frastagliati, innumerevoli flash che profumano di vissuto intenso, confronto denso, segreti rivelati e confidenze innocenti, di quel primo incontro che sarebbe stato il primo di tanti, quel primo incontro nel “noir” di una notte luminosa. L’ironia nei gesti di un uomo che giocava con i significati, trovava un significato a ogni sembianza di significato apparentemente priva, donava significato all’attimo e a ogni circostanza. Tante anime ad animare le sue notti e i suoi crepuscoli. E come diceva Il Genio della parola, amici come coperte. Coperte termiche d’inverno. Fresche lenzuola d’estate. Perché senza gli amici sei nudo. Nasci nudo. E chi ti vuol bene comincia a coprirti, ti copre per tutta la vita. E anche dopo morto copre di fiori il tuo cappotto di legno.
Lasceremo che questa volta Andrea ci ascolti senza elaborare una critica, che ci indirizzi mediante l’onnipotenza dei suoi capolavori, che sia il ricordo infinito che ci avvicina all’idea d’immortalità. Cercheremo una soluzione al suo ultimo “giallo” ma non la troveremo. Giocheremo a nascondino con la vita nella speranza di una resurrezione. Una notte, quando avremo concretizzato tale idea, ci ritroveremo a dialogare sui segreti della prossima vita, tenendoci le mani per l’ennesima volta e sorseggiando l’eternità.
27 12 2018

“Nei cimiteri, per quanti fiori ci siano, non è mai primavera”.
Andrea G. Pinketts

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